Un secolo indietro: una gestazione complessa (Con passo leggero sui campi di battaglia – puntata 5 di 15)

Rivedo l’epoca in cui l’Italia, 106 anni fa, aveva deliberato di entrare come parte attiva nella prima Guerra Mondiale. Fu una decisione molto sofferta, strappata e strapazzata da un va e vieni di contraddizioni, incertezze, timori, calcoli politici e valutazioni di natura economica. Non solo, ma l’entrata in guerra dell’Italia costituì un fattore di enorme peso, nonostante nel suo caso non si potesse parlare della presa di posizione da parte di una grande potenza, nel sistema degli equilibri che regolavano i rapporti delle Nazioni più in vista dell’Europa e, più tardi, del mondo.

Torniamo all’agosto del 1914 e assistiamo agli assidui tentativi, avanzati dalle potenze dell’Intesa – Francia, Inghilterra e Russia – di portare l’Italia dalla loro parte, scardinandone i vincoli che da ben 32 anni la tenevano fedele alla Triplice Alleanza con Austria e Germania. L’imperatore tedesco Guglielmo II non perdeva occasione di ricordare al re Vittorio Emanuele III, attraverso i canali diplomatici, gli impegni assunti dall’Italia con gli Imperi Centrali. Di più, Guglielmo II si prodigò nell’insistere perché il governo di Vienna concedesse da subito il Trentino all’Italia, così, per tenersela amica e ingraziarsene i favori in caso di deflagrazione di un paventato conflitto.

Diciamo, per amor del vero, che i tre alleati Italia, Austria e Germania, alleati si dichiaravano ma, contemporaneamente, si guardavano con occhi torvo, in particolare Italia e Austria, i secolari nemici storici, e non lesinavano dal coltivare sospetti reciproci. Il collante di base che valse a tenere insieme gli accordi tra i tre era bensì assai fragile, tanto che all’occorrenza richiese di rinnovare periodicamente il patto di alleanza. Era un clima assai più improntato alla diffidenza tra l’uno e l’altro che non a uno spirito di collaborazione aperto e chiaro.

Il generale tedesco von Moltke aveva già espresso la necessità di avere al proprio fianco alcuni corpi d’armata italiani da impegnare contro la Francia nella regione dell’Alsazia. Nel luglio 1914 il generale Cadorna, succeduto al generale Pollio con la nomina a capo di Stato Maggiore dell’Esercito, ligio ai patti della Triplice, provvide allo spostamento di sette corpi d’armata, in via precauzionale, sulle rive del Reno: era una minaccia palese alla Francia. Ma subito dopo, con la dichiarazione dello stato di neutralità sancito dall’Italia il 3 agosto 1914, l’altalena mutò corso. Il momento storico, imponeva di usare molta prudenza nell’assumere posizioni decisive, tant’è che fu proprio il ministro degli Esteri, il marchese Antonino di San Giuliano, a spingere per la neutralità, anche e soprattutto nel timore di inimicarsi l’Inghilterra considerata come una potenziale pericolosa rivale per gli interessi italiani di navigazione marittima nel Mediterraneo.

È a questo punto che mi richiamo a poche righe significative tratte dal lavoro di Giorgio Petracchi (“1915. L’Italia entra in guerra”, Della Porta editori, Firenze 2015): “Se l’Italia fosse intervenuta in guerra simultaneamente alla Germania e all’Austria-Ungheria, suoi alleati, la Francia, il Belgio, la Serbia sarebbero stati irrimediabilmente battuti”. Ma c’era pur sempre l’Inghilterra e c’era la Russia che alla Serbia dava protezione e appoggio. Sarebbe stato come dare fuoco alle polveri, ne sarebbe nato un vero guazzabuglio. Con la neutralità italiana c’è da dire che la Francia si sentì sollevata dal timore di un’aggressione da parte dei transalpini e poté quindi concentrare ingenti forze sulla Marna ricacciandone le unità tedesche in avanzata. La dichiarazione di neutralità italiana e lo spostamento delle divisioni italiane dal fronte occidentale a quello orientale avevano rassicurato la Francia e dato corso all’utilizzo delle truppe già impegnate sulle Alpi occidentali per una loro mobilitazione contro i tedeschi, scongiurando in tal modo una seria minaccia di penetrazione germanica in territorio francese. Parimenti sia la Francia sia l’Inghilterra ebbero mano libera nei movimenti per le flotte militari e mercantili sulle vie di comunicazione marittima con l’Africa del Nord e con l’India.

Il ministro San Giuliano, in tale scenario, si trovò a giocare un doppio ruolo, simultaneamente con gli alleati Imperi Centrali per non deluderne le aspettative e con le potenze dell’Intesa per non dare a vedere di essere loro d’intralcio.

(L’immagine di Giolitti è tratta da Wikipedia)

La controfigura del generale Cadorna, Conrad von Hötzendorf si prodigava nel trattare l’Italia con particolare cautela, ne temeva un eventuale sospettato quanto mai prossimo intervento armato, sapendo per certo che egli stesso non avrebbe potuto disporre delle forze sufficienti per sopportare il peso di un ulteriore conflitto anche sul fronte italiano. La neutralità italiana poteva sembrare un buon espediente per tenere buoni e mansueti sia gli alleati Imperi Centrali sia le forze dell’Intesa, per i motivi che si legavano agli interessi dell’una e dell’altra compagine.

Il 5 novembre 1914 al ministero degli Esteri del governo Salandra salì il barone Giorgio Sidney Sonnino, convinto assertore della Triplice Alleanza e dell’avverarsi di una vittoria strepitosa da parte delle forze germaniche. Per la neutralità restavano concordi, ancora nel luglio 1914, sia Giolitti sia Salandra e San Giuliano.

Nel frattempo si andavano profilando tentativi di accordo in controcorrente, tali da coinvolgere anche la Russia nello sforzo di attirare l’Italia verso la politica dell’Intesa, con la promessa di cessioni territoriali corrispondenti al Trentino, a Trieste e a ingerenze nell’Adriatico, nonché Valona in Albania. Le trattative, tuttavia, non furono avallate dal ministro di San Giuliano.

Le condizioni economiche in Italia, dopo l’avventura militare del 1911-1913 in Libia, sconsigliavano sicuramente dal gettarsi in un conflitto che avrebbe prosciugato le già deboli risorse finanziarie del Paese. Il ritardo nello sviluppo economico si rifletteva nella esiguità degli scambi commerciali, con uno sbilancio esuberante a favore delle importazioni sulle esportazioni. Avevamo bisogno di tutto e si importavano in gran copia carbone, cereali, frumento, materiali ferrosi, macchinari, legname, prodotti petroliferi. In questa visione d’insieme importante restava il rapporto di commercio con la Germania.

Militarmente, poi, si era del tutto impreparati ad affrontare una possibile nuova guerra. Si deve considerare che, nel 1914, l’Esercito italiano soffriva di carenze strutturali, di armamento e di preparazione da parte dei quadri. Per di più, fattore non indifferente nella previsione di successi concreti sul campo dell’Onore, le nostre truppe erano state addestrate a combattere nell’osservanza di un obsoleto sistema tattico, quello dell’attacco frontale di massa che fu all’origine di sacrifici immani e altamente sproporzionati al peso degli obiettivi raggiunti. Era la prospettiva voluta dallo Stato Maggiore dell’Esercito e imposta a tutti i sottoposti con una rigidità ferrea e spesso disumana, benché già allora alcuni tra gli ufficiali contestassero in segreto tale metodo di combattimento ravvisandone la disinvoltura con cui si pensava soltanto alla pressione numerica delle nostre formazioni d’attacco, senza dare minimamente rilievo alla responsabilità indiscutibile che si sarebbe incontrata nel disporre delle vite dei singoli. Di fronte al fantasma di un eventuale intervento armato, inoltre, molte erano le difficoltà derivate dallo scontro di due prospettive contrastanti: mentre Cadorna era per una iniziale neutralità armata seguita a breve da un intervento frontale per costringere l’Austria-Ungheria alle cessioni territoriali richieste, da una parte avversa c’erano Salandra e San Giuliano sostanzialmente propensi a un’azione strettamente diplomatica, pur nella condivisione dei risultati politici da raggiungere.

Poi sopravvenne lo smacco tedesco sulla Marna, nella prima parte di settembre 1914, a far crescere i dubbi sulla validità e sull’opportunità dell’alleanza italiana con gli Imperi Centrali. Era, questo, un punto di vista avvalorato da quanto andava verificandosi in Galizia dove l’Austria, sempre nel 1914, subì una vera batosta per opera dell’avanzata russa.

In Italia si stava facendo di tutto per temporeggiare, di fronte all’evidenza dell’impreparazione e della precaria dotazione di mezzi in cui versava l’Esercito. La sostituzione del ministro Grandi alla guerra voluta da Salandra il 9 ottobre 1914 a favore del generale Zuppelli, notoriamente simpatizzante per l’intervento armato, giocò un ruolo di primaria importanza nel forgiare le opinioni riguardanti l’astensione contrapposta all’entrata in guerra. La dialettica crescente tra neutralità e interventismo trovava ampio spazio tra le testate giornalistiche dell’epoca, fattori di primo spicco nel proposito di influenzare l’opinione popolare, persino in ambiente cattolicheggiante dove non sempre venivano sposate le affermazioni pacifiste di Benedetto XV, eletto al soglio pontificio il 30 settembre 1914. C’era, in ogni dove, chi accampava diritti nazionali alla conquista delle terre irredente e chi sosteneva l’indissolubilità del patto di alleanza ultratrentennale fra l’Italia e gli Imperi Centrali, per una questione di fedeltà agli impegni a suo tempo assunti.

Dalla parte dei socialisti l’atteggiamento vigente era nettamente per il neutralismo, senza che si potessero negare del tutto un certo sentore antiaustriaco e una attrazione verso la Francia, almeno da parte di una iniziale minoranza. Anche qui andava premendo una crescente spinta nazionalistica che avrebbe creato divergenze nel volgere della direzione di pensiero. In tutto il Paese la tendenza a propendere per la neutralità era comunque prevalente; persino fra i parlamentari, in numero di 43, ben 32 avevano scelto la neutralità. La maggioranza della popolazione formata da contadini, braccianti, operai stava fuori dalla logica della guerra, non ne capiva, non ne poteva comprendere i motivi. La massa dei contadini, la metà fra i quali ancora analfabeti, scese in trincea perché costretta, sapendo bene, visti gli esempi rigidamente disciplinari che portavano sino alla fucilazione dei renitenti e dei pavidi, che non avrebbe avuto altra via di scampo. Costituivano quella fascia della popolazione che non aveva voce in capitolo, ma proprio non avevano voce per farsi ascoltare; non restava loro altro da fare che chinare il capo e obbedire agli ordini. Chi voleva la guerra erano le classi borghesi e nobili, l’aristocrazia e l’imprenditoria che dalle forniture militari e di macchine da guerra avrebbe tratto profitti enormi. Poi ci fu qualcuno che fece la voce grossa e riuscì a galvanizzare una parte consistente di altri alto-vocianti più o meno violenti e minacciosi i quali poco tempo impiegarono a rendersi padroni del corso della Storia nazionale del momento. Parlando, poi, dei socialisti, non sempre e non dappertutto la corrente di pensiero cui essi aderivano si dimostrò contraria alla guerra. Una importante propaggine politica, quella dei sindacalisti rivoluzionari, riteneva con fermezza che una imminente deflagrazione bellica sarebbe apparsa in veste di veicolo promettente per dare fuoco alla miccia della rivoluzione, del cambiamento, della frantumazione dell’ordine allora vigente. E alcuni fra coloro che sostenevano questa tesi erano quelli che fino a poco tempo prima si erano presentati come convinti fautori del pacifismo e avversi alla guerra. Ossia, secondo questa linea di pensiero, l’entrata in guerra sarebbe stata un’occasione d’oro per assestare un duro colpo al capitalismo.

L’influenza dei giornali era talmente incisiva nel creare prese di posizione pro o contro la guerra, che molte delle testate giornalistiche più in vista finirono per godere di finanziamenti esterni, ora dall’una ora dall’altra parte, in primo piano per mano sia della Germania sia della Francia.

Dal punto di vista geografico c’è da comprendere quali fossero le ambizioni italiane e a un tempo austriache per il possesso delle coste adriatiche dalle quali si sarebbero mossi i traffici commerciali e avrebbero preso il via le linee di navigazione delle marine militari. L’Italia poteva temere, se fosse stata privata dell’ingerenza sulle coste dalmate ad esempio, il verificarsi di pericolose insidie da parte sia dell’Austria sia degli Stati slavi. Il timore verso l’insorgente slavismo metteva in crisi le preoccupazioni italiane per l’egemonia sull’Adriatico, tanto che l’Italia, per sentirsi le spalle al sicuro, almeno relativamente a quel settore, aveva concertato nel settembre 1914 un accordo segreto di intesa con la Romania. Era di estrema importanza inserirsi attivamente nel determinare le politiche di equilibrio sulla fascia adriatica. In ultima analisi, a quel punto del confronto diplomatico, appariva ormai chiaro che lo stesso concetto di neutralità, piuttosto vago e mal definito nei rapporti dell’Italia con l’uno o con l’altro degli schieramenti avversari, più non esprimesse altro che l’interposizione di una fase transitoria, velatamente interlocutoria, ma non definitiva delle decisioni italiane dove, in ambito politico, si nutrivano non pochi timori per l’affacciarsi di minacce austriache dal saliente del Trentino che si spingeva sino a riva del Garda per proseguire poco a nord di Ala nei pressi dell’Adige e risalire verso il Pasubio, come pure emergevano serie incertezze dalle zone adiacenti all’Isonzo-Judrio. La sicurezza per l’integrità dei confini, dunque, poteva mostrare non poche occasioni di cedimento. Si trattava pertanto di apportare opportune rettifiche all’assetto frontaliero per garantire incolumità al territorio intero dello Stato italiano, nella revisione integrale da apportarsi a quanto sancito con le conseguenze della guerra del 1866.

In politica interna si verificò una sorta di sommovimento, cruciale per le sorti del dibattito sulla “guerra sì – guerra no”. Nell’ottobre 1914 al ministero degli Esteri si passò dal San Giuliano al Sonnino. Quest’ultimo necessitava di una pausa temporale per decidere sull’accettazione e fu così che il presidente Salandra assunse temporaneamente anche la presidenza degli Esteri che durò dal 16 ottobre al 5 novembre 1914. Poi pervenne la decisione di Sonnino ad accettare la nomina, e Sonnino si dimostrò favorevole a un’entrata in guerra contro l’Austria. Fu a questo punto che la Germania si diede subito da fare per richiamare a sé e alla Triplice le tendenze politiche italiane che in quel frangente parevano ancora assai vacillanti.

Certo la Germania non lesinava dal far luccicare dinanzi agli occhi del governo italiano laute promesse territoriali come compenso alla rinsaldata fedeltà e, nello stesso tempo, faceva pressioni sull’Austria perché non desistesse dall’affrontare sacrifici rinunciando al possesso di alcune regioni di confine, il Trentino nella fattispecie. La Germania, anzi, si dimostrò disposta persino a cedere parte delle proprie province all’Austria, quale indennizzo per la perdita del Trentino. Tanto fece che Francesco Giuseppe si convinse, anche per via delle batoste subite nei Carpazi e nei Balcani, ma non cedette di fronte alla richiesta di aggiungere altre zone confinanti oltre il Trentino. Niente Isonzo e Dalmazia, dunque.

Persino il Vaticano, allora con papa Benedetto XV, cercò di convincere l’imperatore d’Austria a privarsi del Trentino, ma Francesco Giuseppe fece orecchio da mercante, anche perché una cessione del genere avrebbe pericolosamente e quasi certamente incoraggiato la Romania ad avanzare identiche pretese nei confronti della Transilvania.

Per altro verso si estese un’ombra sulle intenzioni che andavano prendendo corpo a stretto raggio in ambito politico interno: mancarono la chiarezza, la comunicazione e la condivisione. Giolitti, infatti, che godeva di una posizione di prestigio in Parlamento, fu rassicurato da Salandra in merito alle trattative di compromesso avviate con l’Austria, ma nulla gli fu comunicato degli accordi che si andavano sviluppando con l’Intesa.

L’alternarsi dei rapporti di collaborazione con le due parti contrapposte assunse, infine, una direzione certa, quella che portava l’Italia ad abbandonare la Triplice per passare dalla parte dei suoi avversari, anche perché gli sviluppi diplomatici avevano fatto luce sul sospetto, nemmeno troppo celato, che l’Austria avrebbe sì aderito alle richieste italiane di concessioni territoriali, ma con la ferma intenzione di riprendersi, a guerra conclusa, quanto dato in precedenza. E questa subodorata intenzione non era una allettante prospettiva.

Dagli accordi del Patto di Londra, sottoscritti dall’Italia il 26 aprile 1915, si dava per scontato un piano di attacco simultaneo concordato tra Italia, Russia e Serbia contro l’Austria. L’Italia confidava molto sull’apporto militare dell’Esercito russo suo alleato, ma la sconfitta subita da quest’ultimo per mano delle truppe austro-tedesche in Galizia, sulla direttrice Gorlice-Tarnow nel maggio-giugno 1915, diede di fatto un duro colpo alla fiducia riposta in una facile soluzione del conflitto. Le sorti degli scontri armati si erano ribaltati dalla situazione formatasi l’anno precedente.

All’interno, per il presidente Salandra era difficile deliberare l’entrata in guerra dell’Italia, dopo che in ambito interventista era emerso, verso la metà di maggio 1915, che i voti favorevoli al conflitto, su un totale di 508, non sarebbero quasi sicuramente stati più di 150 (G. Petracchi, cit., pag. 198). Il 13 maggio il governo si dimise e la patata bollente passò nelle mani del sovrano.

Non di poco conto, in quell’atmosfera di pesante indecisione, fu la voce di Gabriele D’Annunzio che lanciava parole di fuoco incitando la popolazione a imbracciare le armi, persino senza escludere il ricorso alla violenza.

Il 16 maggio il governo si riformò e ottenne dalla Camera i pieni poteri. La linea politica di Giolitti era stata affossata. Il 24 maggio 1915 l’Esercito italiano era al fronte.

106 Anni! 24 Maggio: l’Italia entra in guerra

Un conflitto che si sarebbe dovuto risolvere in pochi mesi, si trasformò ben presto in una lunga guerra di posizione e di logoramento.

Le ambizioni erano alte, e non dell’ultimo momento soltanto. Già il 21 agosto 1914 si parlava di voler spingersi in avanti sino alla Drava, tanto che il generale Cadorna affidò ai comandanti d’Armata lo studio concernente operazioni militari da portarsi oltre Isonzo: era il 4 novembre 1914, data di successiva esaltante ricorrenza storica per il nostro Esercito.

Com’era preparata per la guerra l’Italia? In realtà a quell’epoca la compattezza dello Stato italiano, storicamente giovane e reduce dalle trascorse delusioni di Adua, di Custoza, e dalla più recente avventura libica, non era così solida da poter offrire le migliori garanzie di successo. Intanto c’è da osservare che, mentre altre Nazioni coinvolte nel conflitto lo furono per essere state travolte in una spirale di provocazioni e di interessi di forte impatto sullo strato sociale della popolazione, l’Italia non fu per così dire trascinata nella guerra, ma si trovò libera di operare una scelta: intervenire o restarsene fuori ossia mantenersi nella neutralità. La gran parte degli Italiani non era nelle condizioni di cultura e di informazione per darsi ragione di un intervento armato e, a fatti compiuti, si trovò pure divisa in due schieramenti contrapposti: i lavoratori della terra nelle trincee e gli operai nelle fabbriche, con l’esonero dal servizio militare attivo e tutti i vantaggi che sarebbero derivati da un tenore di vita decisamente molto più agiato. 

Accadde comunque che, dopo 33 anni di alleanza con l’Austria e la Germania, la cosiddetta “Triplice”, con il Patto di Londra del 26 aprile 1915 assumessimo posizione avversa con la nostra adesione alla Triplice Intesa (Inghilterra, Francia, Russia) e dichiarassimo guerra agli Imperi Centrali.

Non tutto, però, procedeva a nostro favore: gli Austro-tedeschi battevano strepitosamente le forze russe a Gorlice-Tarnov il 2 maggio 1915 e, nel medesimo anno, avevano ragione delle forze alleate franco-inglesi sullo stretto dei Dardanelli. Gli Imperiali, in seguito alla fortunosa campagna di Gorlice-Tarnov, ebbero buon gioco a impiegare le forze già impegnate sul fronte russo per dispiegarle sulla linea dell’Isonzo contro le nostre Armate.

Già il 4 maggio 1915 in Italia si era dato avvio alla mobilitazione che, però, si scontrò con una serie di motivi causa di confusione e responsabili di sopravvenuti pesanti ritardi.

Il 24 maggio avevamo in prima linea 195 battaglioni contro i 127 austro-ungarici, in seconda linea altri 45 battaglioni a fronte dei 35 a-u. e in riserva 59 contrapposti ai 49 a-u. Gli Austriaci godevano peraltro di un indiscutibile vantaggio, potendo disporre di reparti combattenti collaudati al confronto armato e ben avvezzi alle fatiche della guerra, resi più forti per la sicurezza conferita dai recenti successi sul campo di battaglia, come pure da un solido sistema di strutture difensive e accessorie puntualmente predisposto.

La guerra non esordì per noi con i migliori auspici, perché da subito gli esiti furono condizionati da gravi carenze sul piano logistico, organizzativo, del vettovagliamento, del munizionamento e dalla scarsa preparazione sia dei giovani all’arte del combattimento sia dei quadri ufficiali nell’interpretare una guerra in termini di moderna tattica-strategia. Sul fronte orientale la dislocazione delle nostre truppe alla vigilia dell’entrata in guerra, cosa non di second’ordine, denunciava una forte sproporzione: 206 battaglioni per 560 chilometri di linea dallo Stelvio al Monte Canin (2a Armata) e 214 battaglioni per 90 chilometri dal Canin al mare (3a Armata).

A operazioni iniziate si ripercossero sugli equilibri di forze e andarono ad appesantire uno scenario, già di per sé deficitario, una serie di ritardi su vasta scala dello scacchiere. Eccone alcuni esempi.

Sul fronte orientale la “Zona Carnia”, sottoposta al comando del generale Clemente Lequio, presidiava l’arco alpino dal Monte Peralba al Monte Lodìn e costituiva saliente di estrema importanza in vista di eventuali infiltrazioni, tanto che fu ripetutamente oggetto di intense pressioni da parte delle compagini austriache. Sarebbe stato per le nostre forze relativamente facile, nel periodo iniziale dei movimenti, occupare il Monte Rombon in Conca di Plezzo, non ancora presidiato dall’avversario, ma ordini perentori del Comando Supremo volsero a prospettive di altra direzione, generando la perdita di un’ottima occasione che ci avrebbe invece garantito il dominio di una posizione di grande rilievo strategico. Situazione simile doveva verificarsi sulla dorsale del Monte Nero che si prestava, quasi del tutto indifesa, a favorevoli e promettenti tentativi di conquista. Si preferì lasciare in attesa sei agguerriti battaglioni alpini nei giorni 26 e 27 maggio, creando così le condizioni che portarono a successivi cruenti confronti a fuoco e all’arma bianca sulle erte della linea di cresta, con il sacrificio di numerose vittime.

Errori su errori, dunque, non ultimo quello relativo alla dorsale Sleme-Mrzli che offriva le migliori possibilità di possesso da parte dei nostri Combattenti nei giorni dal 25 al 27 maggio perché debolmente difesa da contingenti austriaci. Anche qui si titubò, si ricorse a eccessiva prudenza, si temporeggiò e si finì con il dare alla III Brigata austriaca da montagna il pretesto per un’agevole ascesa e per il dominio della zona.

Quelli erano momenti preziosi, di cui era necessario approfittare senza indugio, ma una certa inazione negli alti Comandi fece sì che si dovette ricorrere a tentativi tardivi per impossessarci della dorsale, sferrati dal 28 maggio in avanti, con sorte avversa e perdite ingenti.

Incominciavano i tristi, interminabili giorni di sacrifici e di morte che si sarebbero protratti per quarantuno infelici mesi.

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