Giustizia militare nella Grande Guerra

All’interno dell’Esercito italiano si verificarono, a un certo punto, casi di defezione con vere e proprie ribellioni nei confronti degli ordini superiori nel momento in cui i soldati dovevano lasciare la trincea e gettarsi all’attacco oppure in occasione di missioni in condizioni impossibili di praticabilità del terreno e di esposizione al tiro delle mitragliatrici nemiche. Il generale Cadorna, capo dello Stato Maggiore dell’Esercito, non era molto tenero di fronte a eventi di questo genere: non si chiese mai il perché – o non volle chiederselo – delle ribellioni e tanto meno procurò di cambiare tattica di comando qualora avesse anche compreso quali fossero stati i propri errori nell’impartire gli ordini.

Intanto uno di questi errori risiedeva nella bassa considerazione in cui erano tenuti i Combattenti esposti ai pericoli maggiori, tenuti nella figura di individui dei quali si potesse fare ciò che si voleva, senza valutare la loro personalità, il loro mondo emozionale, i loro bisogni essenziali. Si doveva mantenere una certa distanza fra la truppa e i quadri ufficiali, quindi nessuna confidenza, nessuna speranza di essere fatti oggetto di attenzione, di comprensione e neppure della minima cura. Molto spesso si mandarono in trincea, sulla prima linea, soldati feriti o malati e, nei momenti più tragici della guerra, persino il vitto, l’acqua, il vestiario e le munizioni vennero a mancare, senza che vi fosse qualcuno a farsene un problema. Le cattive condizioni in cui erano fisicamente e moralmente costretti a vivere i Combattenti, le estenuanti fatiche sopportate per lunghissimi mesi passati al fronte senza poter rivedere le proprie famiglie e senza neppure poter riprendere energie per un sia pur breve periodo di riposo, la demoralizzazione crescente e l’astio provato contro chi li aveva ridotti in quello stato portò molti di loro a uno stato deplorevole di spersonalizzazione.

Il secondo errore, e mi limito a questi due, di Cadorna fu quello di insistere senza ripensamenti con la tattica da lui voluta e imposta, quella dell’attacco frontale. Molte decine di migliaia, diciamo pure centinaia di migliaia di soldati persero la vita perché ridotti a facili bersagli ai tiri incrociati delle mitragliatrici e ai colpi di artiglieria proprio per essere stati spinti a forza dai loro comandanti a guisa di un muro avanzante verso le difese nemiche.

Il generale Cadorna, al quale nulla si può rimproverare in quanto ad abilità di stratega in ambito strettamente militare, manteneva nella propria cultura una visione ferrea e inamovibile del modo di condurre gli scontri armati. Per lui esistevano solo ordini tassativi e la richiesta di ubbidienza assoluta. Chi cercava di evadere agli ordini, ad esempio al momento dell’attacco, e si rifiutava di correre verso un sicuro macello, doveva essere soppresso sull’attimo dall’arma impugnata dal proprio ufficiale o dalle mitragliatrici amiche costrette ad abbattere, dai punti di partenza per l’attacco, i recalcitranti. Le pene previste dal Codice penale militare erano molto severe. Cadorna, nell’avverarsi di defezioni, di ribellioni, ma persino di semplici tentativi di mostrare l’inefficacia di un ordine avanzati da sottoposti, imponeva di ricorrere a pene severe, non ultima quella della decimazione: i soldati schierati in adunata venivano contati a dito, uno ogni dieci era tratto fuori, messo al muro e fucilato. Nessun ritegno per coloro che erano padri di famiglia o che portavano appuntate sul petto benemerenze per aver dimostrato atti di valore e di estremo coraggio in battaglia.

Il 26 maggio 1916 si compì una triste avventura per il 141° reggimento Fanteria della brigata Catanzaro sul Monte Mosciagh (Altipiano di Asiago) dove il reggimento si sarebbe imbattuto in una situazione di sbandamento. Nessun processo ma, per direttissima, la condanna alla fucilazione immediata per decimazione. La brigata Catanzaro, composta da due reggimenti, il 141° ed il 142°, si era distinta per valore nei combattimenti del luglio 1915. Durante la terza battaglia dell’Isonzo, sul monte San Michele, tra il 17 ed il 26 ottobre 1915 aveva perso quasi la metà degli effettivi. Impiegato duramente sul Carso, durante la Strafexpedition il 141º Reggimento subì gravi perdite: il 3 giugno 1916 perse, in un solo giorno, il 38% degli effettivi, con 333 morti. Quello della brigata Catanzaro fu il primo caso di decimazione della storia dell’Esercito italiano. I due battaglioni del 141º reggimento tenevano la prima linea sul Monte Mosciagh. Verso le sette di sera, in concomitanza con una forte grandinata, gli Austriaci attaccarono la linea italiana.

Presi di sorpresa, i soldati si ritirarono verso le seconde linee e alcuni sbandarono nei boschi circostanti. Mentre la Brigata stava godendo un breve periodo di riposo dopo 40 giorni in prima linea sul fronte del Carso contro le fortificazioni dell’Ermada, a Santa Maria la Longa la sera del 15 luglio 1917 si sparse la notizia che sarebbe stata mandata di nuovo in prima linea per contrattaccare. Il 141º reggimento e il 142° ricevettero l’ordine che annunciava l’immediato ritorno in linea. Ne scaturì una protesta che si tramutò in vera e propria rivolta la sera del giorno stesso. I soldati, provati dalla durezza degli scontri, si ribellarono e spararono contro gli alloggiamenti degli ufficiali. Dalle notizie pervenute, non tutte concordi nel citare l’entità delle condanne, pare che per i fatti del 16 luglio 1917 fossero stati giustiziati 28 soldati, più altri 4 il 1° agosto.

Altrove avvenne qualcosa che si avvicina a quanto appena riportato. Accadde in Val d’Astico dove un tenente della nostra Artiglieria testimoniò la misera situazione in cui il suo reparto era caduto: aveva 200 uomini a suo carico, in piena Strafexpedition, ma il 28 maggio 1916 la forza era stata ridotta a 75 effettivi spossati dalla fatica e dalla desolazione nei tentativi ripetuti di ripararsi dai colpi dell’artiglieria avversaria. Fu così che il capitano che comandava le due batterie di artiglieria decise di descrivere la precarietà dello stato in cui si trovavano a combattere i soldati, presentandosi sull’attenti di fronte al comandante della 35a divisione, il generale Petitti di Roreto. Non ottenne una risposta consolante né gli fu palesato un motivo, finanche velato, di comprensione. Anzi, il generale non trovò altro da dire se non un’imposizione di rimando: “Ogni uomo sappia che in Val d’Astico bisogna avanzare, resistere o morire!”.

Similmente accadde il 29 maggio 1916 allorché il generale Cadorna ammonì severamente il generale Clemente Lequio, allora al comando delle Truppe dell’Altipiano nei ranghi delle quali si erano verosimilmente verificati episodi di disordine e di contenuta contestazione degli ordini pervenuti alla truppa. Di fronte a tali evenienze l’imposizione del generale Cadorna fu perentoria e incontestabile: fucilare, senza pensarci due volte, i colpevoli degli scandali suscitati nei ranghi, e senza badare ai gradi portati sulle spalline.

Nei momenti di maggior pericolo per la vita si verificarono casi che si configurarono come vere e proprie diserzioni o ammutinamenti. Si cita l’aspra lotta sostenuta dai nostri soldati a quota 1706 del Monte Zebio (fra Asiago e l’Ortigara) per un’impresa lanciata su posizioni nemiche munitissime e imprendibili. Era il 14 luglio 1916 e vi furono 13 vedette al centro di una triste avventura. Erano reduci da due giorni, l’11 e il 12 luglio 1916, di feroci combattimenti che avevano causato già la perdita di 1.137 uomini della brigata Perugia e quel giorno, il 14 appunto, disertarono passando al nemico.

Fenomeni affini agli ammutinamenti e alle rivolte, come accennato, furono le diserzioni ossia il passaggio al nemico. Uno di questi si verificò il 12 giugno 1916 sul Freikofel (Est del Passo di Monte Croce Carnico) dove 13 soldati della 72a compagnia disertarono. Nella mattinata del 12 giugno si trovarono spostati alcuni elementi delle difese secondarie, come se fosse stato aperto un passaggio verso le postazioni austriache distanti non più di una quarantina di metri. Erano Alpini del battaglione Tolmezzo ed era il tempo in cui al comando della “Zona Carnia” (XII corpo d’Armata) si trovava il generale Clemente Lequio. Di fronte al grave caso di diserzione il generale sarebbe dovuto ricorrere a provvedimenti estremi, come lo scioglimento del battaglione incriminato, ma si rifiutò di prendere tale determinazione; decise peraltro di ordinare l’affissione della sentenza di morte alle porte delle case da cui provenivano i rei.

Il 1917 fu l’anno in cui proliferarono gli episodi di giustizia sommaria. Nella storiografia specifica si descrive quello che vide come protagonista, il 5 giugno, il 117° reggimento della brigata Fanteria Padova. Il fenomeno assunse dimensioni di temibile gravità al tempo della 10a Battaglia dell’Isonzo, circa dal 13 maggio al 23 giugno 1917. Si ebbero 15 casi di giustizia sommaria nel solo giro di 40 giorni: si parlò di 47 vittime fra i soldati individuati. Furono episodi per la maggioranza accaduti sul fronte carsico.

Sorprendente anche il caso del battaglione Aosta che aveva sempre esibito un comportamento di alto valore patriottico: ricordiamo i massacranti combattimenti sul Vodice nel 1917 e sul Monte Solarolo nel 1918, meritevoli dei più alti riconoscimenti. A un certo punto, però, gli Alpini non ebbero più la forza di sopportare le fatiche degli assalti. Avevano combattuto dieci durissimi mesi sul fronte del Monte Nero e si aspettavano che fosse loro accordato un meritato periodo di riposo. Invece no, e il battaglione fu inviato, senza prevedere pause, sulle massicciate dell’Ortles-Cevedale a oltre tremila metri, tra la Valfurva e la Val di Solda. L’Aosta, compatto, si ammutinò con le armi in pugno e ci volle una gran fatica per indurlo a desistere.

Uno dei più feroci e spietati casi di giustizia sommaria si verificò ai danni del 38° reggimento della brigata Ravenna, appartenente alla 7a divisione del VII corpo d’Armata. Fu la 7a compagnia a subire l’ira della mannaia cadorniana.

Ai suoi tempi esercitò molto scalpore e lasciò profonda amarezza la condanna di quattro Alpini appartenenti al battaglione Monte Arvenis. Gli Alpini della 109a compagnia avevano ricevuto ordine di attaccare la cima orientale del Monte Cellon (Passo di Monte Croce Carnico), ma il percorso indicato dava subito a vedere di essere uno dei più improbabili per la riuscita dell’impresa e, in aggiunta aggravante, avrebbe richiesto il sacrificio di molte vite fra gli Alpini.

Alcuni graduati di truppa ne rappresentarono le difficoltà insormontabili al comandante la compagnia il quale interpretò quell’atto come un rifiuto a eseguire l’ordine impartito e, per tutta risposta, non fece altro che deferire un’ottantina dei propri sottoposti al Tribunale Militare Straordinario di Guerra, assumendo come capo di imputazione il reato di rivolta. Il processo ebbe luogo a Cercivento, poco distante dal centro abitato di Paluzza sul Canale di San Pietro. Era il 29 giugno 1915 e la conclusione dell’inchiesta fu la condanna a morte per fucilazione di quattro militari, oltre a pene minori di reclusione per altri. L’esecuzione della condanna avvenne trascorse appena due ore dall’emanazione del verdetto.

D’altra parte non erano solo i militari al fronte a protestare per le condizioni disumane in cui erano stati cacciati. Anche sul fronte cosiddetto interno i fermenti non mancavano e si ebbero moti di protesta contro la guerra e contro la crescente penuria di derrate alimentari. Successe per esempio a Torino dove, tra il 22 e il 26 agosto 1917, prese forma una vera e propria sommossa popolare con l’innalzamento di barricate e l’accendersi di scontri a fuoco contro le forze dell’ordine e con il doloroso epilogo di una cinquantina di morti e di circa 200 feriti.

L’ultimo caso di giustizia sommaria, di cui si ha notizia, fu quello del caporale Giovanni Peirano appartenente al 52° reggimento Alpi, nel corso della seconda battaglia della Marna (combattuta dal 15 luglio al 6 agosto 1918; alla data del 19 luglio il II Corpo d’armata italiano, al comando del generale Alberico Albricci, operava in Francia dove subì la perdita di 9.334 tra ufficiali e soldati morti o feriti su una forza di combattimento di circa 24.000 uomini. Le Salme furono sepolte nel Cimitero militare italiano di Bligny e in quello di Soupir).

Nel complesso dei 41 mesi di guerra per l’Italia si contarono 152 casi di decimazione che causarono la soppressione di 290 soldati. La Grande Guerra terminò per l’Italia lasciando alla Storia un bilancio assai funesto in quanto a defezioni accertate: si contarono circa 870 mila denunce per diserzione o per insubordinazione che accesero qualcosa come 350 mila processi e 210 mila condanne; 4 mila furono le condanne a morte e, di queste, 750 si conclusero con l’esecuzione. Il generale Emilio Faldella parla di 729 condanne a morte eseguite in seguito al verdetto emesso da Tribunali Militari ed enumera le fucilazioni per ciascun anno di guerra: 66 nel 1915; 167 nel 1916; 359 nel 1917; 137 nel 1918. Indica ancora 843 esecuzioni sommarie eseguite.

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