Religione – Religiosità
Religione, religiosità, due termini che non riflettono la stessa cosa. Il vocabolo “religiosità” può essere letto nel senso di un atteggiamento, quello dell’essere religioso ossia del coltivare un sentimento, un trasporto, un anelito, una spinta verso qualcosa di impellente e indefinito, un bisogno che viene dal profondo. Per tutto ciò non è, o può non esserlo necessariamente, legato a una religione.
Quest’ultimo sostantivo riflette piuttosto un’origine lessicale che, per affinità, riporta al religare dell’antichità latina, referente semantico con valore di legare, di creare un vincolo con la divinità. “Religione” si definisce pertanto come un insieme codificato di credenze e di atti di culto che vincolano l’esistenza della persona e delle comunità a qualcosa ritenuta nella fattispecie di ordine superiore o divino che starebbe all’origine e si porrebbe a fine supremo di tutto ciò che c’è. Religione, in tal senso contrapposta a religiosità. Mentre questa è libera, naturale, strettamente personale, vissuta in rapporto diretto con il Sublime-Inconosciuto-Inconoscibile, non sorretta da certezze ma compagna del dubbio e proiettata in una ricerca senza fine, quella assume tutti i caratteri dell’istituzione con tanto di regolamentazioni giuridiche, etiche, morali fondate su comandamenti e precetti, finemente articolata in congregazioni, gerarchie terrestri e celesti, ordini, prelature e fonti di supporto finanziario, coercitiva nel suo imporre l’esser disposti ad abbandonarsi al credo e all’obbedienza, presuntuosa oltre i limiti e autoritaria nell’ergersi a mediatrice tra l’uomo e l’Assoluto, a imporsi come giudice e arbitro della vita spirituale e talvolta fisica dei propri adepti, sedicente detentrice inconfutabile della Verità perché trasmessale, incontestabilmente, da Dio per via diretta e per ispirazione.
Ora, se vogliamo dedicarci a riflettere sulla valenza letterale dei termini “religione-religioni”, non possiamo fare a meno di riportarci alle origini e qui si pone subito un’alternativa: è la religione da attribuirsi a una rivelazione trasmessa dalla divinità agli uomini e per sua intrinseca natura proponibile in seguito a interpretazione autorevole oppure essa scaturisce da un’esigenza connaturata all’umano esistere?
Per quel che possiamo immaginare sarebbe da riandare al primo atto dell’apparizione della consapevolezza nel comportamento dell’uomo, cosa che portò l’essere capace di levare gli occhi al cielo, di fronte alle imponenti, terribili e devastanti forze della natura, a inchinarsi per timore, poi a fantasticare attorno a poteri e interventi nell’ordine del magico, via via controllabili attraverso sacrifici propiziatori, infine ad attribuire le manifestazioni di potenza e di terrore a un Ente superiore, invisibile, impalpabile, ineffabile, con il quale tuttavia, grazie al favore di opportuni intermediari, sarebbe stato possibile avere un ben definito rapporto di sudditanza-alleanza-protezione. Fu così che ebbero buon agio a emergere i fondatori delle religioni, per i quali il compito si risolveva nel creare durevoli connessioni tra le paure e i bisogni ancestrali da una parte e, dall’altra, il potere infinitamente superiore della divinità. In quest’ottica, dunque, le religioni attecchirono facilmente sull’iniziale ingenua e intrinseca religiosità che l’uomo pensante recava in sé sin dal momento del formarsi della propria personalità psico-emotiva.
Qui è d’obbligo imporci una breve sosta e spostare il pensiero su una delle innumerevoli espressioni religiose che dominano il mondo, quella più vicina a noi, la religione cattolica. Una religione che ha radici lontane, risalenti alla creazione del mondo addirittura. Dunque per saperne qualcosa in più è fortemente consigliabile andare a spulciare fra le pagine di quei documenti, di taglio storico o semplicemente letterario, la cosa è controversa, che si dice riportino la voce della Verità: i libri sacri del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Mi soffermerei qualche po’ sui primi di questa serie, poiché si parla molto della Bibbia, come rivelazione di Dio, ma se ne cita soltanto un verso, quello che pare più edificante, rassicurante, celestiale. Non si leggono nei templi, né ai bambini in famiglia o nelle scuole, i passi complementari che pongono certi racconti biblici in una luce terrifica, diabolica, esecrabile sul piano della valutazione etica. Ma è pur sempre parola di Dio! Ci troviamo a fare i conti con qualcosa che deve essere tenuta occultata? Ma perché?
Da qui, un interrogativo: è proprio possibile che la religione cattolica si sia andata costituendo su certi presupporti dalle tinte livide e abbia generato innesti su un fondo storico fatto per lo più di violenza, xenofobia, vendetta, delitti, genocidi? Eppure, pare sia andata così. Eccone qui di seguito alcuni, soltanto sporadici, esempi, analizzati i quali o, meglio, andando a rileggere tutti i libri del Vecchio Testamento, potremo più o meno serenamente decidere se far conoscere ai nostri bambini episodi e fatti di datazione veterotestamentaria nella loro totalità.
Un avvertimento: si dirà “ma allora era così, il mondo funzionava in quel modo” senza chiedersi come sia stato possibile prolungare un filone di violenza inaccettabile per coltivarvi sopra il fiore dell’amore. Provo un senso di sbigottimento nell’accingermi a portare avanti questo discorso, ma qualcos’altro viene a confortarmi: la consapevolezza, sempre più chiara, che la Verità nessuno in assoluto la conosce, che l’unico approccio veramente degno di essere tentato sia quello del produrre continui e interminabili tentativi, pur sempre ardui e angosciosi, per avvicinarci quanto più possibile al Vero.
Veniamo al sodo. La Sacra Bibbia, nella parte relativa al Vecchio Testamento, ci dipinge il Dio d’Israele come un’Entità altissima, potentissima, nello stesso tempo dominatrice di uno stuolo di sudditi fedelmente, ma non sempre, sottomessi, padrona buona e terribile, pronta a usare la sferza per mettere ordine fra i riottosi o per vendicarsi delle inosservanze e delle devianze in materia di culto. Incontriamo, scorrendo le pagine dei sacri Testi, l’immagine di un Creatore invocato e temuto, capace anche, a sua volta, di lasciarsi sopraffare dal timore di essere tradito e abbandonato dal popolo prescelto.
Dio crea l’uomo, ma ben presto si rende conto, forse non l’aveva previsto, che la sua creatura è preda della malizia e coltiva pensieri malevoli. Ne prova nausea, si pente d’averlo formato e decide di sterminarlo (Genesi, 6°, 6-7). Come chi scrive una lettera venuta male, la straccia e la butta nel fuoco. Un Dio sovraccaricato, dunque, di tutti i requisiti più consoni all’umana natura; come vedremo, perfettamente antropomorfizzato.
Un Dio geloso e vendicativo: “Ma io vi caccerò da questa terra… perché i vostri padri mi hanno abbandonato… e sono andati dietro a dei stranieri… gli uccisi del Signore in quel giorno saran da un’estremità della terra all’altra… li verrò a trovare con quattro flagelli: la spada per ucciderli, i cani per sbranarli, gli uccelli del cielo e le bestie della terra per divorarli e disperderli… giaceranno sopra la faccia della terra come concime” (profeta Geremia, 15°, 16°, 25°) “… e sbranerò le loro interiora fino al cuore… periscano sotto la spada, i loro bambini siano sfracellati, le loro donne gravide sventrate” (Profeta Osea, 13°, 14°).
Un Dio degli eserciti che scende in campo e combatte a fianco del proprio popolo, come quando fa sì che la vittoria arrida a Giosuè sui re cananei a Gabaon: “Presa Macera, la passò a fil di spada… fino allo sterminio… uccise tutto quello che poteva respirare… il Signore Dio d’Israele combatté per lui” (Giosuè, 10°)
Una interminabile sequenza di eccidi e massacri la scopriamo leggendo i Libri dei Giudici e i Libri dei Re: efferatezze, stragi di massa, eliminazioni di intere popolazioni, pulizie etniche. Re David, capostipite del ramo dal quale discenderà Gesù salvatore, conquistò Rabbat, poi “Ne condusse via gli abitanti e li fece segare, fece passar sopra di loro dei carri ferrati, li tagliò a pezzi con coltelli, li gettò in forni da mattoni. Così trattò tutte le città dei figli di Ammon” (II Re, 12°).
Crudeltà, sadismo, follia demenziale si uniscono a dare sfogo a un odio senza limiti. Ancora dai Salmi di David: “Dio schiaccerà le teste dei suoi nemici… In modo che il tuo piede sguazzi nel sangue dei nemici… ed anche la lingua dei tuoi cani ne abbia la sua parte” (II Salmi, 67°). Poi Giuda Maccabeo, con centinaia di migliaia di morti massacrati (parrebbe quasi di assistere a una lugubre anticipazione epocale della tragedia consumatasi nelle undici battaglie dell’Isonzo dal 1915 al 1917) aiutato dagli angeli del Signore, scesi dal cielo con la spada in pugno per aggiungere strage a strage.
La bontà, la misericordia, la pietà non avevano certo dimora nella mente e nel cuore di quei personaggi, neppure quando Eliseo, per il solo motivo di essere stato fatto oggetto di beffe, dispose che due orsi sbranassero quarantadue ragazzi rei della colpa loro attribuita.
Cifre alla mano, la statistica ci riporta a un numero spropositato di vittime dell’odio riversato dal popolo d’Israele sui suoi dichiarati nemici. Nemici perché non adoravano il Dio Jahvé o per questioni economiche o per interessi espansionistici? In sostanza, riflettendo bene, c’incontriamo con un popolo d’Israele che si presenta nelle vesti di giustiziere o killer specializzato del Vecchio Testamento, immancabilmente incitato da Jahvé la cui voce tuonava: “Trattate i Medianiti come nemici e uccideteli… uccidete tutti i maschi anche di tenera età, e tutte le donne che hanno conosciuto l’uomo… Quando avrete passato il Giordano e sarete entrati nella terra di Canaan, sterminate tutti gli abitanti di quel paese… Ma se non ucciderete gli abitanti del paese… io poi farò a voi tutto ciò che avevo pensato di fare a loro” (Numeri, 31°, 33°). Noi la definiremmo istigazione alla violenza bruta, legittimazione di epurazione di massa.
Nella guerra contro gli Amaleciti Samuele incita Saul: “Ecco quanto dice il Signore degli eserciti… va a percuotere Amalec, distruggi ogni suo avere… uccidi uomini, donne, fanciulli e bambini di latte, buoi e pecore e cammelli e asini” (I Re, 15°).
Dall’alto, intanto, il Dio degli eserciti si sollazzava scagliando maledizioni terribili ora sul popolo eletto ora sui suoi nemici, maledizioni seguite da giorni di tregenda e di morte.
Un computo assai approssimativo pone dinanzi ai nostri occhi un’ecatombe storica valutata a molto più di un milione di vite strozzate dall’odio, evento che entrerà in competizione soltanto con gli eccidi di massa perpetrati dalla follia omicida divampata durante il secondo Conflitto mondiale. Con la sproporzione dei mezzi di massacro, tuttavia: se andiamo a considerare che nel Vecchio Testamento gli assassini ricorrevano, non già alle mitragliatrici e ai gas letali, ma all’uso di spade e attrezzi manuali di morte, vien da pensare che si siano dati un bel da fare davvero per totalizzare un tributo così alto di vittime sull’altare dell’insania sterminatrice. Il libro dell’Apocalisse, infine: se vi va di leggerlo, provatevi a enumerare quante volte ricorrono le parole “sangue, ira, morte, spada, vendetta”.
Una rapidissima escursione nella fase neotestamentaria, tanto per variare l’ambientazione storica e il contorno culturale che la caratterizza, ci consente di avvederci quanto quell’aura pesante di violenza non sia stata dissolta con l’avvento della Parola di perdono e di amore portata da Gesù il messia. Limitiamoci alle guerre di religione: crociate armate contro l’Islam e gli eretici, persecuzioni ed elevazione di roghi umani, caccia alle streghe con tutto il seguito di sevizie orrende e altre, molte altre vicende vergognose.
Il 31 ottobre 1517 Martin Lutero osò affiggere sulla porta della cattedrale di Wittemberg le famose novantacinque tesi, atto che segnò l’inizio della Riforma protestante, con lo scatenarsi della furia per mano delle potenze cattoliche: un lungo e triste periodo prolungatosi sino alla guerra dei Trent’anni, sino al 1648 per fare data, in collusione o in connubio con l’emergere di contrasti e interessi secolari sul piano delle politiche europee. Ricorderò soltanto le stragi perpetrate nel corso della battaglia di Kappel l’undici ottobre 1531, il massacro operato sui protestanti a Vassy il primo di marzo 1562, la strage di San Bartolomeo il ventiquattro agosto 1572.
Ultimo, ma non meno importante, l’uso indotto del cibarsi del corpo e del sangue di Cristo, reminiscenza atavica di riti tribali risalenti all’infanzia dell’umanità, allorquando, come descritto in una trattazione lasciataci da Sir James George Frazer (Il Ramo d’Oro), a un certo punto della vita sociale diveniva necessario sopprimere il vecchio re, cibarsi delle sue carni e bere il suo sangue per riappropriarsi di quello spirito vitale che avrebbe garantito continuità e prosperità generativa agli uomini, agli animali e alle messi.
Un coacervo allucinante di aguzzini, sadici mostri della mannaia e, per concludere, pure cannibali.
Una mia riflessione personale. Il Dio dipinto nelle scene del Vecchio Testamento, e oltre ancora se mi è consentito, non è quel Dio la cui idea, non circoscrivibile né rappresentabile, alberga tormentosa nella mia mente e si diffonde a comprendere l’Universo intero. Abissale è la distanza che separa un simulacro quanto mai grottesco, talvolta persino buffo ma quasi sempre raccapricciante, da un concetto di Assoluto il cui Pensiero e la cui Volontà comprendono tutte le cose e il senso d’esser di tutte le cose.
Torno lesto lesto all’argomentazione centrale delle mie ambiziose speculazioni, pena il rischio di disperdere il filo del discorso in tematiche di per sé indubbiamente interessanti ma richiedenti una trattazione specifica a parte.
Resto dunque caparbiamente in ambito scientifico, psicologico, filosofico, perché una mente mi è stata data e di essa intendo fare l’uso più appropriato nella mia corsa verso la luce, verso la ricerca della verità. Allora torno a piè pari alla considerazione ingenua e profonda formulata dal vecchio della montagna di fronte a un trapassato: “Come se non fosse mai nato” e amo riprendere a farmi torturare da quell’idea insistente della parte di me che è autocosciente, dalla mia consapevolezza.
“Come se non fosse mai nato”, ma, allora, se decidiamo di dar credito a un’osservazione di questo livello speculativo, perché è nato? La sua esistenza, in sostanza, è stata un susseguirsi e un avvicendarsi di azioni sempre uguali, giorno dopo giorno, anno dopo anno, modulate esclusivamente dalle caratteristiche stagionali. Questo, perché era anche lui un montanaro, pastore di greggi. Non godette di particolari possibilità di comunicazione verbale, se non di quelle offerte dall’ambito familiare e da un ristretto vicinato con il quale avesse avuto opportunità di condividere e commentare le vicissitudini del tran-tran quotidiano. Eppure il suo esordire in quella declamazione mi induce a credere che, pur nella solitudine del proprio vagare tra i monti, quel vecchio avesse esercitato una non consueta capacità di introspezione e di ricerca sul filo di questioni riguardanti l’esistenza dell’uomo.
Noi tutti siamo nati, potevamo non nascere. Per un puro caso siamo qui, in questa valle di lacrime. Così è andata, ma i nostri genitori avrebbero potuto decidere per un altro momento quello che fu l’incontro dei due gameti oppure l’uno e l’altro di loro avrebbero potuto unirsi con partner diversi e con quelli procreare.
Io! Sarei ancora nato io? Non sto pensando all’organismo, credo sia ormai chiaro che non è quello il centro della mia attenzione. Sono venuto al mondo io perché so di esserci, e non è un’altra entità fisica e psicologica che lo sa, sono proprio io che so di essere me stesso, io, la mia personale consapevolezza e conoscenza di me. Se, poi, quei due gameti avessero mescolato il proprio DNA in tempi differenti o per cambio di partner, allora che ne sarebbe venuto fuori? Un altro Io, del quale nulla potrei sapere, affondato nella palude di un’altra esistenza, estraneo a ogni mia consapevolezza? E io, che qui in questo momento immagino e scrivo, dove sarei? Da nessuna parte, fuori dello spazio e del tempo oppure in un contesto di possibilità? Senza coscienza? Senza sapere di esserci perché immerso nel nulla eterno e dunque non partecipe dell’esistenza? Potrei immaginare uno stato di anestesia totale perpetua che potrebbe protrarsi in eterno oppure interrotta a un punto determinato della vita del Cosmo in ossequio a chissà quale motivo?
Mi balena alla mente una considerazione bizzarra: sto farfugliando di qualcosa che lontanamente assomiglia al concetto dell’Universo al momento del Big-bang. Si dice che da quel punto iniziarono a crearsi il tempo e lo spazio. Prima non c’erano, prima c’era il nulla. Ma, attenzione, che cosa vuol significare quel “prima”? Per quanto ne sappiamo un prima può esistere sulla linea del tempo. Già, ma se “prima” del Big-bang il tempo non esisteva, posso ancora usare tale termine? La risposta è introvabile, rientra in un paradosso, così come lo è per il mio essere qui e ora. Come a proposito dei paradossi linguistici, qualora si voglia attribuire un significato all’affermazione del mentitore che esclama: “Io mento!”.
Dunque, c’è da scommettere, dovevamo nascere; io, nel mio essere cosciente del mio esistere e del mondo che mi sta attorno, dovevo nascere, ciascuno degli esseri che popolarono, popolano e popoleranno questa Terra sono sotto il vincolo di una necessità. Era e sarà d’obbligo, era e sarà previsto nei piani di quel Demiurgo di cui nulla sappiamo.
E rieccola la parola, è riapparsa qui, nel contesto del prorompere dei miei dubbi: necessità. Ne avevo già accennato a proposito del concetto di Élenchos di aristotelica memoria, il difensore a oltranza del “principio di non contraddizione” secondo il quale va riconosciuta l’impossibilità che, nello stesso momento, una determinata cosa esista e non esista ossia l’impossibilità che affermazioni contraddittorie siano vere nello stesso istante in cui vengono concettualizzate.
Dunque io non sono il mio organismo fisico. Forse questo è soltanto il supporto organico che, per una questione di adattamento funzionale alle prerogative del Pianeta che ci ospita, appare, così com’è. Contrariamente alla struttura di un automa, a cui mi sono riferito, concedendo l’esserci certe affinità costituzionali, noi siamo dotati di una consapevolezza capace di crescere, di affinarsi, di porre la nostra volontà di fronte a nuove soluzioni, a scelte da abbracciare, a formulazioni concettuali creative e originali. Una dote, questa, che ci rende unici, parzialmente arbitri del nostro destino, quindi elettivamente responsabili. Dunque io sono la mia autoconsapevolezza.
Una bella conclusione davvero, ma tale da non poter evitare di farmi ricadere nel dubbio atroce della separazione. Sì, perché tutto, o quasi, fila liscio finché respiriamo l’aria della nostra atmosfera. Arriverà un giorno, tuttavia, in cui il respiro ci avrà abbandonato e ci troveremo lì, freddi e impalati, con un po’ di gente che si rattrista attorno alla nostra carcassa e che a malumore si prodiga in affettate condoglianze. Qualcuno, osservandomi per l’ultima volta, potrà pensare: “Questo è il corpo, ma lui non c’è più”.
Immagine di copertina: Esecuzioni Semantiche di Élenchos tratta da Abisso Nichilista.