Separazione. Chi crede nel dualismo profetico anima-corpo arriva subito a una conclusione: prima parlava, comunicava, faceva tante cose perché il suo corpo ospitava un’anima (oppure alla sua anima era stato affidato un corpo?); ora l’anima s’è separata dal corpo e ha preso un’altra direzione; l’organismo fisico si dissolverà e tornerà a decomporsi in quella manciata di sali minerali di cui si componeva. Bene, tutto bene, per chi si ferma qui. E, poi, non basta, ma alla fine dei tempi il corpo risorgerà e, immagino, ritroverà la propria anima ricongiungendosi con essa in una unità rinnovata, incorruttibile per l’eternità. – Che bella fiaba, come vorrei che fosse così, finisce sempre bene: e vissero tutti felici e contenti.
Ma vorrei ora lasciare l’anima agli animisti e provare a metabolizzare il gran mistero della separazione in un’ottica che non sia fideistica, bensì possibilista e aperta a ogni conato di confutazione. Riprendo allora la mia precedente concezione dell’autoconsapevolezza e qui torno a incespicare nella contraddittorietà in cui incorrono i tentativi, ardui e forse vani, di capirci qualcosa.
Il mio corpo giace inerme, penseranno altri a destinarlo al macero, nel modo che riterranno opportuno. È fin troppo palese l’osservazione che la mia consapevolezza non c’è più, io non sono più lì e forse “non sono” in assoluto. Sarà dunque come se non fossi mai nato? Di me che cosa resterà? Del mio corpo, nulla che valga la pena conservare, tornerà terra alla terra; delle azioni che ho compiuto, di ciò che ho scoperto e realizzato, poco e per pochissimo tempo, poi tutto abbandonato all’oblio; dei miei affetti, forse qualcosa nella mente di chi ama conservarli, destinati a svanire con la scomparsa delle persone che ne sono custodi. Tutto, con il tempo, si riduce al nulla del proprio essere “prima”, tutto viene riciclato e trasformato se materiale, conservato per poco e irrimediabilmente perso se di natura affettiva o culturale. Accetto questo modo di procedere della nostra natura, non me ne spiego il perché e non sono neppure così curioso di saperlo, ma lo subisco come clausola di un contratto unilaterale che la Natura ha stipulato con me, necessariamente, alla mia nascita. Il tormento cognitivo che mi assale, tuttavia, torna a farsi vivo quando mi pongo, ancora, il problema della mia consapevolezza, quella strana condizione mentale che in questo momento, mentre scrivo, mi fa essere cosciente che sto facendo proprio questo, ora e qui. Se non c’è più, allora mi viene da dire che anche il mio mondo non esiste; c’era perché lo andavo gradualmente creando con la mia consapevolezza ossia con il mio Io. Se fosse vero che, alla morte del corpo, la mia consapevolezza se ne separi mantenendosi viva, questa rivelazione sarebbe il massimo di ciò che potrei desiderare. È un’ipotesi allettante quella che vorrebbe determinare la consapevolezza di una persona come una potenzialità necessitante di un supporto, nella realtà vigente su questo Pianeta, di cui servirsi per estrinsecarsi, ma di cui potrebbe benissimo fare a meno qualora la dimensione fisica cadesse in difetto.
Ma c’è da chiedersi: dove va la consapevolezza nel momento in cui cessa il tramite organico che le è veicolo? Posso immaginare che essa, in una persona pienamente attiva, si avvalga di quei famosi circuiti riverberanti di cui si ipotizza, in ambiente scientifico, la presenza nella trasmissione di informazioni a livello intra e inter sinaptico del Sistema Nervoso.
Va bene, sono cosciente e di conseguenza so che il mio cervello è indaffarato a espletare funzioni sofisticatissime e ampiamente incomprensibili. Ma, torno a dire, mentre dormo, oppure sotto anestesia totale o in caso di perdita della coscienza per via di un trauma di particolare intensità?
Sappiamo che attorno al verificarsi di questi episodi sono state riportate anche esperienze così dette extracorporee di varia colorazione, quelle che, volendo crederci, darebbero conferma dell’indipendenza e della episodica separazione della consapevolezza dal corpo. Ma qui si finirebbe con il ricadere nel fideistico e voglio evitare di incorrere in tale facile trappola.
Che la coscienza – mi piace di più chiamarla consapevolezza (i dizionari non danno una definizione semantica distinta fra i due termini, anzi ne consentono una certa sovrapposizione: da una parte sostengono che la consapevolezza corrisponda all’avere piena coscienza di sé; dall’altra definiscono la coscienza come la consapevolezza che ognuno ha dei propri atti e sentimenti interiori ai quali siamo portati a dare un giudizio) – sia un fatto cerebrale derivante dall’attivazione della struttura encefalica, quindi strettamente connessa alla componente somatica e partecipe delle sue sorti, oppure che incarni l’identità della persona, emersa anch’essa dal nulla a un certo punto dell’arco di vita, cresciuta, affinata, organizzata in termini di individualità, dotata di indipendenza e “accompagnatrice” del corpo per un determinato lasso di tempo, tutto ciò resta per me incomprensibile.
So perfettamente che sto girando senza meta attorno al medesimo problema nella speranza di aggiungere a ogni giro compiuto, vado a ripetere, un piccolo ulteriore tassello a quell’intricatissimo mosaico che cerco di assimilare a una parvenza di intelligibilità. Ammettere che la consapevolezza goda del requisito dell’eternità è l’equivalente dell’abbracciare una direzione speculativa incoraggiante, ma allora mi vien subito da chiedermi dove stava questa mia consapevolezza e di quale natura era prima che il mio corpo ne facesse parte in una crescente intesa di dualità inscindibile. Né la memoria mi è di sostegno nel cercare e nello sperare di trovare una risposta a questo interrogativo. Se a due mesi di vita davo a intendere di stabilire contatti con l’ambiente circostante mediante l’apparizione del sorriso – fu in quell’occasione che iniziai a scoprire o, meglio, a percepire qualcosa in me, un embrione cioè di consapevolezza che a mano a mano, nel volgere dei quotidiani scambi sonori e cinetici con l’ambiente umano, assumeva sembianze sempre più concrete – nel medesimo tempo andavo scoprendo una fisionomia sempre più precisa di coscienza di me. Ora penso: senza il supporto organico la coscienza stessa, la mia nel caso considerato, non sarebbe apparsa. Ma, se essa è assimilabile a una corrente che attraversa il complesso sistema neurale, allora si ritorna all’idea che tutto si riduce a un fatto biologico e tutto sia destinato a scomparire, corpo e mente raziocinante. Porto l’esempio del disco o CD rom che custodisce musiche sui suoi solchi: una volta andato distrutto non solo scomparirà alla mia vista la sua forma, ma anche la musica contenuta non potrà più essere udita, mai più, per la rottura della connessione disco-musica. Non mi discosto di molto, in sostanza, da un problema che non si lascia avvicinare con l’uso dei mezzi a nostra disposizione, quasi una situazione di detenzione in cui la coscienza non può svincolarsi dalla natura corporea e pertanto non può portarsi su speculazioni di una dimensione ignota. Mi urge, a questo punto, spingermi in ambito puramente biologico dove il pensiero che cerco di sviluppare può trovare terreno fertile su cui attecchire e, in questo tentativo, affido questa fase del percorso speculativo a chi la sa, ovviamente, molto più lunga di me; mi sto riferendo a Francis Crick e al suo collega James Watson, gli scopritori (1953) della struttura del DNA e indagatori dei problemi legati alla definizione di coscienza.
La coscienza, sostiene Francis Harry Crick (La Scienza e l’Anima, Rizzoli, Milano 1994, trad. Isabella Blum) si fonda su una base neurale ed è associata ad alcune attività neurali; dipende inoltre, in modo cruciale, dalle connessioni del talamo con la corteccia cerebrale.
Nessuna spiegazione comprensibile dunque, anche qui, degli estremi, il principio e la fine, legati all’esistenza della consapevolezza, se non quella che essa segue pedissequamente il destino dell’insieme neurale a cui è associata. Ma questo sarà un argomento che mi riservo di riprendere alla fine di queste puntate.
Ora e qui
Se il Demiurgo si degnasse di prestare ascolto alle mie suppliche, allora gli chiederei: “Fammi capire il senso del mio essere ora e qui”.
Ho già avanzato la supposizione del “dovevamo nascere”, ammesso che le cose stiano così. Mi riferisco qui di seguito alla mia autoconsapevolezza, non al mio corpo fisico e provo a congetturare: potevo forse venire al mondo al tempo degli antichi Babilonesi? Nella terra fertile della Mesopotamia? Molte altre persone sono nate in quel luogo e in quel tempo lontano. Di ciò che abbiano sperimentato, delle loro gioie e dolori, dei loro affetti, del loro essere coscienti dell’esserci e del riconoscersi come esistenti, di tutte queste cose nulla so. Se io fossi stato uno di loro, allora la mia autoconsapevolezza avrebbe partecipato dell’intera mia esistenza. Ma non è andata così. Sono nato nel fatidico “secolo breve”, ai pedi delle Alpi e so, sono cosciente, di essere qui, in questo momento.
Un bel problema! Certo è facile assistere al ripetersi di un ciclo vitale di cui siamo anche venuti a conoscere abbastanza bene le prerogative; è facile supporre o, meglio, credere che esista un’Entità eterna la quale ha programmato e voluto la nostra nascita, quella del corpo intendo dire, e in qualche modo ha profuso un’anima che al corpo ha dato il senso dell’esserci. Al di là di convinzioni e certezze come quelle appena accennate c’è da andare fuor di testa se si vuole arrivare ad attribuire una spiegazione al nostro esistere e al nostro essere coscienti. Posso credere di essere qui e di sentirmi esistere in questo frangente perché così ha voluto l’Entità eterna, che non conosco, nei suoi imperscrutabili disegni. Sia fatta, allora, la sua volontà, ma questo nulla mi dice del perché proprio io e del perché del mio essere consapevole di esserci, in questo punto dell’Universo e in questo particolare attimo dell’evoluzione totale.
Ho un compito da svolgere? Abbiamo tutti un compito da intraprendere e da portare a termine? Anche i criminali e i guerrafondai? E pensare che mi son messo a buttare giù queste pazze considerazioni nella folle speranza di avvicinarmi, attraverso una calma riflessione, a quel filo di luce che mi indirizzasse verso l’uscita dal tunnel dell’ignoranza, ma il buio è ancora completo e tremendamente profondo.
Già, il buio, il tunnel, l’anelito a sapere, a convincermi sull’esistenza di una continuità alla mia esistenza. Perché è il dubbio atroce dell’esserci o del non esserci di tale continuità la vera bestia nera che mi assilla, che ci assilla. Ho accennato a quelle persone che della propria vita fanno un coacervo di malefatte, delitti, soprusi, violenza. Ma perché? Sì, va bene, posso immaginare che siano tarate nel cervello, che rechino con sé una predisposizione maligna, che non vedano altro modo di rapportarsi agli altri e a se stessi. C’è, poi, un’altra categoria di persone che si precipita letteralmente nella ricerca del proprio benessere, anche a discapito di quello altrui, nella corsa ad arricchire, a incrementare senza meta il proprio prestigio, il proprio potere politico, la propria supremazia, l’accumulazione di beni e di onori. Lo fanno, credo, in ultima analisi perché percepiscono abbastanza chiaramente lo sfuggire senza speranza di quel senso che richiama la voglia di continuità. Sanno di non essere eterni e cercano qualcosa che prolunghi e ingigantisca questa loro aspirazione incolmabile, così come i malvagi si gettano perdendosi nell’orrore spinti dalla disperazione di non vedere né sperare un prossimo futuro di luce che illumini i propri desideri di continuità nell’esistere.
Ognuno vorrebbe, in fondo all’anima, e anche noi che non siamo dannati né profittatori lo vorremmo, essere Dio. Non osiamo professarlo, perché sarebbe qualcosa di mostruosamente assurdo, ma, pur non facendolo palese, neppure a noi stessi, ce lo chiediamo continuamente: perché devo morire? non posso essere anch’io immortale, eterno ed eternamente felice?
Continuità, ecco il termine che designa la nostra angoscia di percorrere il cammino terrestre e, a un certo punto, di lasciare tutto per sprofondarci nel vuoto più assoluto, nel nulla. Che cosa sappiamo di una supposta continuità del nostro esserci dopo la morte fisica? L’ho detto, possiamo formulare soltanto ipotesi, l’una più consolante e più rassicurante dell’altra, ma null’altro, nessuna certezza dunque, così sul piano del raziocinio, così su quello dell’analisi scientifica. L’argomento concernente la continuità è stato fatto oggetto, nella letteratura dedicata, di eventi e sensazioni particolarmente attraenti per il loro essere decisamente desueti, quello delle esperienze extracorporee, come già accennato. Mi riferisco, nella fattispecie, a chi, morto nel corpo, ritorna in vita per raccontare di aver attraversato un tunnel e intravisto una luce, fonte estrema di speranza e di pace. Sono testimonianze di per sé accattivanti, non v’è dubbio, ma quali indizi ci possono rassicurare sulla loro veridicità? Allora ci possiamo credere o meno, e mettiamo anche questo risvolto del problema nel gran calderone delle incertezze non suffragate da risposte attendibili ed esaurienti.
Per altro verso si sa di altri che sono stati presi da sensazioni in vita e in veglia, sensazioni avulse dall’appartenere ai normali fenomeni della nostra natura. Accadono, a volte, cose “strane” alle quali non sappiamo né possiamo attribuire una spiegazione. Sul filo della logica, cose che ci sorprendono, che ci lasciano perplessi, che ci incutono timore. Cose che accadono, come dire, “fortuitamente”, inaspettatamente senza apparente congruenza con quanto in quel momento stiamo facendo o sperimentando. Un esempio può essere quello dei cosiddetti “sensitivi”, per mezzo dei quali sarebbe addirittura possibile stabilire un filo di unione tra la nostra realtà e quella ultraterrena. Alcuni di questi casi, per la serietà delle persone che vi sono incorse, paiono degni di tutto rispetto e richiedono reticenza, discrezione, rispetto. Anche qui, o si crede o non si crede.
Volendo dar seguito a indagini su casi specifici conosciuti, tuttavia, si corre talvolta il rischio di allontanarsi dalla realtà, di estraniarsi e di scivolare su un terreno ignoto, fonte di altri problemi. Ossia si sfiora la possibilità di infrangere quel diaframma frapposto idealmente tra la nostra realtà terrena, della quale conosciamo abbastanza bene alcuni aspetti e consuetudini, e una fantasmatizzata dimensione ultraterrena di cui sappiamo proprio nulla e che, a motivo dell’arcano e del terrifico di cui si ammanta, può essere fonte di sacro timore e di paura.
Giunto a questo punto amo aprire una parentesi per ricordare la figura di una Donna di Scienza che il problema della continuità sicuramente se lo sarà posto, ma che seppe rispondere con ferma risolutezza a domande pertinenti. Per restare in tema, dunque, riporto qui una bellissima dedica composta da Lia Leda Leonardi per Margherita Hack. “Per ricordare e celebrare, poetica/mente, una donna come poche altre ricca di scienza, di animo, di carattere e nota in tutto il mondo, che ci ha lasciato”. La poesia venne pubblicata sulla Rivista ASTRONOMIA, n. 5-6 Settembre-Dicembre 2013. E con la sua riedizione in questa sede concludo la ridda delle mie elucubrazioni dall’analisi delle quali ho ottenuto null’altro che l’apertura di un antro verso un vuoto concettuale più vasto ancora, molto più vasto di quello che ho avuto la presunzione di attraversare fin dall’inizio di questo mio raffazzonato garbuglio di idee.
Viaggiatrice dell’altrove laica migrante
negli sconfinati iperspazi dove ~ ora ~ tu sei?
Ricordi? Dicesti una volta
a chi ti chiedeva quale credo in te custodissi:
M’interesso dell’aldiqua e non dell’aldilà –
Quando sarò morta (e nulla della morte temo),
non potrò soffrirne, perché, morendo, io finisco,
né so ciò che diventerò –
Signora delle stelle, altra aria ora respiri
altri fuochi bruciano le tue incredulità.
E in quell’altra da te che in te era, ora vive
una sua diversa vita di luce di eterni folgoranti bagliori
di lotte tra astri di feroci cannibalismi dei misteriosi abissi neri.
Ma tu, amica Margherita, tu che come me avevi passione di stelle
(tu per strade di scienza io per erti sentieri diversi)
certo non sei finita.
I tuoi occhi miravano in alto scrutando percorsi
e ipotesi di risposte ai millenari perché.
Tu che qualunque energia ti abbia in sé riassunta,
sei viva, uguale e diversa, nell’infinito.
Tu amica di stelle conosciute nei lunghi percorsi
di ricerca e di studio certo avrai – ora
nuove stelle segrete senza nome
e ~ dovunque tu sia ~ sei di nuova meraviglia colma
per tutte le mirabilia che ti circondano.
Sei diventata luce sei nel grembo della Grande Madre
Quell’eterna cosmica energia che regolò il Caos delle origini
e che incessantemente crea e distrugge partorisce e annulla,
urla nell’immenso vuoto, ma niente nel grande silenzio di lei si ode.
Quaggiù, lassù, qui, o altrove sono tutti ingannevoli termini
e in me poeta trema l’eterno dubbio.
Tutto esiste. Nulla esiste e ~ dovunque tu sia ~
Signora delle stelle ~ in altra forma ~ stai ora viaggiando,
nell’eterna non mai compiuta incessante Creazione.
Allo smarrimento dei tempi ora opponi
la tua ricerca di nuovi percorsi e di strade di luce
splendenti nel vortice sconfinato delle spirali di stelle.
Come l’albero che nel cuore della rude corteccia
la vitale linfa cela e dal piccolo seme, nella terra cresce
mettendo radici facendosi ricco di rami con foglie fiori frutti
e verso l’alto va teso come un dito ~ metafora, il tronco
ad indicare il cielo ~ tu ora sei lì volata anima felice
nei nuovi sognati illimitati orizzonti che ti vorticano intorno.
Sei nell’Energia madre che ti generò e che in sé ti riassume.
Così, ora del grande fuoco sei parte,
né più ti pesa la veste di carne.
Non più labirinti di stelle emozioni dalla terra quando
~ nel respiro della notte ~ di fronte alle immensità cosmiche
sentirsi piccoli era quasi un disagio dell’anima.
Ora tu sei una scintilla di luce in uno sconfinato immenso Tutto
~ così vicino all’assoluto Nulla ~ ove miliardi incalcolabili
di incommensurabili astri abitano quel Vuoto
che qui chiamiamo Spazio.
Ora tu sei lì dove da sempre ti portavano
sogno ricerca passione e un magnetico richiamo.
Sei nel respiro dell’Immenso tu laica colma
di nostalgia dell’Infinito, che in te si mutò in sete di sapere.
Il tuo sguardo verso l’Alto approdò nelle stelle,
nelle innumeri misteriose realtà astrali
che ci sovrastano e ci attraggono.
Oltre ogni limite dell’umano pensare nei dilatati confini
di ignote dimensioni. Al di là del possibile
e dell’immaginabile ora tu rinasci
~ Margherita delle stelle ~
nuova e a te stessa sconosciuta fiera esploratrice
di astri e di spazi interstellari, lì dove hai sempre sognato.
Al di fuori della terrestre gravità viaggi più veloce
di ogni luce verso la bramata conoscenza dell’Origine
ora, di essa, finalmente conosci il Nome.
Immagine di copertina: Esecuzioni Semantiche di Élenchos tratta da Abisso Nichilista.