Gea: Qualche volta t’ho anche sentito dire male delle scuole inglesi. Ora ne fai l’apologia?
Geo: Oh, questa, poi! Quando mai?!
Gea: Hai detto che sono bigotti e codini nello stabilire disciplina in classe, scansioni orarie e infraorarie che per noi sarebbero assolutamente improponibili. Tutto fonte di stress, ma poi, fuori della scuola, gli studenti si sfogano e bravo chi riesce a fermarli!
Geo: Qualcosa del genere, sì, ma non proprio in questi termini.
Gea: Però, un po’ di contraddizione ce l’hai messa, no? Come la spieghi?
Geo: Vedi, nessuno è detentore di perfezione, ma se tu hai dei vizi…
Gea: Vizi, io? Ma come ti permetti?
Geo: Lasciami finire… e tante virtù, che cosa vorrei prendere da te?
Gea: Troppo semplice, le virtù, perché di vizi non ne troveresti!
La Scuola italiana ha imboccato il sentiero dei cambiamenti; qualcosa ha subìto una modificazione, ma non la natura della Scuola e non la sua organizzazione.
Se vogliamo dare credito alla necessità che il cambiamento per una Scuola seria, efficiente, efficace e garante di buoni risultati debba venire dalla base, allora bisogna lavorare sul modo in cui la Scuola è organizzata, producendo innanzitutto un repentino snellimento del peso burocratico che agisce da freno e badando a dare particolare impulso ai fattori più promettenti per l’educazione e la formazione culturale dei giovani.
Ma come si gestiscono all’estero? Iniziamo questa breve carrellata di osservazioni andando a vedere di qual pasta è fatto il sistema scolastico inglese.
Nelle scuole inglesi è una sorta di Consiglio di amministrazione – il Governing Body o Board of Governors – quello che per noi sarebbe verosimilmente il Consiglio di Istituto, ma con alcune differenze di composizione e con molte differenze di competenza, a detenere la responsabilità dell’Istituto sotto il profilo della gestione, a partire dall’aspetto economico, ma non solo. Questo organo di gestione è composto da dodici membri – genitori, personale della scuola, amministrativi, rappresentanti di enti locali, dirigente scolastico – tutti elettivi. Al suo interno si prendono decisioni su quale dovrà essere la dimensione dell’organico della scuola e si esercita la facoltà di assumere e, all’occasione, di licenziare sia gli insegnanti sia il dirigente scolastico. Non solo, ma il Governing Body è investito della gestione del budget assegnato alla scuola, ha voce in capitolo nel determinare il curricolo, le strategie di conduzione della scuola, l’assetto organizzativo, nella formulazione di obiettivi educativi e di quelli che sono inerenti all’attività dirigenziale; ancora, si interessa delle modalità di comunicazione fra scuola e famiglia e della crescita dei risultati globali dell’istituto. I suoi membri, pertanto, sono chiamati a monitorare i risultati della scuola, a operare valutazioni, a esprimere il contenuto delle percezioni ricavate da visite effettuate in orario di lezione con assistenza personale all’attività didattica. Possono, inoltre, porre quesiti al personale allo scopo di formarsi idee chiare, possono esternare le proprie opinioni in merito alla qualità degli standard educativi che la scuola si propone di perseguire. Tutto questo perché uno dei primi requisiti loro richiesto è la capacità di valutare, di prevedere e di decidere come gestire il cambiamento. Nell’affrontare questa delicata serie di incombenze non improvvisano né sono lasciati al loro esclusivo intuito personale, ma sono sottoposti a un ciclo di addestramento specifico: da fonti attendibili si viene informati che, già nell’anno 2001, la bella percentuale del 95% dei governors operanti nelle scuole aveva seguito un percorso di formazione. Ma non trascuriamo il fatto che cicli di formazione sono predisposti per tutto il personale della scuola: così vengono realizzate iniziative volte a incidere sulle competenze specifiche, sulla visione globale dell’istituzione, sul lavoro di gruppo, sulla motivazione a fare, sugli aspetti culturali e sulla capacità di condurre o di favorire un processo di miglioramento.
Chiaramente questo sistema di monitoraggio comporta l’aver molto ben presenti gli obiettivi da raggiungere, obiettivi che sono formulati annualmente, rispetto ai quali viene estesa una capillare verifica circa la rispondenza dei risultati conseguiti al termine dell’attività didattica. Qui si tratta di una verifica che ha molta influenza nel determinare se e come la scuola porterà ulteriormente avanti il proprio programma d’azione, in quanto dalle risposte della stessa saranno determinati i criteri di sviluppo professionale per il personale docente, l’impostazione di quelli che saranno i programmi didattici a venire e persino l’ammontare dello stipendio ai dipendenti.
È ovvio che i membri del Governig Body – cioè i governors – devono, a motivo della responsabilità di cui si fanno carico, rendicontare il proprio operato agli elettori che li hanno prescelti. I loro margini di responsabilità sono assai dilatati, dal momento che essi devono rispondere, oltre che del modo in cui sono stati impiegati i finanziamenti concessi alla scuola dall’Amministrazione centrale, addirittura della qualità manageriale del dirigente scolastico, della sua competenza nello svolgimento delle proprie funzioni e del modo in cui i docenti assolvono ai propri impegni educativi e didattici. Ai governors, poi, è attribuito un compito particolarmente delicato, quello della nomina del dirigente scolastico. Diciamo, per dovere di precisione, che gli effetti del lavoro svolto dai Governing Bodies non cadono direttamente sul miglioramento degli standard educativi, ma creano piuttosto le condizioni ottimali perché si diffonda un buon clima di lavoro all’interno della scuola.
L’insieme e l’interazione dei fattori sopra considerati fa parte di una pianificazione volta a rendere fattibile la valutazione interna. Tutte le scuole, infatti, sono tenute ad attendere alla valutazione interna che si esplica mediante una valutazione rivolta annualmente ai docenti e nel controllo dei risultati conseguiti. Questi vengono resi noti dagli stessi insegnanti i quali sono i diretti responsabili della valutazione della propria classe in quanto a essi, singolarmente, è demandato l’atto della valutazione, anziché al Consiglio di classe come invece avviene da noi.
Ma, al di là di quanto si può verificare all’interno dell’istituto, quest’ultimo non sfugge a un sistema, piuttosto severo, di valutazione esterna. Tutte le scuole sono sottoposte a controllo esterno. C’è un’agenzia, detta OFSTED – Office for Standards in Education ossia “Organo di controllo degli standard educativi” – la quale effettua periodiche ispezioni nelle scuole. Le ispezioni esercitano un controllo capace di pesare molto sulle aspettative sia dei genitori degli alunni sia dei docenti: le scuole che non arrivano a soddisfare i criteri per un buon funzionamento vengono eliminate. Si sa che, nel corso degli ultimi dieci anni, sono state chiuse da 240 a 250 scuole su un totale di 24000, circa l’un per cento dunque.
Razionalizzazione delle scuole o sopravvivenza? Contro una certa tendenza a una crescita smisurata per alcune scuole, a detrimento di altre che rischierebbero la soppressione è stato stabilito un limite numerico massimo di iscrizioni per ogni istituto. In questo modo, pur riconoscendo alle famiglie la libera volontà di iscrivere i propri figli alla scuola da essi prescelta e, all’occorrenza, di ritirarveli, una volta raggiunto il tetto massimo la scuola non può più accettare iscrizioni e gli alunni devono rivolgersi ad altre istituzioni presenti sul territorio.
Bene, così stanno le cose in casa dei nostri colleghi d’oltre Manica. Che viene a significare? Che, fatti i debiti confronti, ci corra l’obbligo di chinare il capo e di batterci il petto per il velo che abbiamo osato strappare alla struttura sempre in ritardo del nostro sistema scolastico?
Con molta umiltà, ma non senza un pizzico d’orgoglio, dobbiamo comunque ammettere che alcune cose abbiamo veramente da impararle, ma nell’insieme siamo anche in grado di esportare idee e proposte la cui paternità è prerogativa esclusiva dell’italo ingegno. Vediamo intanto che cosa potremmo ricavare dall’esperienza altrui per migliorare il nostro modo di lavorare in scuola, per conseguire risultati significativamente più gratificanti e promettenti, evitando contemporaneamente di cadere in facili equivoci o trabocchetti che sappiamo essere di facile ostacolo al nostro cammino.
Non voglio e non devo stancarmi di tornare sul motivo ricorrente dell’analisi che vado sviluppando, quello del tradurre le constatazioni in riflessioni, le riflessioni in alcune convinzioni di fondo, le convinzioni in intenzioni e queste ultime, attraverso il vaglio del confronto e della contrattazione in chiave culturale, in cose da fare, in azioni pianificate e sottoposte a rigorosa verifica. Abbiamo veramente i punti per dare concretezza a questa catena evolutiva, abbiamo intelligenza, capacità creative, immaginazione, una certa disponibilità di impegno nello specifico, flessibilità di approccio ai problemi e una forte riserva di intuizioni rivelatrici nella ricerca delle soluzioni più efficaci quando ci accingiamo a superare ostacoli anche imponenti. È fiducia, certo, perché so che queste cose esistono, sono solo assopite, in qualche modo; attendono la scossa, l’impulso, il richiamo che sappiano metterle in moto, la trivella che sappia riportarle in superficie.
Io credo che, continuando del passo che abbiamo sin qui adottato, stiamo sprecando molte possibilità, non riconosciamo le potenzialità che giacciono sepolte sotto le nostre corse folli, sotto le nostre preoccupazioni fuori campo e fuori tempo, le nostre dispute su tanti piccoli particolari di poco significato e inconcludenti.
Certo che da imparare c’è ancora molto, ma, non sembri un’affermazione altezzosa, le esperienze altrui possono esserci di qualche illuminazione, di qualche stimolo, mentre noi stessi siamo in grado di attingere a una riserva inesauribile di energie mentali e di idee fra le nostre mura domestiche, pur che siamo disposti a guardare a fondo dentro di noi. E questo comporta il mettersi a tavolino e studiare piani, percorsi, tempi, attività e strategie da trasporre sul piano della fattibilità.
C’è un rischio che, per endemica natura, sta accollato alle nostre ombre, ci segue e si apposta in agguato, nell’attesa del momento opportuno per imprimere un corso indesiderato, una deviazione senza ritorno alle nostre intenzioni. È il rischio della disputa a senso unico che si arma di parole affilate per far trionfare a tutti i costi uno o un altro punto di vista in particolare. È il rischio, molto nostrano, di riempirci di parole, di riversare in un mare di parole ogni nostra energia, di caricare le parole di un peso abnorme sino al punto di trarre la facile conclusione che, visti e considerati ogni aspetto della discussione e ogni posizione strenuamente difesa, non si riesca ad arrivare a un’intesa, a una condivisione. Ognuno ritorna sui propri passi e si accorge che, nulla essendo mutato, nessun nuovo problema si presenterà a complicare la vita e si può benissimo continuare a fare come s’è sempre fatto. È la paura del cambiamento che conferisce vigore a tale rischio, la paura di cambiare senza sapere cosa si vuole ottenere di preciso e senza poter vedere in modo chiaro quali saranno gli effetti attesi, perché cambiare vuol dire anche affidarsi agli imprevisti dello sperimentare, gettarsi in un’impresa in certo qual senso avventurosa. Siamo tutti molto bravi ad ascoltare, a dibattere, a proporre e progettare, a tradurre in prassi di insegnamento i contenuti dei programmi scolastici, ma, per carità, non chiedeteci di allontanarci da ciò che abbiamo sempre fatto e dal come l’abbiamo sempre fatto, pena lo sprofondare nell’insicurezza e nel timore di sbagliare.
Non si può negare del tutto la legittimità di un atteggiamento siffatto, ed è proprio a motivo di ciò che coloro ai quali è richiesto di dare attuazione a programmi e programmazioni, gli insegnanti, necessitano assolutamente di un solido appoggio da parte dell’Amministrazione scolastica, hanno bisogno di essere confortati dalla presenza di garanzie di assistenza, di poter fruire di sponde di appoggio e di approdo nel loro procedere, mentre richiedono la massima considerazione del proprio operato, consapevoli delle pesanti responsabilità che investono il loro agire quotidiano con persone che attendono di essere “formate” nel volgersi di una sensibilissima e delicatissima fase del loro progresso evolutivo.
“Bambini/problema” o “I problemi dei bambini”?
Gea: Dal tuo modo di dire mi sembra che sia tutto uno sfacelo. Non puoi essere un po’ più ottimista?
Geo: In modo bilanciato, non come quello dell’aneddoto.
Gea: Spiegati.
Geo: Parlavano dei lati oscuri della situazione politica, arrivando a queste conclusioni. Il pessimista: “Peggio di così non si può andare!”. L’ottimista: “Oh, sì, si può, si può”.
Gea: Sei proprio incorreggibile!
Geo: Credo che a tutti corra l’obbligo di spalancare gli occhi per vedere chiaro e aprire la bocca per parlare chiaro.
Gea: Questo lo comprendo e lo condivido. Stai cercando di sviscerare il problema e ti accorgi che non riesci a toccarne il fondo. Ti manca una cosa…
Geo: Che cosa?
Gea: La bacchetta magica.
All’interno dell’ambiente scolastico, come pare doversi constatare, si va parlando con sempre maggiore insistenza di un declino dell’impegno osservato da lungo tempo ormai in una fascia sempre crescente di popolazione scolastica. Mi riferisco, più concretamente, al fattore “energia individuale – voglia di riuscire” che ogni singolo studente metterebbe a disposizione nella ricerca di progresso lungo il percorso che la scuola prevede e organizza sulla scorta dei Programmi didattici in vista di una completa e armoniosa formazione personale e culturale. La normativa ci offre l’orientamento per stabilire un complesso di atteggiamenti nel quale convergano la volontà, la determinazione, la chiarezza d’intenti, la fiducia nel sistema educativo in genere, la ricerca di significato, l’ambizione personale per la formazione di una mentalità critica e aperta, ma anche il superamento dei traguardi raggiunti per puntare a mete di realizzazione culturale più gratificanti: parlo di un insieme di modi d’essere che, per nostra malasorte, costituiscono la grande assenza negli interessi immediati coltivati dalle nuove generazioni, ma anche una minaccia effettiva in pericolosa ascesa per l’affermazione di una cultura solida e duratura.
Questo è un grosso problema, tanto più quanto più decidiamo di andare a fondo in ciò che le disposizioni normative vigenti dedicate all’istruzione vanno raccomandando. Un rapido sguardo nel settore pare necessario a questo punto, anche perché ci consentirà di definire il ruolo della Scuola a partire già dalle precocissime fasi della prima infanzia: una Scuola che si pone, per bambini che iniziano la propria esperienza in ambito istituzionale ad appena tre anni di età, ma anche prima, come un ambiente dove si coltiva la riflessione, dove le condizioni interattive sono tali da permettere al bambino di dimostrare e di apprezzare coerenza sia a livello pratico sia a livello cognitivo, dove si dà particolare risalto a facoltà personali quali l’intuizione, l’immaginazione, la creatività, il gusto estetico e la capacità di conferire senso alle esperienze e alla realtà nelle sue molteplici forme e manifestazioni. Più avanti, all’età di sei anni, il bambino fa il proprio ingresso nella Scuola dell’obbligo e qui incontrerà le occasioni migliori per sviluppare la comprensione del mondo umano, naturale e artificiale secondo modalità intersoggettive. Contemporaneamente andrà maturando le capacità di autonomia, di azione diretta, di intessere relazioni umane, di progettazione e verifica, di esplorazione, di riflessione logico-critica e di studio individuale. Su questi fronti viene richiesta la mobilitazione delle categorie critiche, semantiche e sintattiche inscritte nelle discipline di studio e negli ordinamenti formali del sapere in vigore nella comunità scientifica di appartenenza. Tutto questo con lo scopo piuttosto immediato di arricchire, sul piano analitico e sintetico, la “visione del mondo e della vita” (come se fosse una cosa facile, dopo che i più insigni filosofi ci si vanno cimentando da sempre!). Sicché un bambino che abbia raggiunto l’età di undici anni dovrà aver acquisito – e scusatemi se vi pare poco – l’esercizio dell’autonomia personale, della responsabilità intellettuale, morale e sociale, della creatività e del gusto estetico, condizioni essenziali perché possa approdare all’autoregolazione degli apprendimenti, a un solido senso di autoefficacia, alla gestione dell’autorinforzo cognitivo e di personalità, esercitando attività e affrontando problemi che siano sempre rivestiti di senso perché possano creare motivazione.
Non stiamo ponendo forse dinanzi ai nostri occhi un miraggio popolato da mete da capogiro, se ben guardiamo alla realtà che siamo soliti conoscere? Ma andiamo oltre. Al momento di frequentare la Scuola secondaria si presenta, sul filo evolutivo, un imponente salto di qualità; si va verso quel traguardo intermedio che il buon Jean Piaget ascriveva all’apparizione di una capacità intellettiva formale-proposizionale proiettata verso moduli di pensiero ipotetico-deduttivo. Ora si fa impellente l’esigenza cognitiva di muovere dalle rappresentazioni della realtà per farsene, ciascuno degli studenti, una visione complessiva unitaria, comprensibile e fruibile. E una tal sorta di visione dovrebbe discendere da un sistema formato da rappresentazioni e prospettive parziali confluenti, a loro volta, in un insieme unitario e integrato di significati personali. Un progetto normativo molto ambizioso, non c’è che dire, a maggior ragione se viene avallata la convinzione, come recita il dettato normativo, che i ragazzi sono disposti ad apprendere e vogliono apprendere. Ecco allora che le nostre attese sono per ragazzi che sappiano adottare un atteggiamento critico rivolto, attraverso il confronto, alla ricerca sempre più ravvicinata della verità. Il problema qui si potrebbe spostare dalle difficoltà che gli studenti incontrerebbero nel rendere reale un siffatto progetto di cultura e di vita alla effettiva disponibilità di persone adulte dotate di coerenza, di significatività, disposte all’ascolto, all’aiuto, al consiglio, alla comprensione, alla co-gestione dei problemi.
Concludo questa carrellata con un riferimento sintetico al “Profilo educativo, culturale e professionale” in vigore a suo tempo, ovvero a una fotografia verosimile di come sarebbe dovuto essere un ragazzo al termine del ciclo di istruzione che lo ha accompagnato dai suoi sei ai suoi quattordici anni di età, come dire ciò che un ragazzo quattordicenne dovrebbe sapere e saper fare per diventare ed essere l’uomo e il cittadino membro della società cui appartiene. L’itinerario educativo si compie, a quell’età, quando le conoscenze e le capacità operative acquisite sono state tradotte in competenze, vale a dire quando il ragazzo sa utilizzare ciò che conosce e ciò che sa fare per esprimersi, per interagire, per porre, affrontare e risolvere problemi, per riflettere su se stesso e gestire il proprio progetto di crescita, per comprendere la complessità dei sistemi simbolici e culturali, per maturare il senso del bello, per conferire senso alla vita. L’apice di questo percorso si definisce, per ciascun ragazzo, nella costruzione del proprio “progetto di vita”, un progetto che garantisca il ricorso agli strumenti adeguati ad affrontare i problemi del vivere quotidiano e della partecipazione responsabile alla vita associata. Si rispecchia, nella descrizione fatta, la fisionomia media degli studenti che transitano alle Scuole superiori? Rivolta ai loro insegnanti, dubito che tale domanda sarebbe seguita da risposte assai confortanti.
Più che mai, dunque, sembra farsi urgente volgere gli sforzi verso la creazione di itinerari interattivi capaci di favorire una presa di coscienza di validi motivi sia culturali sia socio-esistenziali sia etico-morali per approdare a una consapevolezza, all’indirizzo di tutti e di ciascun alunno, del proprio essere e del proprio ruolo in una prospettiva di incremento per quanto possibile ottimistica verso la realizzazione e la stabilizzazione di una realtà aperta alla convivenza, alla collaborazione, al rispetto reciproco.
Ciò che dovremmo far comprendere ai nostri giovani, sin da quando iniziano a frequentare la Scuola dell’obbligo, è che l’esistenza dell’uomo ha uno scopo, una serie di scopi; che non sempre riusciamo a intravedere i punti di approdo ma che siamo coscienti del fatto che abbiamo dinanzi a noi una via da percorrere, e questa via è spesso in salita. E non è impresa di poco conto. Il sistema sociale così come è strutturato non fa certo del bene ai nostri ragazzi: li blandisce, li illude, li assolve con grande magnanimità se sbagliano, li inganna sul significato che si richiama a un progetto tangibile di realizzazione personale e, quando ha spuntato tutte le proprie armi, nel momento in cui i giovani riescono finalmente ad aprire gli occhi, a “vedere” oltre che a guardare, li abbandona e li lascia soli con le loro ansie, le loro insicurezze, le loro paure, con l’amarezza di un sogno infranto. Maestri e professori, sappiamo, non perdono occasione per sollecitare negli studenti la formazione di uno spirito critico attraverso la riflessione e l’analisi ponderata degli aspetti del reale. Ma poi c’è il mondo esterno alla scuola; un mondo che impone le proprie ragioni di benessere a buon mercato, di facile consumo, di ricerca della felicità nel superfluo e nell’insignificante; un mondo che si pone in antitesi alla sana cultura e s’adopra per creare un fondo di sottocultura invero scadente, avvilente, disumanizzante. Un bel problema davvero, non solo per i giovani, ma anche per gli insegnanti i quali, per contrastare la triste tendenza a seguire inviti e richiami ingannevoli, via via più devastanti, dovrebbero mettersi contro il mondo intero.
Non solo scuola
Gea: Stai picchiando forte sui genitori e sulla funzione genitoriale. Non credi di esagerare? O di gonfiare troppo le cose? Qualcuno potrebbe chiamarlo allarmismo esasperato o catastrofismo o disfattismo, che so io.
Geo: Sai, i comportamenti sbagliati sono sempre ad effetto virus; iniziano da piccole colture, poi si riproducono in misura esponenziale e gli effetti sono devastanti.
Gea: Ma un po’ di fiducia nella gente, t’è rimasta, mi domando?
Geo: È per fiducia se così mi esprimo. Altrimenti non spenderei una parola, se non ne valesse la pena.
Già, il mondo è cambiato, si sente dire. Ce ne accorgiamo tutti, anche quelli di una certa età che vedono “uscire” di casa il sabato sera i giovani alle ventitré, quando, ai loro tempi, quella era l’ora in cui si andava a letto o già si stava dormendo.
Ma possibile che il mondo sia diventato così incomprensibile? Non saranno più che altro fantasie, esagerazioni, bubbole?… Poi ti capita di accendere la radio alle 7.30: Giornale Radio Due del dieci marzo 2006 e ti metti in ascolto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha presentato un rapporto che ci cade addosso come un macigno dall’alto: ragazzi che fanno uso di alcool e tabacco, a iniziare addirittura dall’età di undici anni, e i ragazzi italiani superano in tali prodezze i loro coetanei del resto d’Europa. Verso gli undici anni la cosa si verifica circa una volta alla settimana; a quindici anni il 37% degli adolescenti dichiara di familiarizzare con il consumo di queste sostanze, mentre il 16% si dedica con frequenza quasi abituale al fumo di prodotti stupefacenti e persino all’uso di cocaina. A tutto ciò, pone ancora in guardia l’O.M.S. sottolineando la grave preoccupazione per il fenomeno ormai in crescita, si aggiungono un marcato peggioramento del rapporto con l’istituzione-scuola e il moltiplicarsi di episodi di bullismo. Unica isola felice sarebbe quel 9% che avrebbe ancora il coraggio di affermare che la scuola “piace”. Ora, che sono trascorsi ben quindici anni, mentre rivedo queste mie considerazioni all’alba del 2021, crediamo proprio che le cose siano cambiate? Che siano migliorate? Qualcuno potrebbe ancora illudersi, se non ci si accorge che si ha un po’ tutti qualcos’altro a cui pensare: c’è la politica, la crisi della politica interna, c’è la pandemia, ci sono le ristrettezze e un malessere generale crescente, ma i pericoli accennati restano e imperversano peggio di un virus.
E tutto il restante dei ragazzi? Troviamo ancora un modo per realizzare una loro conversione? Padri, madri, avvertiamo il peso di una realtà che ci stiamo lasciando sfuggire di mano, il peso delle conseguenze che si abbatteranno sul futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti allorché noi stessi avremo consumato il nostro tragitto e avremo abbandonato la scena senza possibilità di ritorno?
Stiamo facendo di tutto per lasciare in eredità, ai nostri figli, un mondo fisico e una condizione socio-esistenziale insostenibili. Poi ci meravigliamo se sono proprio i nostri figli a ribellarsi. Non abbiamo ancora capito che essi non ne possono più di essere presi in giro? Sotto l’apparenza di un tacito assenso nei confronti del nostro dare-tutto-e-subito va covando un malessere dilagante, come fuoco sotto la cenere. Non sono stupidi i nostri figli, stanno sempre più rendendosi conto che gran parte dei nostri atteggiamenti sono arte di inganno e di autoinganno. Presto capiranno del tutto, allorché sarà per noi giunto il momento di dire loro “Questo è il timone, prendilo e guida, ora tocca a te”.
Nulla suggeriscono alle nostre coscienze di educatori i segnali preoccupanti che da alcune parti si stanno sollevando verso l’ordine che crediamo di aver impresso al mondo della nostra generazione? Saremo mai capaci di decodificare le informazioni contenute in tutta una dolorosa serie di sintomi socio-patogenetici e a individuarne l’eziologia nella nostra figura di persone che dovrebbero reggere la responsabilità del farsi educatori e del donare alle nuove leve il meglio di se stesse?
Globalizzazione o non globalizzazione, disoccupazione o impiego, acquiescenza o intolleranza, quali significati possiamo attribuire alle rivolte che scoppiano qua e là, a iniziare da Parigi, da Milano? Mi rifaccio ancora ai fatti di qualche anno addietro. Giornale Radio Due del 18 marzo 2006, ore 7,30: migliaia, decine di migliaia di ragazzi spagnoli hanno trovato, nel modo che è loro apparso più confacente, una soluzione provvisoria ai problemi che sono costretti a trascinarsi dietro. Si badi bene, non sono problemi di fame, di abitazione, di salute. Sono condizioni più strettamente legate alla delusione, alla noia, alla solitudine, alla sensazione di vuoto interiore, al senso percepito di precarietà e di insicurezza proveniente dall’esterno, alla pesante difficoltà o all’impossibilità di scoprire significati di valore da attribuire alla propria vita di ogni giorno. Una soluzione provvisoria, ho accennato, ma anche poco efficace, quella di trovarsi in piazza, per le strade, in grande moltitudine e darsi a una solenne sbornia collettiva. Lo chiamano “el botillón” – ovvero il bottiglione – e ci mettono dentro micidiali miscugli di birra, vino, rhum e chissà quali altre porcherie. L’allegro sodalizio, che stava prendendo rapidamente piede affidandosi soprattutto al “tam-tam” di Internet, andava preoccupando non poco le autorità responsabili della pubblica sicurezza, il tutto favorito da una deleteria corsa allo spreco, incalzante e ormai familiare, mentre altrove le cose volgevano per un aspetto diametralmente opposto, quand’anche sul medesimo versante negativo.
Lo spreco e l’indigenza; la rilassatezza e la disperazione. Come se non si sapesse che, sotto un più vasto punto di vista sociale, alcune famiglie – e non sono neppure così poche – per una miseria di reddito vivono in un vero e proprio stato di povertà, con il problema di mantenere i propri figli a scuola, mentre lì vicino si collocano quelle altre che fanno dello sperpero il loro motivo di vita.
Vi aspetto alla prossima puntata che avrà per titolo “Due esempi di microanalisi”.
Immagine di copertina tratta da FeWeek