Il primo è tratto da un comunicato del Giornale Radio 1, diffuso alle ore otto del ventidue settembre 2005. Si parlava, in argomento di inizio dell’anno scolastico, di bambini stanchi e affaticati oltre misura a scuola, bambini che hanno il consenso dei genitori di vegliare, la sera, sino a tardi, per assistere a programmi televisivi, per bruciare tempo nel giocare con le play-stations e con lo scambio di sms; bambini che, stando alle statistiche, dormirebbero da un’ora a un’ora e mezzo in meno del necessario. Poi, il mattino successivo, dormono a scuola, nel senso che sonnecchiano colti da stanchezza e da torpore intellettuale.
Il secondo esempio. La RAI/TV3 diffondeva, il quindici settembre 2005 verso le ore 23,30 il conosciuto programma “DOC.3” che, in quell’occasione, portava il titolo “A scuola”, presentato dall’agenzia “Fandango”, scritto e diretto da Leonardo Di Costanzo. Siamo alla periferia di Napoli, presso la Scuola Secondaria di primo grado “Cortese”. La Scuola si presenta, da subito, come un luogo dove albergano conflittualità acute che prendono tosto le sembianze di uno scontro verificatosi tra la legge del quartiere, i comportamenti che ne discendono e l’uso incorreggibile del dialetto locale nei rapporti degli alunni con i professori da una parte e, dall’altra, la necessità istituzionale di garantire sia il rispetto delle regole attinenti al senso di cittadinanza sia l’uso della lingua nazionale nei rapporti comunicativi in scuola.
La Scuola di cui sto parlando aveva, in precedenza, abolito l’applicazione della sanzione disciplinare relativa all’allontanamento temporaneo dalle attività didattiche degli alunni responsabili di comportamenti gravemente negativi. La pena era stata abolita in osservanza del diritto all’istruzione, uguale per tutti, dal quale deriva il dovere, per la Scuola, di insegnare a tutti.
Una prima impressione di impotenza da parte della Scuola a gestire una situazione divenuta ormai pesante deriva dall’atteggiamento di alcuni genitori, dal quale trapelano apatia, noncuranza, disappunto e delega. Il dirigente scolastico convoca un ragazzo ripetente, segnalato dai professori per il suo comportamento negligente e di disturbo in classe. Alla domanda rivoltagli dal “Cosa vorresti che la scuola non ti dà?”, non segue alcuna risposta. Il dirigente convoca la madre del ragazzo, le illustra la situazione, ma la madre, dopo aver ben ascoltato, non sa fare altro che proferire queste parole: “Fossero tutti questi i problemi… Più di dirvi di dargli addosso non posso fare!”. Ma si verificano anche atti di violenza, con tanto di botte scambiate fra compagni di classe. Il dirigente, di fronte ai docenti riuniti, sollecita: “Poche regole, che siano dieci regole, ma che si osservino, con chiarezza!”.
Il filmato termina con la chiusura dell’anno scolastico e l’esposizione degli elenchi degli ammessi e dei non ammessi; alcuni studenti stracciano dalla parete gli elenchi, buttandoli a terra, poi tornano a strapparli dalle mani dell’operatore scolastico che li ha appena raccattati.
Gea: Che cos’è, terzo mondo? degrado? inciviltà? Certo che, da come li dipingi, i tuoi quadri incominciano a terrorizzarmi, anche visti da lontano.
Geo: Uso le tinte che ho a disposizione.
Gea: Ma è possibile che la gente ami farsi mettere in gioco, esporre sulla pubblica piazza la propria faccia, con tanto di nomi e cognomi?
Geo: Non ci ho capito nulla. Non mi hanno spiegato qual era il fondo reale del copione. Voglio poter continuare a sognare che fosse solo una montatura, messa in scena da bravi attori. Se no, ci sarebbe da incominciare a strapparsi i capelli! Nel mio piccolo mi domando: realtà o simulazione? Le Agenzie produttrici alle quali chiesi di dare chiarezza al mio dubbio non mi degnarono di una spiegazione. Ma sarà proprio vero che con certe famiglie non c’è nulla da fare? Non esisterà un modo per riportarle sulle proprie responsabilità, per pungolarle con un minimo di riflessione e di analisi della realtà? Eppure la storia delle piccole riforme scolastiche ci racconta di alcuni tentativi per incoraggiare la partecipazione delle famiglie alla vita della scuola.
Partiamo dagli anni settanta. L’incanto esercitato dal Decreti delegati del 1974 ebbe vita breve; subentrò abbastanza presto la delusione da parte dei genitori ivi coinvolti, veicolata dal formarsi di un sempre più avvertito senso di inutilità nell’uso discrezionale del potere e nella possibilità di incidere positivamente sul buon funzionamento della scuola. Ancora oggi, chi si interessa dell’andamento scolastico e dei problemi inerenti al miglioramento sono, è risaputo, i genitori già sensibili e motivati per propria natura e cultura. Non mi riferisco soltanto all’interessamento che i genitori potrebbero dimostrare per la scuola in sé e per il modo in cui essa è governata; voglio riferirmi addirittura all’interessamento, alla preoccupazione, alla cura che in certe famiglie si rivolgono o non si rivolgono alla progressione culturale dei propri figli nella scuola che frequentano. Perché capita anche che alcuni alunni siano lasciati allo sbando, non godano di comprensione, di appoggio, della semplice considerazione per il loro essere ragazzi che studiano e che, studiando, possono avere problemi e difficoltà di varia natura da affrontare. Sempre più il personale docente e dirigente si rende conto che nulla di sostanziale si può cambiare nella scuola senza la collaborazione dei genitori. Non basta, come da qualche parte si suggerisce – non si sa se per convinzione o per una battuta di spirito più o meno fondata sui fatti – attirare i genitori alle discussioni che si svolgono all’interno della scuola, per realizzare il miglioramento, offrendo loro un clima di accoglienza particolarmente gradito, come quello che potrebbe essere reso possibile dall’offerta di un servizio bar con consumazioni gratuite. Coloro che generalmente non si fanno mai vedere o che si presentano soltanto in seguito a inviti che sono diventati convocazioni quasi perentorie non abboccherebbero certo all’amo della seduzione di gola: potrebbero provarci una volta, per curiosità, ma poi il muro di resistenze che alberga nel loro modo d’essere li riporterebbe lontano. E, d’altra parte, sarebbe un po’ come parlare di motivazione estrinseca – così nel linguaggio pedagogico – che dimostra efficacia là dove un rinforzo positivo di carattere episodico ha dato luogo all’esibizione di un comportamento di risposta altrettanto episodico. L’alternativa è investire tutto sulla motivazione intrinseca che richiede un processo di riflessione dal quale possano maturare convinzioni anche parziali ma consapevoli. Tanto si può ottenere se si riesce, con ripetuti tentativi, a indurre in tutti i genitori un atteggiamento, una disposizione all’ascolto, per poi parlare di argomenti veramente interessanti, argomenti che tocchino la sensibilità dei genitori in quanto tali. Credo che si debba soprattutto puntare a lavorare sull’intelligenza della persona umana, tenendo ferma una forte fiducia sulle sue potenzialità. Ma parlo di una fiducia che dal personale della scuola può essere trasmessa ai genitori qualora a questi ultimi sia effettivamente dato di toccare con mano i benefici che provengono da una proposta di cambiamento. Che questi benefici si presentino puntualmente o meno è ciò che costituisce la sfida che docenti e dirigenti lanciano alla qualità della cultura che essi vanno costruendo insieme ai loro studenti.
Chi, che cosa, come valutare?
Gea: Non temi di gettare discredito sulla figura del docente in genere?
Geo: Solo perché dico quel che succede nel mondo?
Gea: Ma, sai, qualcuno potrebbe aversela a male.
Geo: No, per il motivo che una analisi seria della situazione non può nascondere alcuni particolari. D’altra parte bisogna pur far capire quando e come un dirigente sia costretto a gettare la spugna.
Gea: Dunque tu insinui che la prima dote di un dirigente scolastico è l’impotenza a fronte di necessità impellenti di cambiamento.
Geo: Non proprio; tutto concorre a far credere che il dirigente scolastico goda di poteri e di strumenti di ampia portata innovativa: sì, al dieci per cento.
Gea: E il restante novanta?
Geo: Solo parole.
L’autoanalisi della scuola sul proprio funzionamento, detto con tutta sincerità, qualche volta deve prendere forma di vero e proprio esame di coscienza, qualora al centro delle preoccupazioni non sia stato collocato lo studente, come talvolta accade e come talvolta si ricorra a strabilianti bizantinissime alchimie per far coesistere sulla medesima scena il calo delle iscrizioni e il mantenimento del numero delle classi – o dei posti se si preferisce.
Un bel problema! Che si tratti di eccessivo zelo? Di allarmismo oltre misura? Di preoccupazione sproporzionata? Di mal ponderata interpretazione di segnali e informazioni raccolte e conseguente distorsione del loro significato con il pericolo che prendano vita sin troppo facili equivoci, malintesi, fraintendimenti? Non rischiamo per caso di sottoscrivere e alimentare qualche sorta di insinuazione collusiva verso l’obiettivo non palese ma ambìto di avere, per i propri figli, sempre e in ogni caso, un professore “su misura”? I dubbi sono molti, altrettanto i pericoli che stanno a insidiare la discrezionalità decisionale di chi è chiamato a gestire in prima persona la situazione, una situazione già a prima vista indubbiamente delicata. Come valutare il peso di un reclamo dichiaratamente urgente da una parte e, dall’altra, l’impatto di ciò che si dovrà o si potrà fare nella tutela della rispettabilità, dell’onore professionale, della serietà deontologica del dipendente?
Si tratta comunque di muoversi, e di farlo al più presto, ma in quali modi, si pone a pensare il dirigente? In primo luogo con l’assicurazione, data ai genitori, che si attiverà immediatamente per far luce sulla vicenda e porvi rimedio qualora il reclamo dimostri urgenza. Poi il dirigente convoca il docente incriminato, rivede la programmazione educativo-didattica predisposta dal docente, controlla i piani di lavoro giornalieri. Si reca in classe un paio di volte e vi si sofferma per assistere alla lezione. Accade persino che, a un certo punto, il docente rappresenti con un certo disagio la propria sensazione di essere diventato oggetto di osservazione, si sente colpevolizzato, braccato, privato dello spazio che egli stesso deve gestire nel rapporto con i propri alunni. Ed è proprio questo spazio a costituire qualcosa di inafferrabile per un osservatore esterno, in quanto luogo del tutto privato all’interno di una struttura che è pubblica per elezione. Dunque il dirigente scolastico non incontra motivazioni abbastanza evidenti per intervenire. Così da noi, nel nostro Bel Paese. Ma non la stessa cosa sarebbe potuta succedere in Inghilterra, per fare un esempio, dove l’organizzazione interna delle scuole, come ho avuto occasione di descrivere in precedenza, prevede la costituzione e l’attivazione di un Consiglio di Amministrazione (Governing Body) i cui membri (Governors) hanno competenze nel monitorare i risultati dell’attività scolastica, nella verifica di tali risultati, assumendosi la responsabilità del proprio operato nei confronti di genitori e rappresentanti della comunità da cui sono stati eletti. Non solo, ma sono pure responsabili della qualità e della competenza del dirigente scolastico e degli insegnanti. Ed è in vigore una legge secondo la quale ai genitori degli alunni è data facoltà di richiedere l’ispezione della scuola frequentata dai propri figli.
Ma il dirigente, c’è chi lo valuta?
Gea: Ma ti pare, è una cosa proprio necessaria?
Geo: Doverosa, quanto necessaria.
Gea: Sembra quasi che fino a ora tutto sia andato male, ma non è così.
Geo: Non è questione. È che spesso si va avanti per forza di inerzia, ci si confonde nella mischia, si fa finta.
Gea: Finta?
Geo: Sì, che tutto proceda nella norma, ma è ora di smetterla di credere nelle fiabe.
Gea: Ma tu ce l’hai con i dirigenti scolastici? Che t’hanno fatto?
Geo: Oh, nulla, se è per questo. Anzi, tanto di cappello, ma io sono per la chiarezza e chiarezza vuol dire dovere di rendicontazione, trasparenza, serietà di propositi, di progetti e di attuazione, ma anche rispetto e considerazione.
Ovvero: valutare la Scuola in regime di Autonomia. Non si è mai capito in quale modo gli Organi che dovrebbero rendere conto del funzionamento dell’istruzione alla Nazione su tutto il territorio avessero pensato di riuscire a valutare, con un discreto margine di rispondenza al vero, l’operato dei dirigenti scolastici. Alcuni anni or sono si era deciso per un percorso del tutto strano, da “mille e una notte”: poiché per svariati motivi si riteneva impossibile valutare il lavoro del dirigente scolastico osservandolo mentre agisce e mentre si atteggia ad affrontare e a risolvere i problemi che inevitabilmente si frappongono al suo procedere, si credette cosa utile – o proprio non si trovò nulla di meglio – predisporre un sistema di autovalutazione, tipo contenitore dentro il quale ciascun dirigente scolastico avrebbe dovuto pigiare il bene e il male sperimentati durante il servizio. Si trattava di riempire una serie di stampati predisposti che avrebbero consentito l’effettuazione di una autoanalisi dei processi promossi dal capo di istituto. Ma, tratte le conclusioni, l’iniziativa si rivelò una vera “bufala”, un altro di quei tediosi perditempo che si lasciano insufflare come aria nei palloni. Si trattò che coloro i quali si erano proposti di eseguire bene il compitino, perché questo era ciò che veniva richiesto, di consegnare un bel tema scritto infarcito con tanti orpelli e guarnizioni che sarebbero piaciuti a chi ne avesse letto il testo, furono valutati bravi dirigenti e fu loro attribuita una votazione invidiabile. Si sa, peraltro, di alcuni loro colleghi che badarono all’essenziale e, dotati di senso pratico ma anche di una chiara visione d’insieme della questione educativa e di lungimiranza nel prevedere costi, benefici, priorità, conseguenze, capaci di circoscrivere e sviluppare le circostanze della quotidianità nei loro significati genuini di sviluppo – ed è quello che dovrebbe essere richiesto al responsabile di un istituto scolastico – alla fine della corsa, rei di non aver scritto le cose che i valutatori si sarebbero attesi che fossero state scritte, se ne andarono mogi mogi con una valutazione così bassa da provare persino vergogna a parlarne con i colleghi. Per fortuna qualcuno si accorse della dissonanza, ci pensò alquanto e decise di buttare a mare tutta l’iniziativa e più non se ne parlò.
Trascorso che fu alcun tempo si credette bene di dare forma a un nuovo modello di valutazione dei dirigenti scolastici, e arriviamo ormai agli anni 2003, 2004, 2005. In quell’occasione presero vita e si diedero a sviluppare programmi già concepiti alcune strutture centralizzate come l’I.N.D.I.R.E (Istituto Nazionale di Documentazione per l’Innovazione e la Ricerca Educativa), l’I.N.Val.S.I. (Istituto Nazionale per la Valutazione dei Sistemi di Istruzione), il Si.Va.Di.S. (Sistema di Valutazione dei Dirigenti Scolastici) che, con il supporto delle reti informatiche, portarono in campo tutto un vasto progetto di formazione rivolto al personale della Scuola e di valutazione del lavoro svolto dai dirigenti scolastici. Il Si.Va.Di.S. fu adottato in prima applicazione e in via sperimentale per l’anno scolastico 2003/2004 e sarebbe stato seguito da una nuova edizione, come in effetti accadde, nell’anno scolastico successivo. Si chiedeva, ai dirigenti scolastici, di impegnarsi in una serie di strategie di cambiamento per migliorare la qualità della Scuola, quindi la sua funzionalità, in efficienza ed efficacia. Non si facevano però grandi passi in avanti, poiché la prassi corrente prevedeva ancora, per quanto riguardava i dirigenti scolastici, il riempimento di stampati a cui sarebbero seguite una valutazione di prima istanza, operata da un ispettore o dirigente tecnico attraverso un colloquio e l’analisi delle dichiarazioni scritte dal valutando, e una conclusiva valutazione affidata al Direttore regionale che non aveva forse conosciuto mai quel valutando, manco da lontano.
Entrambe le tipologie valutative messe in moto negli ultimi anni, dunque, non si discostavano gran che da un modo verosimilmente artigianale di prendere in mano la questione perché continuavano a regolarsi su dichiarazioni scritte che venivano accettate in modo del tutto fideistico senza un riscontro pratico che fosse minimamente avallato da una qualche modalità di monitoraggio in presenza; non solo, ma occupavano un arco di tempo assai esteso, tale da dare tutto l’agio possibile alla mobilità del personale interessato o al ritiro dalla scena per i collocati a riposo e si rivolgevano esclusivamente ai dirigenti che avevano offerto del tutto volontariamente la propria adesione all’iniziativa la quale, per l’insieme delle ragioni esposte, non andava oltre quella che potrebbe essere definita una “ennesima valutazione sperimentale”. Parve tuttavia di intravedere che qualcosa, forse, si stesse finalmente muovendo su questo terreno da quando, almeno, il Comitato ristretto della 7a Commissione della Camera dei Deputati andava elaborando, in data 23 febbraio 2005, un testo contenente le norme che avrebbero dovuto reggere il governo delle istituzioni scolastiche. Andando nello specifico attinente agli Organi che sarebbero stati preposti a effettuare l’autovalutazione dell’attività degli istituti, si può leggere, all’articolo 9 del Testo menzionato, che ogni Scuola “dovrà dotarsi di un Organo interno di autovalutazione, formato da un genitore e da un docente non già impegnati nel consiglio della scuola, da un membro esterno ma esperto di processi valutativi e dal dirigente scolastico con la funzione di presidente”. Stiamo ancora aspettando… Con le mutazioni genetiche a ricorrenza periodica in cui gli indirizzi di governo incorrono di questi tempi, poi, non resta, parrebbe, che rassegnarsi a subire ulteriori lunghe attese e sopravvivere in compagnia delle pallide speranze ancora in vita.
E ora una riflessione sui vincoli, quelli, o per lo meno alcuni di quelli che sono di ostacolo alla possibilità di dare attuazione a una valutazione del dirigente scolastico che sia finalmente qualcosa di serio e attendibile. Se sfogliate uno degli ultimi lavori di Gardner (Howard Gardner, Cambiare idee, Milano, Feltrinelli, 2005) vi capiterà di leggere la parte che descrive i comportamenti posti in atto da un preside per indurre un cambiamento sostanziale all’interno di una Università che, al momento del suo insediamento, versava in condizioni piuttosto disastrose sul versante della formazione culturale. Quel preside riuscì ad apportare una serie di cambiamenti veramente efficaci, tanto da collocare l’istituzione sotto una luce nuova che diceva di prestigio e di successo nella preparazione degli studenti. Va bene, mi si dirà, sappiamo come gli Americani siano bravi a inventarsi cose nuove per sviluppare progresso, ma lo fanno esclusivamente in vista di investimenti pratici, cioè tu sei bravo se le tue capacità le sai trasformare in dollari, altrimenti tanti saluti e via. A parte questo, obietterei, desidero soltanto andare a vedere che cosa ha fatto di tanto innovativo questo preside per meritare una valutazione che ebbe, all’occasione, tutti i crismi del massimo degli elogi. Ecco quale fu la sua politica d’azione. Si prefisse intanto, come punti di approdo, il miglioramento della qualità intellettuale degli studenti, ma anche dei loro insegnanti e del come erano presentate le lezioni. Poi pensò di creare un ambiente carico di attrazione – non tanto di attrattive – nei confronti di quella parte di studenti che si distinguevano per spiccate qualità intellettuali. Mise in piedi, inoltre, un sistema di gratificazione che prevedeva incentivi per i docenti più meritevoli, fece ricorso alla loro competenza nell’allargare la cerchia degli insegnanti che avessero dimostrato di possedere un notevole livello intellettuale, diede forte impulso alla ricerca culturale all’interno dell’istituto. Era solito portare sulla scena dialogica tutto ciò che aveva attinenza con la forza delle idee, con la rivitalizzazione di idee eccellenti, con il patrimonio immenso disponibile nella sfera intellettuale e spirituale, con la presenza e l’opera di figure che in tali ambiti si erano distinte per eccellenza di pensiero e per coerenza di comportamento. Riuscì a coinvolgere nella vita attiva dell’Università gli studenti più bravi e ad assegnare loro compiti di responsabilità. La sua fu una vera caccia agli studenti che coltivavano attese ragguardevoli, ma, nell’insieme, il preside abbracciò alcune scelte che avrebbero instaurato forse un certo clima di discriminazione, rendendo più selettive le prove di ingresso per le matricole. Era un trattamento riservato non solo agli studenti, ma riguardava anche i docenti, da quanto ho prima riferito, dal momento che il reclutamento degli insegnanti era condizionato al superamento di standard severi. Per far bene tutte queste cose non disdegnava dal rivolgersi a chi già stava ottenendo risultati di prestigio all’interno del proprio istituto per trarne ammaestramenti adeguati al conseguimento dei propri obiettivi. Ma dovette anche lottare per abbattere certe resistenze pervicaci che provenivano dal radicamento di concezioni errate, obsolete.
Questa, in breve, la storia di un preside d’oltre Oceano. Ma, mi pare di sentirmi ancora dire: Che razza di paragone è mai questo? Non regge, non regge proprio perché un istituto universitario gode di un’autonomia al confronto della quale le nostre Scuole, metti anche le Superiori, non si sognano neppure. A iniziare dal reclutamento! Poi c’è da considerare che all’Università entra e si iscrive chi vuole. Da noi, fino a quindici anni, la Scuola è obbligatoria. Puoi parlare di selezione di insegnanti o, ancor più, di studenti? E, ammesso che la cosa possa un giorno diventare fattibile anche da noi, vorremo davvero andare verso l’edificazione di un certo numero di scuole di élite? Dopo tutto il lavoro che s’è fatto in ambito sociale, punta di diamante le pari opportunità, non pare proprio il caso. E comunque la realtà americana e la nostra, mediterranea, non distano soltanto l’estensione di un oceano, ma più realisticamente divergono assai sul piano del riconoscimento dei valori umani, dove possono considerarsi due galassie con vita propria.
Tant’è, ma intanto i nostri dirigenti scolastici continuano a percorrere una strada puntellata da vincoli, essi stessi portano le catene ai piedi, catene invisibili poiché la morale del vivere quotidiano impone di procedere sciolti e sicuri, nonostante le barriere che s’incontrano a ogni passo, nonostante i ponti fatti di autorevoli parole di carta che inducono a passare oltre con incrollabile sicumera. Non udite? C’è qualcosa che incomincia a scricchiolare…
Vi aspetto alla prossima puntata che avrà per titolo “I paradossi”.
Sono una docente. Articolo interessantissimo 😏
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