Era la terza “spallata” ordinata dal Generale Cadorna, iniziata il 18 ottobre 1915 e protrattasi sino al 4 novembre successivo, uno scontro armato che, come i precedenti e come quello che seguirà nel nostro primo anno di guerra, la quarta Battaglia dell’Isonzo, concesse ai nostri attaccanti una serie di successi tattici del tutto irrisori.
Avevamo schierate 25 divisioni con 337 battaglioni e più di 1.300 bocche da fuoco. I nostri avversari potevano avvalersi di una forza di contenimento calcolata alla metà della nostra forza d’urto. Eppure le perdite furono altissime, anche perché il terreno che si offriva agli attaccanti era assai aspro, formato da versanti erti e difficili a superarsi sia sul Carso sia sui siti di Tolmino, del Podgora, del Sabotino.

Dal 18 ottobre al 2 dicembre si sacrificarono sul campo di lotta 116.000 soldati (fra morti, feriti, dispersi e prigionieri), addirittura più di 246.000 nell’intero anno 1915 (da Emilio Faldella, “La Grande Guerra. Le Battaglie dell’Isonzo”, Nordpress Edizioni, 2004). La principale causa di questi enormi sacrifici andava ricercata nei ripetuti ordini di attacco frontale, derivati da vetuste tattiche di tarda memoria napoleonica. Pare che, a giudizio di alcune fonti storiografiche (Faldella, cit.), la logica che determinava l’evoluzione degli scontri armati, ancora nel 1915, prevedesse l’opposizione di veri e propri muri difensivi dotati di rilevante continuità e profondità, tali da opporsi ad attacchi di lato e da tergo realizzati per infiltrazione. Sicché quella che si portava avanti, nel primo anno di conflitto per la nostra truppa, pareva costituirsi necessariamente come una guerra di posizione e di attacco frontale. E questo era il criterio diffuso che lo stesso Gen. Cadorna aveva adottato e imposto alle truppe in avanzata.
Proprio non c’era alternativa, come porta a osservare E. Faldella, al tentare l’aggressione per mezzo dell’attacco frontale, anche perché erano le fanterie a dover sopportare il maggior peso dell’azione, in scarsità di artiglierie e di munizioni adeguate ad aprire varchi che potessero favorire l’infiltrazione e l’aggiramento, tattica che venne in auge più tardi, della quale furono eccellenti maestri i Tedeschi equipaggiati e sorretti da strumenti di guerra all’avanguardia per i tempi.
Per altro verso, qualora fossimo stati così preveggenti da porci nella situazione ottimale di una guerra di manovra per infiltrazione e attacco di sorpresa a tergo, i problemi impellenti, oltre a quello fondamentale della impreparazione dei quadri ufficiali, si sarebbero immediatamente presentati per via delle difficoltà crescenti e insormontabili nello sforzo di garantire rifornimenti puntuali e sufficienti a sostenere il proseguimento e il consolidamento dell’azione di conquista in territorio straniero. Ogni guerra dimostrò, infatti, che più l’avanzata si fosse protratta, più sarebbero aumentati gli ostacoli di ordine sia tattico sia logistico da abbattere.
Fu così che le reiterate azioni di attacco frontale e la concezione che imponeva il logoramento reciproco posero le premesse per gli immani sacrifici sopportati dalle truppe in lotta, già nella prima fase della Grande Guerra.
Torniamo a un secolo e cinque anni fa
Era l’ottava Battaglia dell’Isonzo, deflagrata anche questa con gravi sofferenze e lutti per i nostri Combattenti, a seguire dalle precedenti sette “spallate” che avevano lasciato sul terreno arido del Carso una schiera sterminata di vittime.
Fu, l’ottava Battaglia, un evento risolto nel giro di appena due giorni, a partire dal 10 ottobre 1916, su una serie di combattimenti ininterrotti sino al termine dell’11 ottobre. La notte che seguì assistette a ripetuti contrattacchi sferrati dalle forze austriache, contenuti ovunque dalla ferrea resistenza dei Fanti italiani. Vista l’inadeguatezza dei tentativi, gli Austriaci si dileguarono in posizioni di riassetto, mentre i nostri non li perdevano un istante di vista.
La successiva offensiva fu portata avanti dai Corpi d’Armata XXVI e VIII, nei pressi di Gorizia, zona del San Marco. Furono scontri assai cruenti, responsabili di sacrifici di vite umane spropositati se messi a confronto con le irrisorie conquiste di inospitali aree carsiche.
Subimmo perdite nei nostri ranghi, ma la stessa cosa avveniva, in forma anche più preoccupante, per le schiere avversarie. Tant’è che il 15 ottobre il generale Boroevic von Boina informava il Comando Supremo austroungarico della estrema precarietà in cui l’Esercito imperiale si sarebbe trovato qualora gli Italiani avessero sferrato un ulteriore attacco in tempi brevi. E fu proprio quello il momento in cui le forze austroungariche, in bilico tra il resistere e il cedere all’avanzata delle truppe italiane, avrebbero corso il serio rischio di una penetrazione a tutto campo.

Non poche erano le personalità, coinvolte alle alte sfere del conflitto, a preconizzare una possibile prossima caduta del fronte sotto la pressione dell’Esercito italiano. Questo era anche negli obiettivi del generale Cadorna il quale si apprestava, senza indugiare, a riorganizzare e a rinvigorire le formazioni combattenti. Aveva già programmato di riprendere le ostilità il 14 di ottobre, dopo gli ultimi attacchi protratti due giorni prima. Però si dovevano fare i conti con le condizioni climatiche che, peggiorate sensibilmente in quel frattempo, consigliarono per una dilazione al giorno 28, successivamente al 31 dando così inizio alla nona “spallata”.
17 settembre 1916), l’ottava e la nona Battaglia dell’Isonzo (31 ottobre – 2 novembre 1916) di oltre 77 mila perdite complessive, di cui 435 ufficiali e 9.501 soldati morti; di poco inferiori le perdite per i nostri avversari (da E. Faldella, “la Grande Guerra”, Nordpress Edizioni, 2004). Non raccogliemmo grossi vantaggi da quei tre confronti armati. Trieste e Lubiana erano ancora lontane, troppo lontane.
Ciò che non funzionò, a scapito delle previsioni, fu la dotazione di munizioni, assolutamente insufficiente, tale da costringere le nostre truppe ad assurdi periodi di inattività perché non avevano di che sparare secondo regola. Il tempo richiesto per il rifornimento delle munizioni necessarie alla prosecuzione degli attacchi fu oro colato per gli Austriaci perché consentì loro di rimpiazzare l’impianto difensivo di attacco, dando così un secco colpo di maglio ai risultati da noi conseguiti con tanta fatica.
Il nostro Esercito inoltre, come si legge in Faldella (cit.), era gravato da un difetto, il più vistoso, quello cioè del basso livello di addestramento su ampia scala, responsabile, a ogni piè sospinto, del copioso sangue versato per il conseguimento di obiettivi copiosamente sfuggiti di mano.
La situazione menzionata si ripresentava, nello stesso periodo, sul Pasubio, estremo baluardo meridionale di sbarramento all’avanzata nemica dopo la cosiddetta Spedizione punitiva lanciata dal generale Conrad von Hötzendorf il 15 maggio 1916. Sul Pasubio, a costo di ottenere risultati che poi si rivelarono di poca consistenza, subimmo perdite ancora assai pesanti: 237 ufficiali e 5.268 uomini di truppa, dove i Caduti sul campo ammontarono complessivamente a 747 (Faldella, cit.). Ancora, sulle Alpi di Fassa, i terribili scontri tra l’estate e l’autunno del 1916 causarono, come diretta conseguenza, anche qui, della penuria di artiglierie e di munizioni, qualcosa come il sacrificio di diecimila Combattenti.
4 Settembre 1917 – Monte San Gabriele
Il San Gabriele è un monte o, più precisamente, una elevazione di 646 metri di altitudine, nei pressi di Gorizia, direzione nordest, sulla sinistra dell’Isonzo. Cent’anni or sono si trovò al centro di drammatiche vicende belliche, uno dei fulcri cruciali designati nel corso dell’11a Battaglia dell’Isonzo per lo sfondamento delle linee austriache.
Su quell’altura si erano installati i nostri avversari sin dal 9 agosto 1916, allorquando divampava la 6a Battaglia dell’Isonzo e qui i contingenti austriaci avevano eretto una posizione di sbarramento alle nostre “spallate”, fortificandola con munitissime dotazioni difensive.
Era certo ben arduo, per le nostre forze d’attacco, impadronirsi del San Gabriele, ma l’intento era impellente perché, se le fortificazioni là impiantate fossero cadute in nostre mani, e la cosa pareva possibile nella previsione di un aggiramento da tergo, l’Esercito italiano avrebbe trovato aperta la via per infiltrazioni promettenti verso l’esito del conflitto armato.

La battaglia per il San Gabriele iniziò esattamente cento e quattro anni fa, il 4 settembre 1917 e si protrasse per i successivi otto giorni, sino al 12 settembre. Fu la nostra 2a Armata a puntare le proprie armi contro quell’altura per snidarne gli occupanti. Prima che intervenisse la fanteria con attacchi frontali sul campo, cruenti e terribili, sferrati secondo le direttive cadorniane “conquistare, resistere o morire sul posto”, fu il momento della possente artiglieria italiana che prese a tempestare le posizioni austriache con una violenza mai vista sino allora, tanto che, esaurite le velleità su quel monte di tregenda, il San Gabriele fu designato come il monte più insanguinato della storia europea di inizio secolo.
La 2a Armata, a partire dal 4 settembre 1917, aveva dato voce a 700 bocche da fuoco appoggiate da un centinaio di bombarde scatenando l’inferno sui declivi e sulla sommità del monte. Quello a cui i combattenti austro-ungarici assistettero lassù fu un vero e proprio assedio di fuoco. Oltre 45.000 colpi di cannone sprigionarono la propria potenza distruttiva in uno spazio alquanto ristretto, tanto da ridurre in frantumi e polvere la cima del San Gabriele risultata abbassata, come conseguenza immediata dell’impeto devastante, di almeno dieci metri.
Le nostre fanterie, al seguito del macello perpetrato dall’artiglieria, si mossero all’attacco, ma nidi nemici di armi automatiche ben piazzate e sopravvissute al disastro, con i serventi al fianco, falciarono inesorabilmente l’avanzata dei nostri, lasciando sul terreno falangi di corpi inermi.
La valutazione di quell’azione fu sconcertante e tragica. Nel giro di una trentina di giorni sul San Gabriele si si erano consumati sacrifici enormi di vite umane: fra le due parti in contesa, italiani e austriaci, sulle pendici del monte in un’area di appena due chilometri quadrati erano stati immolati circa 40.000 uomini, per una conquista che non ci fu e che portò con sé un solo nome: “Vite spezzate”.
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