Huxley – Considerazioni personali Puntata 1 di 2

Leggere e meditare

Aldous Huxley, scrittore inglese, in seno alla propria produzione saggistica annovera, tra le altre sue opere, quella che ha per titolo La Filosofia Perenne (Adelphi Editore SPA – Milano 1995) la lettura della quale apre a nuove suggestive analisi attorno al concetto di Chiesa cattolica, sulle quali mi pare istruttivo fermarmi in atteggiamento decisamente critico. Ecco dunque le mie personali considerazioni

Inizierò dall’esporre, molto in generale, l’impalcatura ideologica del pensiero esplicitato da Huxley. Ho trovato una serie di indizi positivi e negativi secondo il mio punto di vista e che, ovviamente, condivido o meno o tengo in sospeso, anche per il fascino che esercitano sulla mia voglia di sapere.

Il primo riguarda la postulazione dell’esistenza di una Realtà divina consustanziale al mondo reale, alle vite e alle menti, per cui si va a cercare il fine ultimo dell’uomo nella conoscenza unitiva del Fondamento immanente e trascendente sull’intero Universo. La conoscenza della Realtà, tuttavia, sorge soltanto qualora si abbandonino le vie del mondo, della carne, della tradizione (persino i riti religiosi e le lettere delle scritture). Del divino Fondamento non si può dare una definizione, ma Esso può essere direttamente sperimentato e compreso da parte dell’essere umano. Non conosciamo Dio, ma ci resta la possibilità di anelare a Lui, di credere in Lui come la Mente originaria di tutto ciò che c’è e della sua complessità in termini di perfezione e finalità. È bello e vitale decidere di pensare a Lui con amore, come anche nella definizione che ne viene data, nel Buddhismo Mahāyāna, di “Luce del Vuoto”.

Dio deve essere amato per se stesso, e così le persone e le cose del mondo devono essere amate per amor di Dio. È tuttavia indubitabile che possiamo amare soltanto ciò che conosciamo, e qui il cerchio sembra chiudersi una prima volta perché torniamo al punto precedente, quello che ha a che fare con la conoscenza del Fondamento ossia di Dio. Deve per di più trattarsi di una conoscenza del tutto intuitiva, dove il razionale va a occupare un posto di secondaria o addirittura nulla importanza. La forma più alta d’amore per Dio è, infatti, un atto di intuizione spirituale immediato che porta a essere una cosa sola tre dimensioni convergenti: il conoscente, il conosciuto e la conoscenza. Questo modo di porsi di fronte alla Divinità confluisce nella capacità di avvedersi che il tempo e l’eternità coincidono, sono una cosa sola. Per raggiungere la consapevolezza liberatrice del fatto che il tempo e l’eternità sono una cosa sola è necessario praticare con coerenza quattro virtù nobili, che sono: dare amore anche se si riceve odio, accettare la rassegnazione, disporsi a una “santa indifferenza” o assenza di desideri, ubbidire alla Natura delle Cose. A questo scopo si devono percorrere tre vie nella stessa direzione: le opere, la devozione, la conoscenza. La liberazione totale si raggiunge soltanto attraverso la conoscenza unitiva. Questo mi pare possa considerarsi il passo più difficile, fattibile soltanto da persone estremamente pure di spirito e del tutto avulse dalle attrazioni del mondo.

Amare Dio è sinonimo di carità, la virtù che si acquisisce attraverso tre forme di atteggiamento: il disinteresse, la tranquillità e l’umiltà. È forse quest’ultima la più difficile ad accettarsi, in un mondo che va avanti a spallate e ad atti di prepotenza, che spinge a reagire ogni volta che ci sentiamo offesi o vilipesi. Esisterebbero due vie che possono aiutare alla conquista dell’umiltà: la prima è la contemplazione del profondo abisso da cui la mano di Dio ci ha tratto e sul quale ci tiene quotidianamente sospesi; la seconda è la presenza di Dio stesso.

Anche qui incontro forti difficoltà a concettualizzare questi passaggi. Prima di tutto quello che riguarda la conquista dell’umiltà quando siamo immersi in un contesto sociale che ci consente di sopravvivere e andare oltre soltanto impegnando al massimo la lotta e la forza d’animo. Umiltà può significare, d’altra parte, rinunciare a lottare e abituarci alla sottomissione, cosa inconcepibile ed estremamente autolesiva di fronte alle richieste della società odierna. In secondo luogo si parla di amare Dio e, come già detto, non si può amare chi o che cosa non si conosce, se non nel puro immaginario mediante la costruzione mentale di una Entità o di una sua controfigura che trascenda ogni cosa. Infine si dovrebbe avere la capacità di contemplare quel profondo abisso che viene annoverato, un po’ come se tutti ne fossero a conoscenza, ma che risiede soltanto nelle lettere di un enunciato verbale. Se non si fugge dalla realtà presente per raggiungere quel declamato e incomprensibile stato di contemplazione non si arriverà a impadronirsi dell’umiltà né a praticare la carità: soltanto i santi potrebbero arrivare a tanto. Per l’uomo comune ossia non santo il primo passo dovrebbe essere quello di vincere la tentazione di assoggettarsi al culto idolatrico delle cose del mondo che porta nella direzione opposta a quella della carità. Per culto idolatrico si intende il culto rivolto alle istituzioni create dall’uomo, persino la Chiesa e lo Stato, senza escludere il culto rivoluzionario sospinto al futuro e il culto dell’autoadorazione umanistica.

Una critica più serrata. Realtà divina: è conoscibile? In che cosa consiste? Si parla di poterla conoscere, già in questa vita. Se qualcuno è arrivato a conoscerla, quand’anche ineffabile, perché non tenta almeno di descrivercene i requisiti, nel modo che siano intelligibili a tutti? La stessa cosa vale per la conoscenza intuitiva (non razionale) del divino Fondamento immanente e trascendente l’intero Universo. Ma stiamo semplicemente parlando di Dio, di un’Entità indescrivibile di cui nessuno ci può portare testimonianza. Come possiamo allora continuare a usare la parola Dio se non sappiamo a chi o a che cosa ci si riferisce, se non plasmandola di una nostra convenzione concettuale? Ma allora non facciamo che parlare di qualcosa di giustapposto, di inventato, di posticcio, di non corrispondente alla realtà. Attorno a questa parola, svuotata di qualsiasi significato immaginifico e patinata di elementi fantastici, si va a creare tutta una enorme teorizzazione di pseudo verità. Ma la realtà è che noi parliamo di un Dio di cui nulla sappiamo, se non escludiamo il bisogno pressante di attribuire a Lui ogni cosa che cade sotto i nostri sensi. Così è che non dovremmo neppure nominarlo, non avendolo ancora conosciuto, altrimenti ci affidiamo a pure metafore e a una consolatoria affascinante costruzione mentale. Parlare di Dio per parlare è veramente troppo facile ma, se badiamo alle affermazioni del Maestro Eckhart “Perché vai cianciando di Dio? Qualsiasi cosa tu dica di Lui non è vera”, nel tentare di farlo possiamo servirci sia dell’intelletto sia della ragione. Sarebbe dunque possibile arrivare alla conoscenza unitiva di Dio, prima di tutto, rinunciando a nutrire opinioni e, in secondo luogo, passando all’uso della ragione, ossia dal formulare indagini e discorsi verbali all’affidarci all’intelletto inteso nella accezione di intuizione immediata, di penetrazione intima della verità.

Per me è difficile rinunciare a formarmi opinioni personali; preferisco sviluppare quelle che fanno parte della mia cultura, modificarle e sostituirle alla bisogna, nel momento in cui nuove scoperte giungano ad attribuire un’impronta più promettente alla mia mentalità. Inoltre mi lascia abbastanza perplesso questo richiamo incessante all’intuizione immediata: secondo me si tratta di un privilegio di pochi fortunati, una cosa che ti capita quando meno te l’aspetti e che t’illumina di luce aprendo istantaneamente i tuoi occhi a una conoscenza rivelatrice. Per ora non so che cosa sia e il mio stile di ricerca continua a fare affidamento sul solo strumento che conosco e con il quale riesco forse un po’ goffamente a destreggiarmi: la ragione.

Si dice di spirito individuale e di Spirito universale, la percezione di identità dei quali dovrebbe portare alla liberazione. Ma, anche qui, in che cosa consiste quella percezione di identità e che cosa è la liberazione? Liberazione, forse, da noi stessi, che non siamo creatori ognuno di se stesso, o dal nostro stato di estrema limitatezza che noi non abbiamo scelto a nostra dimora? Così, nel citare l’eternità del divino Fondamento, lo scopo dell’uomo sarebbe di ritornarvi, come se un tempo ne fosse stato cacciato e ora vivesse esule. Cacciato, da chi? E per quale arcano motivo? Il divino Fondamento si trova fuori del tempo e conoscerlo vuol dire annullare l’ego nella sua preoccupazione di se stesso, morire a se stessi nel sentimento, nella volontà e nell’intelletto. Ma questo significa anche autonegazione, rinuncia alla personalità così faticosamente costruita, significa anelare a uno stato di estraniazione da sé, molto simile alla morte o, nel migliore dei casi, a una condizione schizofrenica. Morire alla personalità e vivere allo spirito è il corrispettivo dell’abiurare a qualcosa che ci è stata data alla nostra nascita, a qualcosa che cade sotto i nostri sensi e che perciò possiamo controllare, per anelare ad altra cosa soltanto spirituale di cui nulla sappiamo e che non riusciamo a individuare al di là del binomio significato-significante. Siamo al punto di definire quella che si presenta come la tragedia umana, e qui concordo con Huxley: L’uomo viene percosso dalla sofferenza più grande quando è nella situazione di sapere e di sentire di essere, quando sa e sente non solo che cosa egli è, ma che egli è.

Siamo come condannati a soffrire di un dolore insopportabile nel momento in cui riusciamo ad avere conoscenza e sentimento della presenza di Dio, ma anche della nostra lontananza da tale Realtà perché vi si frappone il nostro io che dovrebbe pertanto essere odiato, disprezzato e abbandonato se vogliamo raggiungere la perfezione. Tutto ciò mi sembra alquanto assurdo e contraddittorio perché, se considero il mio io come un dono che mi è stato elargito, perché dovrei odiarlo? Mi sembra molto più intelligente il cercare di gestire la nostra esistenza per migliorare e arricchire il nostro io anziché disprezzarlo e abbandonarlo. Ammesso che il nostro io sia soltanto un mezzo per raggiungere la perfezione, allora facciamo sì di usarlo nel modo più confacente e curiamolo nelle sue possibilità di realizzazione. È attraverso l’io che imbocchiamo la strada della conoscenza, mi sembra veramente blasfemo disprezzarlo e abbandonarlo, come se rifiutassimo qualcosa di vitale che ci è stata data in consegna, seppure per un limitato periodo di tempo.

Quando si parla di liberazione si sostiene che essa possa essere raggiunta soltanto quando abbiamo di fronte la coscienza della Unicità del Sé, ma la conoscenza unitiva del Fondamento dovrebbe avvenire soltanto a costo di una spersonalizzazione totale. Ossia devo rinunciare in assoluto al mio io ed estraniarmi da ogni cosa del mondo. Se io sono qui, ora e qui, ciò dovrà pure avere un senso, non sarà tutto dovuto al caso e, se con il mio essere nel mondo ho acquisito una mia personalità e un potenziale raziocinante, vedrei molto riduttiva una disposizione a spersonalizzarmi del tutto, ma anche soltanto in parte, mi sembrerebbe di andare contro natura. Penso piuttosto che non dobbiamo avere la pretesa di conoscere quello che, in termini del tutto astratti, viene definito “divino Fondamento”, già qui sulla nostra Terra nel corso della nostra vita. La vita, credo, deve considerarsi come un itinerario di lavoro mentale, culturale, di ricerca, di avvicinamento anche doloroso al Vero, alla Realtà ultima alla quale aneliamo e che siamo destinati a conoscere successivamente al nostro trapasso dalle fattezze biologiche e temporali. Un passaggio di preparazione dunque, di allenamento, di costruzioni successive alimentate da una speranza incrollabile. Come dire che, se io mi annullo già qui per riunirmi al Fondamento, qualsiasi accezione si voglia accollare a questo termine, io mi dichiaro già morto alla vita terrena che è l’unica che ora possiedo e che mi dà la facoltà di pensare e, diciamolo forte, di formarmi una base di opinioni, vuoi pure in via provvisoria. D’altra parte già mi scontro con alcune contraddizioni ravvisabili negli enunciati usati da Huxley, come quando il saggista inglese dice che il fondamento dell’Universo che conosciamo è il nunc atemporale del divino spirito. Lo dice in vera luce ossimorica dacché il termine nunc ha attinenza con lo scorrere e il fermarsi del tempo, benché non appartenga al tempo in quanto definito atemporale.

Tornando al concetto di spersonalizzazione, la tesi principale sostenuta da Huxley vorrebbe da parte dell’uomo la determinazione a mortificarsi, a morire a se stesso, così negli appetiti come nei sentimenti, nella volontà, nelle facoltà raziocinanti, nella stessa coscienza, nella nostra memoria personale e nelle energie che abbiamo ereditato e di cui facciamo abituale uso. Il nostro io spogliato di tutto l’essenziale: non ne resterebbe altro che una qualcosa inanimata, somigliante a un burattino di legno. È ben vero che siamo schiavi del tempo che si frappone fra il raggiungimento della Luce, nei termini addotti da Huxley, e la nostra realtà terrena, e che costituisce pertanto l’ostacolo maggiore fra noi e Dio. L’errore in cui l’uomo incorre è quello di considerare Dio come una potenza avvolta nel mistero, di per sé pericolosa se la si contraddice, quindi da tenere calma e favorevole attraverso l’offerta di riti propiziatori, quando invece sarebbe da pensare come Spirito da adorare nello spirito. Ciò significa trasportare, limitare e imprigionare Dio nel tempo, quasi fossimo noi arbitri del suo destino, ossia correre dietro a una credenza superstiziosa, quella per la quale Dio sfogherebbe la propria ira sugli uomini in conseguenza dei peccati-offese commessi e questa credenza, non esita ad affermare Huxley, è l’equivalente del bestemmiare contro la Natura divina. Si tratta, ovviamente, di renderci conto che abitualmente viviamo la nostra esistenza in un rapporto sbagliato con Dio, con la Natura e con i nostri simili. Da qui hanno origine le guerre, le rivoluzioni, lo sfruttamento, il disordine. È molto arduo concettualizzare una disposizione siffatta in termini spirituali e, ancora, mi sembra di poter concludere che venga richiesto all’uomo di negare completamente se stesso per entrare nello stato sublime dell’unione, cosa che vedo ancora molto lontana dalle possibilità di comprensione che ci sono state concesse.

Immagine di copertina tratta da Vecteezy

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