1917. Che cosa accade in Macedonia?

Potrebbe sembrare un po’ fuori luogo guardare al divampare della guerra, la prima in dimensione planetaria, oltre i nostri lidi in terre d’oltremare, quando le nostre mire di unificazione nazionale puntavano con interessi preponderanti sulle terre irredente di Trento e Trieste. Non è infatti molto diffusa la conoscenza della guerra sostenuta nel 1917 dall’Italia in Terra di Macedonia. Vediamone allora uno scorcio.

La decisione avrebbe qualcosa di piuttosto estemporaneo, ma la disposizione geografica della Macedonia rappresentava allora uno scacchiere di grande rilievo per decidere le sorti della guerra totale. Quello macedone era uno dei settori a maggiore sensibilità strategica di tutto il fronte balcanico negli anni 1915-1918, vera chiave di volta da tenere fermamente in possesso, a onta di un inaugurabile cedimento che avrebbe fatto correre il rischio, all’Armata alleata d’Oriente (gli Alleati), di venire ricacciata in mare, come già era successo agli inizi della Campagna. La Bulgaria, non per nulla, ambiva fortemente a impossessarsi della Macedonia, stato per così dire cuscinetto, di grande interesse per la sua posizione, ma in ciò era contrastata vivacemente dalla Serbia.

Noi eravamo alleati con i Francesi, gli Inglesi, i Serbi, i Greci, i Russi e affrontavamo le forze austro-tedesche, bulgare e turche.

Francesi e Inglesi, ai primi di ottobre del 1915, erano sbarcati a Salonicco per prendersi una rivincita contro gli Imperi Centrali, dopo aver subìto una deprimente sconfitta ai Dardanelli. Qui, precisamente a Gallipoli, nel febbraio del 1915 l’impresa era precipitata con un disastroso fallimento degli Alleati i quali avevano dovuto lamentare perdite (morti, dispersi, feriti, colpiti da morbo) enormi, risalenti a più di 206.000 unità. Era necessario forzare lo stretto dei Dardanelli per raggiungere Costantinopoli. Lo scopo muoveva a costringere la Turchia, mobilitata a fianco della Germania, a cessare le ostilità. Ma si mirava anche a ripristinare le comunicazioni con la Russia attraverso la via del Mar Nero. Gli alleati avevano incominciato scatenando furibondi bombardamenti nel febbraio-marzo del ’15, ma le loro corazzate avevano preso a colare a picco, colpite dalle siluranti nemiche. Decisero allora di affrontare le truppe turche e tedesche a terra, dove però incontrarono una resistenza superiore alle aspettative. Nulla di remunerativo fu raggiunto; anzi, tra le forze anglo-francesi si ebbero 32.000 morti e 100.000 feriti, cosa che consigliò di decidere per il reimbarco a fine anno.

Dopo molti ripensamenti il ministro italiano di allora, Sidney Sonnino, con il consenso del generale Cadorna che avrebbe ventilato un alleggerimento, tramite la manovra macedone, della pressione austriaca sul fronte alpino, decise per l’invio della 35a divisione rinforzata al comando del generale Carlo Petitti di Roreto. La divisione si mosse l’8 agosto del 1916 con tre piroscafi: il Gallia, il Duca di Genova, il Regina Elena. Occorsero 31 viaggi per trasportare tutto il contingente da Taranto a Salonicco. Si parlò di 44.000 effettivi, ma potevano essere anche di più, l’equivalente, cioè, di un corpo d’Armata.

La 35a divisione si componeva delle brigate Cagliari, Ivrea, Sicilia, del 2° reggimento Artiglieria da montagna, del 1° squadrone di Cavalleria Lucca e di una serie di reparti mitraglieri e mortaisti.

Si era all’inizio del 1917 quando, il 12 febbraio verso sera, erano le diciotto e quarantacinque, un bombardamento violento quanto mai si abbatté su due compagnie del 162° reggimento della brigata Ivrea, sulle pendici occidentali della Quota 1050. Erano anche colpi di bombarde, bombe a mano, irruzioni con lanciafiamme.

Mario Bruno, La Grande Guerra. Dai Balcani a Vittorio Veneto, IBN Ed., Roma 2014

Quest’ultimo strumento di morte causò la distruzione, in quel frangente, di mezza compagnia. I combattimenti si protrassero per tutta la notte e per il giorno successivo. La reazione della nostra artiglieria fu tempestiva, seguita dall’attacco sferrato dalle nostre fanterie alle ore cinque del giorno 13. Le nostre artiglierie ripresero il bombardamento il 27 febbraio mettendo in azione 150 bocche da fuoco con circa 20.000 colpi diretti sul presidio difensivo nemico di Quota 1050, sul Piton Brulé e sulle seconde linee. Verso le ore diciotto reparti del 162° si lanciarono in un poderoso assalto che fruttò la presa di settantaquattro prigionieri tedeschi, ma in quel momento s’udì fragorosa l’esplosione di una mina che distrusse quasi tutto il reparto. I nostri furono costretti a rientrare sulle proprie posizioni, lamentando una perdita di circa quattrocento uomini.

L’analisi della situazione creatasi in conseguenza di quell’attacco mise in chiaro che l’altura contesa si sarebbe potuta conquistare soltanto alla condizione che fossero state messe a tacere le batterie nemiche le quali, occultate sapientemente fra gli anfratti rocciosi del Piton Rocheux, dominavano incontrastate l’ambita Quota 1050.

(Estratto da Mario Bruno, La Grande Guerra. Dai Balcani a Vittorio Veneto, IBN Ed., Roma 2014)

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