
Si vollero ricordare, cent’anni or sono, i nostri soldati la cui vita si spense sui campi di battaglia della prima Guerra Mondiale. Fu varata una iniziativa, su proposta del generale Giulio Douhet e sulla scorta di quanto realizzato in Francia, Inghilterra e altrove, mirata a erigere un monumento che ricordasse tutti i Caduti del primo Conflitto. Il monumento sarebbe stato dedicato a un solo Combattente, quale simbolo rappresentativo di tutti i Caduti. Si decise pertanto di scegliere uno fra tanti non identificati perché privi di qualsiasi elemento che potesse aiutare a riconoscerne le generalità, e per questo gli fu attribuito il nome di “Milite Ignoto”. La sua ultima e gloriosa dimora sarebbe stata l’Altare della Patria a Roma.
Una apposita commissione si prestò per la ricerca dei resti di undici Caduti senza nome nei luoghi più martoriati della guerra: il Monte Grappa, il Piave, l’Isonzo, il Monte San Michele, il Montello, il Cadore, le Dolomiti, i Sette Comuni, Rovereto, Gorizia, Castagnevizza sul Carso. I resti prescelti furono ricomposti nella Basilica di Aquileia dove Maria Bergamas, madre di un Caduto disperso, fu incaricata di indicare una fra le undici bare, quella che sarebbe stata destinata alla tomba del Milite Ignoto a Roma.

Era il 28 ottobre 1921 e Maria Bergamas, con il cuore gonfio di dolore, passò dinanzi alle bare allineate e si accasciò in ginocchio, affranta e invocando a gran voce il nome del figlio, di fronte alla penultima bara che, traslata di poi su un treno appositamente allestito, si avviò da Aquileia verso Roma compiendo numerose tappe per consentire la resa degli onori da parte delle cittadinanze.
Le rimanenti dieci salme furono ricomposte nel Cimitero degli Eroi di Aquileia dove oggi, fra loro, si trova pure la sepoltura di Maria Bergamas.
A Roma, in un primo tempo, la salma del Milite Ignoto venne accolta nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e infine, il 4 novembre 1921, tumulata all’Altare della Patria con l’Iscrizione frontale IGNOTO MILITI, dal latino ossia “Al Milite Ignoto”. Alla memoria del Milite Ignoto e, per esso, di tutti i soldati che sacrificarono la propria vita in guerra, fu conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare affiancata più tardi, il 12 ottobre dello stesso anno, dalla Medaglia d’Onore “Medal of Honor”, assimilabile alla Medaglia d’Oro, assegnata dagli Stati Uniti d’America.
La celebrazione delle Forze Armate e del Milite Ignoto diventarono, negli anni successivi, prerogativa del regime per un intero ventennio e se ne fece abuso nelle enfasi e nelle pomposità che si vollero accollare al senso di Patria.

Se mi arride la fortuna di tornare a sostare fronte alla tomba del Milite Ignoto mi sento obbligato a inginocchiarmi e a tributare la riconoscenza, il rispetto, il rimpianto per quella, per quelle vite distrutte nel fiore della loro gioventù. E rivolgo il mio pensiero al concetto stesso di Patria, un concetto di una evanescenza, ora, ai giorni nostri, inafferrabile. Parlare di Patria ai nostri ragazzi significa quasi gettarsi in un’impresa impossibile. Non si capisce bene quale significato possa conservare oggi, nel retaggio culturale della moltitudine, quel termine, da sempre ritenuto rivestito di sacralità.
Quando, nelle pause fra un combattimento e l’altro, i nostri ufficiali parlavano ai sottoposti esaltando l’aura suprema del “morire per la Patria”, del cadere sul “campo dell’onore”, quei poveretti, la maggior parte contadini e braccianti privi di cultura, li avranno guardati attoniti, forse con un po’ di curiosità per quelle frasi dai profili estranei e qualcuno di loro, in seguito a ripetute esperienze di carneficina garantita, si sarà chiesto: “Ma che faccia ha questa Patria? Io sto qui e mi dicono di ammazzare quelli che stanno di là e che a me non hanno fatto nulla di male, ma perché?”.
La maggior parte dei Combattenti sulle linee di fuoco avrà avuto una propria idea della parola “Patria”, quella cioè che risvegliava gli affetti più intimi, la sposa, l’amata promessa, i figli, i vecchi, i raccolti dei campi che nessuno di loro poteva più curare. E si interrogavano, ancora, sul perché li avessero comandati a buttarsi di là della frontiera abbandonando le persone e le cose care, e con quale diritto lo avessero fatto. Sapevano anche che avrebbero dovuto acconsentire alla chiamata, e obbedire, pena l’essere dichiarati disertori e fucilati all’istante o con processo sommario.
La memorialistica che riporta la corrispondenza tra il fronte e le famiglie dei soldati dice chiaramente, là dove la censura non riuscì a distruggerne le tracce, della disperazione di quei ragazzi che, ormai, avevano capito di essere usati come automi per uccidere, carne da macello, privati della loro identità e umanità. I più acuti fra loro avevano ben inteso che stavano lì, faccia a faccia con la morte, perché la guerra che essi aborrivano era stata voluta da pochi fanatici che si erano bevuto il cervello. Avevano disvelato quella che si presentò come una logica perversa, voluta da una minoranza armata di violenza e brutalità.
Come sempre è, è stato e sarà: uno solo che alza la voce appellandosi a valori sacri ma calpestati, declamando parole fatue e altisonanti, che attizza e infiamma la moltitudine e che, per il carisma di cui si va rivestendo in forza di una dinamica psicosociale affermata, si circonda molto presto di un manipolo di arrivisti, di maniaci di potere, di sadici dell’ultima ora. E scoppia l’inferno: quel manipolo ha buon gioco a esaltare la figura del capofila capace di fare la voce grossa, lo incoraggia, lo illude, lo riveste di onnipotenza sino a farne un dio-fantoccio che sulle folle avrà sicuramente un potere trascinante, perché le folle hanno, hanno sempre avuto, bisogno di un capo-guida per non smarrirsi nei labirinti della Storia.
Il capo così eletto si riempie di orgoglio, percepisce con falsa stima quel senso di onnipotenza che gli è stato proditoriamente cucito addosso, e per questo sente la propria posizione inattaccabile, quindi lascia fare, acconsente che i propri sudditi-protettori si elevino essi stessi a posizioni di potere, seppure inferiori alla sua, e agiscano con prepotenza e nell’illegalità perché, in fin dei conti, egli percepisce di occupare il posto che occupa grazie al supporto e alla connivenza dei suoi collaboratori intimi.
La situazione finisce per costituirsi come qualcosa di mostruoso che si autoalimenta, senza timore, perché le folle sono ormai soggiogate. I sudditi vicini al loro capo fanno di questo un superuomo deificato, investito di poteri massimi e inattaccabili e il leader concede ai propri primi collaboratori di assurgere, con l’avallo che egli stesso darà, alle cariche più ambite nella scalata a una carriera di prestigio. Per una forza quasi magica che agisce come all’interno di un circolo vizioso si viene creando una sorta di dittatura allargata, alla quale nulla riesce più a sfuggire. Neppure la folla nel suo insieme perché essa, dapprima blandita con promesse e favori, incantata con favolose mistificazioni della realtà, addomesticata attraverso particolari aberrazioni negli spazi dedicati alla cultura e all’educazione, finisce per diventare completamente succube di una volontà che, piano piano o con insolita determinazione, si discosta dagli interessi vitali della Nazione. Non solo ma, poiché a questo punto il passo è breve, l’élite al comando arriva a disporre di un’autorità tale da costringere la folla, non per tentare di convincerla, a seguire, anche se con animo avverso, gli ordini impartiti dall’alto.

È così che i soldati venivano scaraventati nelle trincee, costretti a spersonalizzarsi, addirittura a non pensare e a non coltivare affetti per il mondo che avevano lasciato, a plasmare la propria mente sul filo di parametri razionali che a loro non appartenevano. Morivano a decine, a centinaia di migliaia, catapultati sui reticolati insormontabili e crivellati dalle raffiche di mitragliatrici avversarie, il cuore e l’ultimo respiro rivolti alla famiglia, a quella che era la vera Patria a cui appartenevano, maledicendo il Moloch e i suoi servitori diabolici saziati senza fine del loro sangue.
Sono ancora in ginocchio, fronte alla tomba del Milite Ignoto, odo una voce che rimbomba roca dal vuoto immenso: “Abbiamo fame, abbiamo sete, siamo sfiniti, sporchi, divorati dai pidocchi, i piedi nel fango, il gelo nelle ossa, siamo soli, incompresi, condannati, disperati, unica compagna la morte che di noi si fa beffe scivolandoci accanto una e più volte sino al suo fatale colpo di falce”.
Sento calde le lacrime rigarmi le gote, vivo, rivivo un dolore sopito, muto, scordato, rinnegato, vilipeso, quello che brucia il petto per tutti quei sacrifici inutili, per tutte quelle vite, quelle speranze spente anzi tempo, per il dolore atroce e senza limiti che straziò l’anima delle spose, dei figli, dei vecchi in vana attesa.
L’Onore che voglio tributare al Milite Ignoto e, con esso, a tutti i Caduti e Dispersi in guerra, è un moto dell’animo che urla il rimpianto, l’empatia, la vicinanza di affetti e il dolore per quei giovani che più non furono. Rimanga almeno una rispettosa memoria per il loro esserci stati e per il destino ingiusto che ordini perversi costrinsero ad abbracciare.
Il Milite Ignoto del Rombon
Nella rimembranza del 4 Novembre, Festa delle Forze Armate e Memoria dei nostri Caduti in Guerra.

Il 4 Novembre 1921 fu deposta la Salma del Milite Ignoto all’Altare della Patria in Roma. Undici erano state le salme riesumate da altrettanti luoghi di battaglia della Grande Guerra 1915-1918. Fra queste venne effettuata la scelta di una sola da onorare come Milite Ignoto a nome e onore di tutti i Caduti. Il compito della scelta fu affidato a Maria Bergamas, madre di un Disperso in guerra. Di queste undici Salme voglio ricordare, in particolare, quella esumata in zona Cukla-Rombon, terra di Slovenia, perché proprio in quelle zone martoriate combatterono e caddero da valorosi molti Soldati delle mie parti, Piemontesi e forse anche Saluzzesi.
Traggo il brano seguente da Lorenzo Cadeddu, La leggenda del soldato sconosciuto all’Altare della Patria (Gaspari, UD 2006). Era il 20 ottobre 1921, la zona di ricerca si stendeva presso il Monte Rombon e il Monte Cukla, per il reperimento dei resti mortali dell’ottavo soldato sconosciuto:

“… le ricerche dell’ottava salma durarono diverse ore, fino a quando, cioè, dietro una parete di roccia non venne rinvenuta una croce in legno ormai corrosa dal tempo e senza alcuna scritta. Gli scavatori, con la consueta particolare delicatezza, cominciarono a rimuovere i sassi e la poca terra finché non venne portato alla luce un cranio. Si continuò a scavare nella direzione indicata dal cranio e pian piano apparve agli occhi di tutti il corpo di un soldato vestito ancora della sua uniforme. L’esame degli indumenti e degli effetti personali in essi contenuti non fornì alcuna indicazione circa l’identificazione…”

Dal mio lavoro, Il Battaglione Saluzzo: “Per meglio comprendere come fossero andate le cose nel merito dell’azione sviluppata dal battaglione Saluzzo con l’irruzione sferrata nel maggio 1916 sulle posizioni del Cukla, che fruttarono la cattura dell’intero presidio, è bene riandare alla relazione trasmessa dal comandante del battaglione Saluzzo, tenente col. Luigi Piglione (foto in basso), in data 8 maggio 1916 con Prot. n° 935, al Comando delle Truppe del Rombon e relativa allo svolgimento dei fatti d’arme sul Monte Cukla nei giorni 4 e 5 maggio 1916. Aveva avuto la chiara sensazione, il comandante Luigi Piglione, che verso le diciassette del 4 maggio gli Austriaci avessero aumentato l’intensità dei colpi di artiglieria diretti sulle posizioni che il battaglione Saluzzo teneva sul Cukla. Accertatosi di persona e confermato il sospetto, diede immediato ordine al comandante della 23a compagnia perché disponesse al sicuro dalle granate la maggior parte possibile degli Alpini schierati in trincea. Il fuoco avversario comunque verso le ore venti si placò alquanto e questo consentì agli Alpini di attivarsi per rinforzare i parapetti delle trincee. Quindi il comandante di battaglione chiamò in linea la 21a compagnia affidando il comando della trincea al capitano Angelo Bernardi per la parte destra e al capitano Martino Besozzi della 23a… La strategia d’insieme voleva che la 21a sostenesse l’attacco a partire dalle nostre trincee, mentre la 23a e la 1a compagnia del 2° Bersaglieri sarebbero rimaste di rincalzo.
Il battaglione Saluzzo agiva di concerto con i battaglioni Valcamonica e Ceva. Il Ceva operava alla sinistra del battaglione Saluzzo: suo compito era richiamare su di sé le forze avversarie dislocate sul Rombon e sulla Colletta del Cukla. Il Valcamonica era schierato sulla destra con l’obiettivo di assicurare uno stretto collegamento con il battaglione Saluzzo e di tenere impegnato, per il massimo possibile, il nemico che ci fronteggiava. Toccava pertanto alla 23a compagnia del battaglione Saluzzo mantenere un plotone all’estrema parte sinistra del nostro schieramento in modo che fosse assicurato il collegamento con la destra del battaglione Ceva. Dava successive disposizioni, il tenente col. Piglione, perché la batteria bombardieri colpisse vigorosamente la vetta del Cukla alle ore 18 e, trascorsa un’ora di fuoco ininterrotto, allungasse il tiro nell’intento di colpire il rovescio dell’altura e la Colletta sulla quale essa si appoggiava. Nel contempo sarebbero entrate in azione le mitragliatrici alle quali era affidato il compito di insidiare i nidi di mitragliatrici avversarie, con l’avvertenza tuttavia di usare la massima cautela per non danneggiare i nostri Alpini che si sarebbero in quel momento portati all’attacco… 16 Settembre 1916, ore 8,15. Dopo breve azione delle nostre artiglierie tre compagnie del battaglione Saluzzo balzarono all’attacco della linea austriaca dei Pini Mughi a quota 1582. Arrestati dal fuoco terribile delle artiglierie e delle numerosissime mitragliatrici che infuriavano dalle trincee intatte, gli Alpini resistettero sino all’imbrunire, quando infine giunse l’ordine di ripiegamento.

Lo stesso 16 settembre si scatenò anche l’offensiva dell’artiglieria italiana contro le postazioni austriache sistemate sul Monte Rombon, causando reazioni di pari intensità… Il 16 settembre 1916 sarebbe dovuto passare alla storia come il giorno che, in seguito all’attacco al Rombon, annoverò il maggior numero di caduti cuneesi nel volgere dell’intero grande Conflitto mondiale.”
Dal mio lavoro, La Grande Guerra. Accadde 100 anni fa: “Il capitano Martino Besozzi, comandante la 23a compagnia del battaglione Saluzzo, in quell’occasione aveva scritto ai genitori: “A me è toccato un onore grande. La mia compagnia è la prescelta per piantare vittoriosa le insegne italiane sulla vetta agognata. Gli austriaci sopra, i nostri sotto, nella neve alta due metri e più. Ora il Cukla è un fatto personale, un punto d’onore. Sua Maestà si interessa personalmente a ciò. Si aveva bisogno di un battaglione bello e sicuro di Alpini; è arrivato il Saluzzo”.
Immagino e formulo un’ipotesi: la Salma rinvenuta in zona Cukla-Rombon è una delle undici ricomposte all’interno della Basilica di Aquileia per la scelta di una sola fra esse. Esiste una probabilità su molte che appartenesse a un Combattente del Cuneese o del Saluzzese. Qualora così fosse, allora la probabilità si ridurrebbe a una su undici che la sorte avesse designato un Soldato delle mie parti a rivestire la fama del Milite Ignoto. Non sono ipotesi da scartare, sebbene le stesse si possano ripetere per altri battaglioni e per i rimanenti dieci Resti trovati sui campi di battaglia designati.
m.b.
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