Che cosa ci stiamo a fare?
Mi vien fatto di far seguire alle disquisizioni fin qui sviluppare una serie di suggestioni, riflessioni, intuizioni che accompagnano la mia ricerca sul senso dell’esistenza.
Mi guardo attorno e mi pare di ritrovarmi entro un vuoto luminoso che, più che contenere, è esso stesso tutte le cose. Un vuoto che è qui e che rifiuta ogni tentativo di essere definito e collocato. Un vuoto pieno di tutto ciò che può pervenire dalla mia immaginazione. Come un punto centrale che esplode in un Volume infinito, un Nulla nel Tutto, un Qui nel Dovunque.
Noi tutti fluttuiamo delicatamente fra una visione soggettiva e una visione oggettiva del mondo, ed è questo il dilemma che si pone al centro della natura umana. Le cose reali paiono galleggiare in un più ampio mare di possibilità dal cui interno furono scelte, come se in qualche luogo queste possibilità esistessero e costituissero parte della verità. La sapienza cinese ci parla di infinite serie di tempo, di una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che si avvicinano, si biforcano, si tagliano o si ignorano per secoli comprenderebbe tutte le possibilità a portata di conoscenza. In ogni punto di diramazione quantistico della nostra vita – ne possiamo enumerare miliardi e miliardi – ci siamo divisi in due o più noi che percorrono rami paralleli ma separati da un’unica gigantesca funzione d’onda universale. Allora, su questa linea interpretativa, mi domando: perché, dal momento che si danno molteplici possibilità, questa mente si è unita a questo corpo? Se fossi stato qualcun altro? O se qualcun altro fosse stato me? Esiste forse una sola coscienza universale? È un’illusione sentirsi separato, individuo?
Forse un modo di concepire la funzione d’onda universale è quello di pensarla come forse fa la mente di Dio, in cui tutte le diramazioni possibili vengono considerate contemporaneamente. Noi saremmo semplici sottosistemi della mente di Dio.
Ma, d’altra parte, come si può dire “contemporaneamente” se Dio è assenza di tempo? In questo caso dobbiamo assoggettare l’idea di Dio a un parametro umano, il tempo? Se non ha a che fare con il tempo, Dio può stare nel tempo? E, allora, a chi appartiene questo tempo? Chi ne è l’artefice? Forse la nostra mente? Dio, dunque, si serve, ha bisogno della nostra mente per riferirsi al tempo?
La nostra coscienza ordisce un sentiero a caso lungo il cammino evolutivo del cosmo che sempre si diversifica. Quale legge, allora, soggiace alle scelte casuali che selezionano la diramazione che io ho la sensazione di percorrere? Sposterò il pensiero su un altro metro speculativo: da un punto di vista trascendentale pare di poter arguire che noi serviamo lo Spirito senza esserne consapevoli, lo portiamo innanzi, lo tramandiamo. Possiamo considerare lo Spirito, per dargli un’apparenza di concretezza sensibile, al viandante che, passando per la contrada calcata dall’uomo, impone all’anima umana di seguirlo verso la destinazione puramente spirituale. Mi accade talvolta, assalito dalla domanda su chi e perché sono io in quel soggetto che percepisco esistere, di ricorrere a una comparazione con le scoperte messeci a disposizione dalla tecnologia moderna. Ecco allora che mi viene in mente il CD rom, così strausato, nel suo essere corpo fisico e sul quale posso imprimere informazioni in grande quantità. Sono informazioni che restano a mia disposizione ogniqualvolta le voglio richiamare, grazie alla traccia magnetica che le conserva e che è in grado di restituirle riprodotte. Per disavventura mi succede di inserire sullo stesso CD un secondo file che contiene un virus informatico. Da qui in poi tutto il contenuto del CD mi risulta assente, cancellato. Sopravvive la parte materiale. Se lo sminuzzo o lo brucio riesco a distruggerlo soltanto fino a un certo punto; otterrò comunque sempre qualcos’altro di materiale: frammenti, polvere, cenere, gas di combustione. Tutto si trasforma, nulla si distrugge. Ma… dov’è finita la traccia magnetica? Svanita? Trasformata in altro da sé? In che cosa, se non è più esperibile? Persa nel nulla? Allora mi vien da pensare: di che cosa era fatta?
Il mio corpo contiene e metabolizza sicuramente parti trasformate di altri corpi, nelle fattezze di proteine, sali, elementi minerali trasformati in una lunga catena di sequenze biologiche; ma io non sono quei corpi. Anche la mia mente è una sorta di incisione magnetica con una sua funzione specifica nello spazio e nel tempo? Quando il mio CD/cervello si fermerà, cesserà di funzionare, che ne sarà della sua traccia magnetica o mente pensante individuale? Ho perso un caro amico, una di quelle persone di alta statura culturale, immensamente edotto in molteplici materie di studio, era un piacere immenso udire da lui spiegazioni sui fenomeni che per noi sono inarrivabili. Ora non c’è più, il suo corpo consumato dalla dissoluzione. E il suo sapere, la sua mole preziosa di informazioni? Certamente non avrebbe potuto scrivere su carta tutta la sua sapienza acquisita e, allora, questa è svanita, e a che cosa è servita? Che ne rimane se non quel po’ che sia stato conservato nella memoria di chi fu a contatto con lui e che ne vedrà prima o poi sfumare ogni traccia?
Avverto la necessità di riportarmi ai canoni evoluzionistici, dai quali potrei trarre qualche delucidazione ai miei interrogativi. Partiamo da molto lontano nel tempo, allorché un miscuglio di acqua, anidride carbonica, metano e ammoniaca condusse alla formazione di amminoacidi, i blocchi costitutivi delle proteine. Le purine e le piramidine erano a loro volta blocchi costitutivi del DNA. A un certo punto si formò, per caso, una molecola replicante che contribuì a introdurre nel mondo una “stabilità” di genere del tutto nuovo. Errori di replicazione produssero parecchie varietà di molecole replicanti. L’evoluzione, attraverso la selezione naturale, riuscì a perfezionare e a incrementare la longevità, la velocità di replicazione o fecondità, la precisione nella replicazione o fedeltà di copiatura.
Obiezione: quale volontà impone alla selezione naturale di essere quello che è? Può trattarsi di una legge casuale? Chi ha stabilito che esistesse un caso e che questo contenesse leggi, e quali e quante di queste leggi? È un caso che esista il caso? Una regressione all’infinito?
Il meccanismo della competizione fece sì che i replicanti, senza saperlo (ma che ne sappiamo, ora e qui?), ingaggiassero una lotta per l’esistenza. Ora questi replicanti li chiamiamo geni e i nostri corpi sono le macchine per la loro sopravvivenza (corpi e geni, CD e traccia magnetica, corpi e CD materiali ed esperibili; geni e tracce magnetiche impalpabili; corpi e CD si trasformano, non si distruggono; geni e tracce magnetiche sopravvivono). La selezione naturale favorisce i replicanti esperti nel mettere insieme macchine (corpi) che ne garantiscano la sopravvivenza (quale scopo? Quale fine? Chi ha voluto i replicanti e la selezione naturale? Di nuovo il caso? Ma, il caso può volere?). I geni fanno tutto ciò senza prevedere piani d’azione: semplicemente percorrono una loro direzione, albergando in organismi passeggeri, e non invecchiano. Il mio corpo porta i geni di Lucy o affini e tutti noi portiamo le replicazioni dei replicanti primordiali (Dio creò il primo uomo soffiandogli in corpo l’anima; i geni sono la traccia dello Spirito di Dio?).
La cosa formidabile è che, mentre i geni battono sentieri diversi e non invecchiano, il nostro corpo, con la sensazione di percorrere un’unica propria via, di invecchiare e di essere destinato a decomporsi, sviluppa con sé una coscienza.
In ambito informatico, come il programmatore impone il proprio controllo al calcolatore predisponendolo con l’inserimento di un certo programma, così i geni agiscono sul comportamento degli organismi fisici predisponendoli, senza agire ulteriori interventi di correzione di rotta. I geni non esercitano un controllo diretto su ciò che l’organismo fa istante per istante; hanno già inserito tutte le istruzioni nell’organismo, la cui sede è il cervello: un organo costruito dai geni (come un calcolatore) perché decida, al posto loro, giorno per giorno. Tutto ciò a causa della lentezza: i geni operano controllando la sintesi delle proteine, un processo che richiede molto tempo (nove mesi per formare un bambino); il comportamento, peraltro, necessita di rapidità. I geni, dunque, costruiscono, prima, un veloce calcolatore esecutivo (il cervello), programmandolo in anticipo con regole e “consigli” per far fronte alle eventualità.
I geni dettano i criteri secondo i quali devono essere costruite le macchine che ne garantiranno la sopravvivenza, quindi anche come deve essere costruito il sistema nervoso; ma, poi, è proprio il sistema nervoso che prenderà le decisioni su ciò che bisogna fare istante per istante, come appena detto. I geni impostano la strategia d’azione generale; il cervello eseguisce materialmente (come il programma e il PC). Il cervello, inoltre, attraverso l’apprendimento e la simulazione, assume decisioni strategiche in numero via via maggiore, come se seguisse un’istruzione generale che gli impone di fare del suo meglio per la sopravvivenza dei geni (ma che razza di cosa sono questi geni?)
Ricavo dall’enciclopedia: particella biologica con sede nel cromosoma; la struttura chimica dei geni è rappresentata dalla catena degli acidi nucleici nella quale le molecole dei nucleotidi si succedono in diverse combinazioni, costituendo le “lettere” e le “parole” del codice genetico. La proprietà fondamentale di queste strutture chimiche è l’autoriproduzione, cioè la proprietà di duplicarsi uguali a se stesse nel corso della moltiplicazione cellulare.
La simulazione, peraltro, è un procedimento molto utile ed economico per l’adozione di comportamenti efficaci; di gran lunga superiore al procedimento per tentativi ed errori in quanto ricorre alla previsione, alla immaginazione, allo scambio di ruolo e di punti di vista, alla costruzione mentale di un modello che ci consenta di prevedere gli eventi possibili. Per questo la simulazione è più rapida e più sicura (evita errori di percorso). L’evoluzione della capacità di simulazione sembra aver raggiunto il suo culmine nella coscienza soggettiva. Forse la coscienza insorge quando la simulazione del mondo effettuata dal cervello diventa così completa da dover comprendere un modello del cervello stesso.
La nostra mente funziona grazie a un “sistema rappresentazionale”, cioè un insieme attivo di strutture capace di autoaggiornarsi e organizzato in modo da “rispecchiare il mondo nella sua continua trasformazione”. È un sistema costruito su categorie alle quali vengono inviati i dati in ingresso; le sue rappresentazioni, o simboli, interagiscono fra di loro secondo una propria logica interna la quale produce un modello abbastanza fedele del modo in cui funziona il mondo. È un programma in grado di guardare una scena, di dirci che cosa essa contenga, quali ne siano le cause e le probabili conseguenze.
Ancora attorno ai replicanti. Ma perché, non potrebbe essere? Noi, soggetti viventi e senzienti, macchine biologiche, per uno scopo sconosciuto. Una mente ha ideato queste macchine e le ha programmate in modo tale, e le ha attrezzate in modo tale, che autonomamente provvedessero alla propria sopravvivenza e alla replicazione. Non è forse vero, dunque, che i più forti impulsi dell’uomo, quelli che sovrastano anche la ragione, sono la conservazione il più a lungo possibile della continuità dell’esistenza e la riproduzione? Ricerca di cibo per non morire e ricerca del partner per procreare. Siamo programmati per mantenerci in vita e per procreare. Se, cadendo, ci tagliamo e perdiamo sangue, pur non volendo intervenire, a condizione che la ferita non interessi canali arteriosi e organi vitali, poniamo che si tratti di una ferita al tessuto muscolare, il sangue inizia a fare tutto un lavoro che non proverebbe mai a fare all’interno dei canali vascolari: mette in gioco piastrine, emoglobina, globuli bianchi e quant’altro e, in poco tempo, crea una rete di sbarramento che, dapprima, argina l’emorragia, inibisce l’infezione, genera dolore in funzione di segnalatore d’allarme; poi, a poco a poco, continuando a medicare, a nutrire, a restaurare, rende il tessuto nuovamente atto a svolgere la primitiva funzione. E per rimarginare la ferita procede alla proliferazione di cellule organiche e le rinsalda fra loro, ma, una volta raggiunto lo scopo, smette di produrre altre cellule che, per paradosso, andrebbero a formare un’appendice anomala e ingombrante attorno alla parte traumatizzata. Non solo ci è estraneo il programma che guida e controlla questa sequenza di processi biologici ma persino nulla potremmo fare per impedirla, a meno di un intervento autodistruttivo – il libero arbitrio.
Il programma che è in noi, in via generale, ci dice: “Nutriti, perché hai fame; procrea, perché ne hai voglia; conservati, perché credi di essere tu a dominare il mondo”. Dunque, una mente; dunque, uno scopo. Posto che esista questa mente, della quale nulla sappiamo, quale potrà mai essere lo scopo al quale essa mira? E, questo scopo, la sovrasta? È più forte di lei, viene prima o dopo di lei? Sto perdendomi in queste cose inspiegabili, mentre appoggio la fronte su una mano, e penso: “Ecco, tutte queste idee pazze, gocciolanti voglie di infinito, me le sto arrovellando, ora e qui, in questa scatola cranica poco più grande di una scodella da cucina”. O che siamo, ognuno di noi, una macchina biologica con due poli opposti, che sono i due vuoti dell’oblio eterno, prima della nascita e dopo la morte, asservita a uno scopo che non conosciamo o che, forse, cerchiamo ma non c’è? È una concezione lineare: ognuno di noi percorre una sua retta esistenziale, porta avanti e realizza una parte o un aspetto della completezza dello “scopo”, poi se ne va; domanda: la consapevolezza che ognuno di noi sviluppa lungo il volgersi di queste linee e che, più è acuta e più ci fa soffrire, ha una qualche parte in questo scopo, oppure questo scopo non ci appartiene, non ci riguarda e volge a realizzarsi sopra i resti del nostro annullamento totale?

Ma può essere una concezione circolare: esiste solo un Ente che deve realizzarsi in un esistente; in questo senso l’esistente è parte integrante dell’Ente e, pertanto, non si annulla; o, meglio, certe sue componenti si trasformano (la massa biologica), mentre la coscienza vaga fluttuando su questa circolarità imposta dal bisogno di autorealizzazione dell’Ente. E la coscienza diventa consapevolezza, per chissà quale norma fisica o metafisica, quando entra in un corpo.
Per sentire la Sesta di Chiaykosky devo avere un disco, un apparato che consenta al disco di funzionare e di farsi leggere in modo compatibile, una fonte di energia e una mappa di solchi impressi sul disco. Anziché musica, diciamo coscienza consapevole: anche in questo caso dovrò avere una mente-cervello, un organismo autocontrollato, energia vitale-veglia, cultura-apprendimento. Il disco è programmato, inciso; una puntina sui solchi o un rilevatore magnetico trasducono qualcosa di statico in sensazioni sonore; si sa che avviene, ma il modo in cui si verifica questa trasduzione non si può descrivere su parametri trasformazionali esperibili.
Il cervello crea immagini mentali: ma ciò che passa dalla trasmissione di impulsi intersinaptici e dalla attivazione di neurotrasmettitori in un bagno di sprazzi elettro-chimici alla mia sensazione di comprendere, soffrire, pensare, avere desideri, comunicare non so neppure lontanamente che cosa sia e “se” sia. Siamo nel vuoto scientifico più assoluto: conosciamo poco o nulla di ciò che c’è sul nostro pianeta, conosciamo qualcosa vicino al nulla di ciò che c’è in questo angolo di Universo che sta alla nostra portata di osservazione, e crediamo di sapere molto. E ci agitiamo tanto in corse sfrenate per non sappiamo dove. Ma se poi ci chiediamo il perché di tutto ciò, proviamo la sensazione di essere inghiottiti da un’angoscia mortale, devastante, perché lì non c’è risposta. Continueranno a replicarsi…
Immagine di copertina tratta da CSO SOUNDS & STORIES.