Donne in guerra 1915-1918

Donne in guerra  1915-1918

Le donne avevano fatto sentire la loro presenza già nel 1896 a Milano, dove erano insorte per una forte protesta in seguito ai disastri militari e al sacrificio dei soldati caduti nella battaglia di Adua.

Arriviamo al primo Conflitto mondiale. La guerra stava per iniziare, entrava il mese di maggio 1915, tra forti tensioni, in particolare sul fronte orientale dove gli abitanti dei paesi confinari, per la prossimità al territorio nemico, erano visti con estrema diffidenza in quanto sospettati di collusione con gli Austriaci. Per questo gli indiziati erano bollati con il nome di “austriacanti”. Un gran numero di loro fu allontanato dal luogo di nascita e internato in regioni lontane dalla terra natale. Fra i 3000/5.000 internati, 200 erano donne accusate di atteggiamento austriacante.

In tutta Italia gli uomini erano stati chiamati a vestire la divisa militare, sostituiti da uno stuolo di sei milioni di donne nei lavori dei campi.

Nell’industria le donne raggiunsero l’entità di 200.000 lavoratrici nel 1918. Alla data del luglio 1916 erano pagate da 50 centesimi a £. 1,20 al giorno. Nelle fabbriche di materiale bellico potevano essere pagate con 5, fino a 10 £. al giorno.

Prima di recarsi al lavoro erano costrette a sottoporsi a snervanti attese in lunghe code per l’acquisto del pane, ma succedeva anche che non facessero in tempo e allora si sarebbero recate a lavorare a digiuno. Veniva loro concessa una misera razione di burro e zucchero che barattavano volentieri con pane per sopravvivere, esse con le proprie famiglie. Quando lo Stato italiano si trovò a dover contrarre vistosi debiti per finanziare la guerra, furono chiamate a fare dono delle fedi d’oro.

Donne soldato

Vi furono parecchi casi di donne desiderose di imbracciare le armi. Tentarono il travestimento ma furono inevitabilmente scoperte. Una fra esse fu Luigia Ciappi, calabrese, in perfetta tenuta militare.

Poi Gioconda Sirelli, pollivendola milanese, fermata nonostante portasse la divisa militare; Vittoria Savs, militante in guerra per circa due anni, la cui identità fu svelata in seguito a una ferita da mina riportata a un piede. Ancora, Maria Abriani, prima Medaglia d’Argento al Valor Militare (MAVM) per aver guidato l’occupazione di Ala (Trento, confine austriaco) per le truppe del generale Cantore.

May Senta Wolf Hauler era una crocerossina tedesca che si fece passare per uomo pur di arruolarsi nel Württemberg Gebirge Battaillon il 2 novembre 1917. Fu un sergente di sanità a svelare il mistero. Egli fissò un controllo ai piedi per la compagnia trasmissioni alla quale apparteneva anche la Wolf Hauler e dopo spiegò al medico del battaglione: “Signor dottore, ogni uomo sull’alluce ha i peli, ma donne mai e Wolf Hauler non ne ha neanche uno”.

Donne esemplari, madrine di guerra, dame e patronesse

Un caso emblematico di patriottismo fu quello di Luisa Zeni, agente segreto, MAVM, austriaca; in quinta elementare aveva risposto a una domanda della maestra assicurandole che Roma era la città più bella, non Vienna. Militò nello spionaggio a Innsbruck, poi dal 1915 si arruolò nelle Crocerossine in reparti infettivi. Morì nel 1940 per Tbc.

Clelia Pizzigoni Calvi perse tutti quattro i figli: Attilio Calvi (Adamello 1916), Santino (Ortigara 1917), Giannino (morto per Spagnola), Natale (Adamello 1920).

Maria Giudice, maestra, pacifista, socialista, licenziata, reclusa in carcere, vedova di guerra con 7 figli. Incoraggiò le donne nei “moti del pane” del 21-27 agosto 1917 a Torino (24 agosto 1917: 41 morti, oltre 200 feriti, deportati nel forte di Exilles, Valle Susa, massacrati di botte).

Rosa Genoni fu creatrice di moda, pacifista, fondò la Pro Humanitate; lavorava per assicurare latte ai bambini, cibi ai vecchi, vestiario e servizi ai bisognosi, soccorsi ai prigionieri in Austria e Germania.

Donne in fuga

Dopo Caporetto: “Passano giovinette che si attardano nella vana ricerca di un parente. Saranno violentate per via, sul margine dei fossi, dai tedeschi ubriachi, che vincono”. Vittime degli stupri di guerra: bisognerà aspettare fino al 1996 perché la violenza sessuale venga finalmente considerata come reato contro la persona e non come un “delitto contro il buon costume e l’ordine delle famiglie”.

Crocerossine

Per essere accettate nel Corpo delle Infermiere Volontarie o Crocerossine era necessario il consenso del coniuge o dei genitori. L’imposizione della tutela maritale fu abolita soltanto nel 1919 con la Legge Sacchi.

Le Crocerossine appaiono già dal febbraio 1908. Si occupavano del ferito dopo che il medico si era occupato delle ferite. Nella prima Guerra mondiale erano circa 8.500 volontarie, provenienti in maggioranza dalla nobiltà e dall’alta borghesia; 1.320 erano attive al fronte. Resistevano sul posto a ore di bombardamento. Molte di loro donarono persino lembi di pelle. Insegnavano ai loro assistiti piccoli lavori, per gli inabili scrivevano alle famiglie. Erano equiparate agli Ufficiali e portavano stellette a 8 punte.

La prima ispettrice nazionale fu la duchessa d’Aosta Elena d’Orléans, moglie di Emanuele Filiberto di Savoia. La principessa Maria Letizia di Savoia accoglieva e curava i feriti di guerra nel suo castello di Moncalieri.

Le Infermiere Volontarie prestavano servizio anche sui treni ospedale, nel numero di quattro Infermiere per treno.

Dopo la disfatta di Caporetto furono tre le infermiere che scelsero di non abbandonarono i loro feriti: Maria Andina (Como), Maria Antonietta Clerici (Como), Maria Concetta Chludzinska (italo-polacca), prigioniere a Katzenau fino al maggio 1918, premiate con MVM e con la Medaglia Florence Nightingale (istituita nel 1852 dopo la guerra di Crimea, dove la Nightingale operò con 32 volontarie inglesi) nel 1920 con altre tre: la duchessa d’Aosta, Maria Teresa Viotti (detta Babetta) e Ina Battistella (28 ottobre 1917, Ospedale S. Gottardo, Udine) allorché, in seguito alla fuga dei sanitari, erano rimasti soltanto un medico e Ina la quale contrasse il vaiolo nero; fu insignita di MAVM.

Costanza di Colloredo Mels, di stirpe nobile, ottenne dai contadini grano e farina da distribuire ai poveri, e manteneva con loro forti legami; trascriveva testi in Braille per i privati della vista e ogni mattina presto si recava ad aiutare i poveri.

Sita Camperio Mejer fondò la prima Scuola Ambulanza della Croce Rossa Italiana. Il primo Corso di formazione C.R. fu istituito a Milano nel 1906, con la partecipazione di 327 signore. Sita propugnò la fondazione della C.R. europea. Con Elena d’Aosta e altre 64 Infermiere Volontarie scelse di essere inviata in Libia (sul piroscafo Menfi, verso Tripoli) nella guerra 1911-1912. Nel 1912 fondò l’ospedale-scuola “Principessa Jolanda”. Fu attiva nell’Ospedale di Sagrado, il più avanzato del Carso, per la cura di feriti gravissimi che non potevano proseguire. Sua madre aveva curato i feriti nella guerra franco-prussiana del 1870.

Margherita Kaiser Parodi Orlando, arruolatasi a 18 anni, (morta di Spagnola a 21 anni) resistette fino all’ultimo per prestare aiuto ai feriti, anche sotto i bombardamenti; fu insignita di MBVM; è sepolta al Sacrario Militare di Redipuglia, unica donna tra 100.000 soldati. Sulla lapide del cippo eretto a Monte Sant’Elia, di fronte al Sacrario, è riportata la scritta: “A noi tra le bende fosti di carità l’Ancella. Morte ti colse, resta con noi sorella”.

Parlano le Crocerossine

Nomi celebri: Miss Carow, cognata di Roosevelt; Italia Garibaldi, che prestò servizio in Friuli e nelle Ardenne, dove combattevano i suoi cinque fratelli, ebbe a esprimeresi: “Guardo gli avanzi di quanto era stata una gagliarda giovinezza, un viso a metà asportato, membra spezzate, braccia pendenti dalla sola pelle”.

Augusta Boniotti, attiva presso l’ambulanza chirurgica di Pieris (GO): “I feriti giungono numerosissimi, alcuni impazziti, altri terrorizzati, tutti sgomenti, sconvolti, con gli abiti inzuppati di sangue e infangati”.

Maria Roncali e Maria Navoni, curando i colpiti da gas (8.000 soldati nella Strafexpedition): “Come ubriachi, con gli occhi stravolti, la schiuma alla bocca, il respiro affannoso”.

Sita Camperio Mejer, decorata nel 1935 con la prestigiosa Medaglia Nightingale, nel maggio 1917 scriveva: “Grande lavaggio di piedi e di gambe incrostate di terra del Carso. Ci vuole la benzina per giorni e giorni. Un padre di famiglia muore prima di essere portato in ambulanza, colpito al midollo spinale. Rami divelti dagli alberi per guanciale, visioni macabre; non ci sono letti sufficienti. Continuo arrivo di feriti gravissimi, quasi tutti padri di famiglia. Uno strazio. Ringraziano sempre. Pare che il nemico miri il ponte sull’Isonzo, poco lungi dall’Ospedale. I feriti sono terrorizzati. Molti arrivano irriconoscibili col viso imbrattato di sangue… i ratti entrati dalla finestra. Spirato un padre di sei figli, ferito all’addome. Un ferito da bomba a mano: accecato, senza mani, ustionato su tutto il corpo.

“24 Maggio 1917. Terzo anniversario. Arrivo di molti feriti sporchi e laceri. Terra rossiccia e attaccaticcia del Carso. Calze attaccate come da colla. Estremità gonfie e piagate. Uno sfracellato muore dopo poche ore.

“27 Maggio 1917. Rimango sola con una quarantina di feriti, dei quali quattro gravissimi e condannati a morire. Un ferito tagliato nella schiena dalla nuca alle reni, cosciente di dover morire. Il tenente Bedoni peggiora: «Sorella, mi dia un revolver per finir presto». Urla di belve feroci in sala di medicazione: è finito il cloroformio! Mentre sostengo un moribondo di setticemia scoppiano cinque granate, una a pochi metri dall’Ospedale. Cascano sassi e schegge in reparto rompendo i vetri.

“5 Giugno 1917. Scoppi: si teme sia la polveriera. I feriti sono terrorizzati, tentano di scappare, alcuni su una sola gamba: macabra visione di monconi, bende sfilate e imbrattate di sangue, camicie slegate che mostrano schiene magre e piagate. Si sente quel terribile puzzo di cancrena che vaga in corsia. Come potrò tornare nel mio mondo che balla e si diverte? No, non potrò mai più ballare dopo aver visto tanto soffrire; mi parrebbe una profanazione”.

Margherita Adele dei marchesi d’Incisa di Camerano e Santa Giulia (nata nel 1879), dopo gli orrori visti negli ospedali, tornata da Villa Vicentina a Torino, scriveva sul suo diario: “La vita normale, le tonalità chiassose, le conversazioni futili, tutto mi urta. I teatri e i cinematografi sono gremiti. Non capisco come si abbia il cuore a divertirsi, mentre tanta gente soffre e muore e tante famiglie sono nel dolore.

“29 Giugno 1917. Giornata torrida; i feriti sono divorati dalle mosche che vengono dalle stalle dei muli, dietro l’Ospedale.

“30 Giugno 1917. Abele Sghizzi operato allo sterno, tenendomi stretta la mano, mi chiama, e io «Abele, son qui. Mi riconosci?». E lui: «Mamma, ti riconoscerò anche quando sarò morto!». Morirà dopo 16 giorni.

“3 Luglio 1917. Calore torrido, mosche e zanzare a migliaia.

“Uno di Varese ha la cancrena avanzata del braccio e glielo amputano subito appena tolto dalla barella; l’altro sarà amputato della mano destra, e molti altri, molti altri ancora. Non oso più scrivere!

“28 Ottobre 1917. Alle sei di sera arrivo a Mestre: la stazione è nera di truppa e di profughi. C’è un’aria cupa che spira ovunque, voci di donne parlano di piedi piagati, di roba abbandonata al nemico, i bambini piangono e chiedono pane.

“Udine sgomberata!

“Milano. Perché continua la vita? Automobili, tram, signore eleganti; ma non sapete dunque? Dolore senza nome!

Maria Adelaide Corso. Belluno, Ospedale n° 28 della 4a Armata:

“Il chirurgo incide, sonda, zaffa; il paziente prorompe in un alto lamento, le sue mani scarne s’attanagliano a quelle dell’infermiera «Signora, non mi lasci, la voglio sempre vedere, io muoio! Mi faccia arrivare a casa un giorno, un giorno solo per rivedere mia madre e mio padre e poi morire; stia accanto a me, mi vedrà morire e poi dirà a mia madre e mio padre che mi ha benedetto lei!».

“C’è un povero ferito molto sofferente. Il povero corpo è invaso ormai dalla setticemia completamente. Sono stati avvertiti i genitori e deve giungere oggi il padre dalla lontana Sardegna. Un vecchietto tutto bianco in volto, con la lunga berretta sarda in capo. L’infermiera si avvicina piano, il malato la scorge: «Questa è la signora, la signora…» e addita con la mano scarna, ma non ha forza più. Poi guarda il padre: «Adesso posso morire». Sono le ultime parole; il vecchio piange sommesso, prende la mano dell’infermiera, gliela bacia. La signora si ritrae discretamente. La mattina seguente il lettuccio è vuoto.

Le portatrici Carniche

Accadeva, a quel tempo e in quei luoghi, che la necessità di rifornire gli uomini lassù in alto imponesse il trasporto del materiale richiesto dalla situazione in atto per una quantità tale che sarebbe dovuta bastare a rifornire una intera divisione di soldati, diciamo qualcosa come dodicimila uomini. Rifornire i soldati là in alto si doveva, senza tanti ripensamenti. Fu così che gli alti Comandi militari trovarono una soluzione: avanzare una urgente richiesta presso la popolazione perché si risolvesse a prestare il proprio aiuto.

Furono le donne a rispondere all’appello e lo fecero con il profondo senso del dovere che le contraddistinse fino ai cupi eventi di quel disastroso 24 ottobre 1917. Molte donne dei paesi di media e alta valle in Carnia e altrove, dunque, accettarono perché avevano lassù sulle creste montane i loro cari e per nulla al mondo li avrebbero lasciati soli e in difficoltà. “Andiamo – dicevano – altrimenti quei poveretti moriranno pure di fame”.

Il Governo italiano aveva disposto il compenso di una Lira e 50 centesimi a persona per ciascun viaggio effettuato. Oggi una cifra del genere farebbe sorridere, sarebbe anche difficile a immaginarsi, ma, se pensiamo che nel 1915 un operaio guadagnava dai 20 ai 30 centesimi all’ora ossia, lavorando dieci ore al giorno, circa due o tre Lire giornaliere, l’obolo ricevuto da quelle donne carniche equivaleva a quasi la paga diurna di un operaio.

C’era la fame, allora, in Carnia, una fame vera e nera che portava in certi casi alla disperazione, tanto da costringere la gente, che moriva per denutrizione con i soli sussidi governativi, a racimolare di tutto che fosse adatto a mescolarsi con quel po’ di farina rimasta a disposizione al puro scopo di percepire quel senso di replezione che poteva sopire ingannevolmente i morsi della fame, nell’illusione di poter sopravvivere per un po’ ancora. Con la modesta somma di Lire 1,50 che, equiparata alla valuta dei nostri giorni, poteva corrispondere a 4 o 5 Euro, le donne carniche potevano garantire un migliore tenore di vita ai propri bambini e ai vecchi inabili componenti la famiglia.

L’incarico che avevano accettato non era cosa da nulla, perché comportava il sottoporsi a fatiche e il dispendio di tempo considerevoli. Si trattava di salire gli erti pendii, superando dislivelli dai 600 ai 1200 metri e sfidando i rischi delle traiettorie micidiali che fendevano l’aria a destra e a manca, con sulle spalle una gerla carica sino a 40 chilogrammi e anche più di generi vari. Portavano pane, viveri, biancheria di ricambio, medicinali, materiale logistico, armi date in riparazione e suppellettili, munizioni e quant’altro fosse stato richiesto dai Comandi periferici. Nelle giornate d’inverno s’inerpicavano calpestando neve alta spesso sino alle ginocchia, con poche soste per riprendere fiato. Al ritorno, poi, riempivano nuovamente le proprie gerle con materiale da destinare a riparazioni, con biancheria da lavare e, all’occorrenza, con qualche ferito o malato da trasportare negli ospedali di fondo valle per le cure del caso. Persino le mani non rimanevano in ozio perché, fra un passo e l’altro nella discesa altrettanto faticosa e insidiosa quanto la salita, queste donne eccezionali si dedicavano a sferruzzare per confezionare semplici capi di vestiario e calzetti per i propri cari che stavano in casa nell’attesa del loro ritorno. E, qui giunte, neppure potevano godere di un meritato riposo dopo le sfacchinate della giornata. Appena il tempo di asciugarsi alla meglio se erano incorse in un temporale o se la neve alta aveva intriso i loro vestiti; poi, ecco i bambini e i vecchi da coprire di attenzioni e di cure, ecco le faccende domestiche da sbrigare, la stalla, se c’era, con qualche animale da accudire e quel po’ di orto che avevano a disposizione, da tenere in ordine per il magro sostentamento che avrebbe potuto assicurare alla famiglia.

Un giorno, era il 15 febbraio del 1916, uno di questi gruppi si mosse di buon’ora da Timau, a valle del Passo di Monte Croce Carnico. Le Portatrici che lo componevano s’incamminarono, curve sotto i pesi opprimenti delle gerle, lungo una vallata che, in direzione est, ancor oggi si spinge verso la Casera Malpasso. Poco a monte di questa località, alla Roccia del Malpasso quota 1619, si fermarono qualche attimo per riprendere forze. Una di quelle Portatrici era Maria Plozner Mentil (nella foto a lato) di Timau. Fu proprio in quel fatidico istante che venne colpita da un proiettile mortale, forse partito da qualche angolo ben occultato della soprastante linea frontaliera. Trasportata morente a valle, abbandonò di lì a poco la propria vita lasciando quattro bambini in tenera età e il marito combattente sul Carso. La sua Salma fu tumulata nel Tempio Ossario di Timau, unica sepoltura femminile fra le 1.764 Croci colà annoverate. Alla sua Memoria fu conferita, il 29 aprile 1997, la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

A memoria perenne del valore patriottico portato in alto dalle Portatrici Carniche, tutte decorate con l’alta Onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto, fu eretto in Timau, per volontà e iniziativa del compianto Cav. Lindo Unfer, direttore del Museo “La Zona Carnia nella Grande Guerra”, un significativo monumento (vedi foto in alto) raffigurante, in primo piano, il sacrificio di Maria Plozner Mentil. A questa coraggiosa donna carnica fu intitolata la Caserma di Paluzza, a valle di Timau, l’unica Caserma che, in Italia, reca un nome al femminile, oggi purtroppo demolita quasi del tutto, perché da tempo abbandonata all’incuria, cadente sulle proprie fondamenta.

Maria Bergamas.

Era una popolana triestina. Il figlio Antonio, MAVM, morì mentre tagliava i reticolati con le pinze e fu dichiarato disperso. Nel 1921 la Bergamas fu designata a portare la scelta su una delle undici bare contenenti i resti di Soldati ignoti e custodite nella Basilica di Aquileia. La figlia Anna offre una testimonianza: “La mamma raccontava che era decisa a scegliere l’ottava, o la nona, perché erano due numeri che le ricordavano la nascita e la morte di Antonio.

Ma quando fu dinanzi a quelle undici bare allineate disse di aver provato vergogna, che nulla doveva ricordarle suo figlio, e fu spinta a scegliere la decima, perché fosse davvero un soldato ignoto quello che sarebbe andato a Roma”. Nella Capitale, schierati i 355 vessilli dei reggimenti nella Grande Guerra, e 8000 bandiere, la Salma del Milite Ignoto fu traslata dapprima a S. Maria degli Angeli, poi al Vittoriano o Altare della Patria (vedi foto). Era il 4 Novembre 1921.

Immagine di copertina tratta da firenzetoday

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