Sono scorsi più di cent’anni da quando si consumò quell’inutile strage, come ebbe a definirla Papa Benedetto XV allorché, il 1° agosto 1917, si prodigò nel tentativo di dissuadere i belligeranti dal massacrarsi a vicenda. Fu un’ondata di violenze che si abbatté sulla nostra gente, sulle nostre città e sulle campagne portando desolazione, morte, sofferenze atroci, fame e miseria in una stragrande fascia della popolazione.
Le donne non furono estranee ai sacrifici imposti dal conflitto armato. Chiamate anch’esse a un lavoro assiduo e faticoso, di braccia e di mente, per garantire la prosecuzione delle attività produttive lasciate dagli uomini che avevano dovuto raggiungere il fronte di battaglia, dimostrarono capacità e virtù insospettate, trasformandosi rapidamente in protagoniste di primo piano sui posti di lavoro lasciati vacanti dai loro uomini.
Qui, nello specifico, è cosa onorevole portare l’attenzione su quelle donne che si immersero cuore e anima nei fatti di guerra, non per imbracciare le armi, ma per dare pur sempre un sostanziale contributo al buon funzionamento della macchina bellica.
Il riferimento privilegiato, nel corso di queste considerazioni, è per quelle donne che calcarono i sentieri impervi delle Alpi Orientali per concorrere al sostentamento degli uomini nelle trincee della displuviale di confine tra l’Italia e l’Austria.

Accadeva, a quel tempo e in quei luoghi, che la necessità di rifornire gli uomini lassù in alto imponesse il trasporto del materiale richiesto dalla situazione in atto per una quantità tale che sarebbe dovuta bastare a rifornire una intera divisione di soldati, diciamo qualcosa come dodicimila uomini. Le esigenze logistiche erano pressanti, perché tutti quei combattenti avevano bisogno di nutrirsi quotidianamente, e non solo. Portare in quota tutto quel po’ di roba non era così semplice, perché non si disponeva di una rete stradale adeguata alla bisogna. Per arrivare sulla linea frontaliera, da un certo punto in poi e per lungo tratto, non esistevano che sentieri disagevoli e tratturi di difficile percorso. Si sarebbe potuto ricorrere ai muli, ma quelli non abbondavano così tanto da poter assolvere ai vari impegni; in più erano di necessità adibiti agli spostamenti di pezzi d’artiglieria, di materiale bellico pesante e, quando le forti precipitazioni nevose frequenti nei lunghi e rigidi inverni coprivano il suolo per un’altezza di alcuni metri addirittura, quei poveri animali sarebbero certamente naufragati nelle difficoltà più insormontabili.
Rifornire i soldati là in alto si doveva, senza tanti ripensamenti. Fu così che gli alti Comandi militari trovarono una soluzione: avanzare una urgente richiesta presso la popolazione perché si risolvesse a prestare il proprio aiuto. La popolazione, si sa, era formata sostanzialmente da donne, bambini, vecchi e infermi, perché tutti gli uomini validi erano in zona di guerra.
Furono le donne a rispondere all’appello e lo fecero con il profondo senso del dovere che le contraddistinse fino ai cupi eventi di quel disastroso 24 ottobre 1917, l’onda devastante di Caporetto. Molte donne dei paesi di media e alta valle in Carnia e altrove, dunque, accettarono e si presentarono ai Comandi militari per assumersi l’incarico. Così fecero per almeno due fondamentali motivi. Il primo era perché avevano lassù sulle creste montane i loro cari e per nulla al mondo li avrebbero lasciati soli e in difficoltà. “Andiamo – dicevano – altrimenti quei poveretti moriranno pure di fame”.
Il secondo motivo si rifaceva a quella che per loro e per le famiglie l’offerta di una piccola retribuzione giungeva come una vera provvidenza di natura economica. Il Governo italiano aveva disposto il compenso di una Lira e 50 centesimi a persona per ciascun viaggio effettuato. Oggi una cifra del genere farebbe sorridere, sarebbe anche difficile a immaginarsi, ma, se pensiamo che nel 1915 un operaio guadagnava dai 20 ai 30 centesimi all’ora ossia, lavorando dieci ore al giorno, circa due o tre Lire giornaliere, l’obolo ricevuto da quelle donne carniche equivaleva a quasi la paga diurna di un operaio.

C’era la fame, allora, in Carnia, una fame vera e nera che portava in certi casi alla disperazione, tanto da costringere la gente, che moriva per denutrizione con i soli sussidi governativi, a racimolare di tutto che fosse adatto a mescolarsi con quel po’ di farina rimasta a disposizione al puro scopo di percepire quel senso di replezione che poteva sopire ingannevolmente i morsi della fame, nell’illusione di poter sopravvivere per un po’ ancora (vedi l’immagine simbolica qui a lato).
Con la modesta somma di Lire 1,50 che, equiparata alla valuta dei nostri giorni, poteva corrispondere a 4 o 5 Euro, le donne Carniche potevano garantire un migliore tenore di vita ai propri bambini e ai vecchi inabili componenti la famiglia.
L’incarico che avevano accettato non era cosa da nulla, perché comportava il sottoporsi a fatiche e il dispendio di tempo considerevoli. Si trattava di salire gli erti pendii, superando dislivelli dai 600 ai 1200 metri e sfidando i rischi delle traiettorie micidiali che fendevano l’aria a destra e a manca, con sulle spalle una gerla carica di generi vari sino a 40 chilogrammi e anche più. Portavano pane, viveri, biancheria di ricambio, medicinali, materiale logistico, armi date in riparazione e suppellettili, munizioni e quant’altro fosse stato richiesto dai Comandi periferici. Nelle giornate d’inverno s’inerpicavano calpestando neve alta spesso sino alle ginocchia, con poche soste per riprendere fiato. Al ritorno, poi, riempivano nuovamente le proprie gerle con materiale da destinare a riparazioni, con biancheria da lavare e, all’occorrenza, con qualche ferito o malato da trasportare negli ospedali di fondo valle per le cure del caso. Persino le mani non rimanevano in ozio perché, fra un passo e l’altro nella discesa altrettanto faticosa e insidiosa quanto la salita, queste donne eccezionali si dedicavano a sferruzzare per confezionare semplici capi di vestiario e calzetti per i propri cari che stavano in casa nell’attesa del loro ritorno. E, qui giunte, non potevano neppure godere di un meritato riposo dopo le sfacchinate della giornata. Appena il tempo di asciugarsi alla meglio se erano incorse in un temporale o se la neve alta aveva intriso i loro vestiti; poi, ecco i bambini e i vecchi da coprire di attenzioni e di cure, ecco le faccende domestiche da sbrigare, la stalla, se c’era, con qualche animale da accudire e quel po’ di orto che avevano a disposizione, da tenere in ordine per il magro sostentamento che avrebbe potuto assicurare alla famiglia.
Facevano volentieri tutto ciò, queste donne eroiche e si muovevano in gruppetti di dieci-quindici, anziane e giovani dai quindici anni in su. Per il loro protagonismo nei fatti di guerra furono chiamate “Portatrici Carniche”. Provenivano dai 28 Comuni della Carnia, si dice fossero una bella schiera di 1.450 Portatrici.
Un giorno, era il 15 febbraio del 1916, uno di questi gruppi si mosse di buon’ora da Timau, a valle del Passo di Monte Croce Carnico. Le Portatrici che lo componevano s’incamminarono, curve sotto i pesi opprimenti delle gerle, lungo una vallata che, in direzione est, ancor oggi si spinge verso la Casera Malpasso. Poco a monte di questa località, alla Roccia del Malpasso quota 1619, si fermarono qualche attimo per riprendere forze.
Una di quelle Portatrici era Maria Plozner Mentil di Timau. Fu proprio in quel fatidico istante che venne colpita da un proiettile mortale, forse partito da qualche angolo ben occultato della soprastante linea frontaliera. Trasportata morente a valle, abbandonò di lì a poco la propria vita lasciando quattro bambini in tenera età e il marito combattente sul Carso. La sua Salma fu tumulata nel Tempio Ossario di Timau, unica sepoltura femminile fra le 1.764 Croci colà annoverate. Alla sua Memoria fu conferita, il 29 aprile 1997, la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Trascorsero anni e il sacrificio dell’eroina Portatrice Carnica Maria Plozner Mentil fu onorato, l’8 settembre 2012, con l’inaugurazione di una targa affissa alla Roccia del Malpasso, nel punto stesso in cui la Timavese cadde nell’adempimento del proprio dovere di Italiana.

A memoria perenne del valore patriottico portato in alto dalle Portatrici Carniche, tutte decorate con l’alta Onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto, fu eretto in Timau, per volontà e iniziativa del Cav. Lindo Unfer, direttore del Museo “La Zona Carnia nella Grande Guerra”, un significativo monumento raffigurante, in primo piano, il sacrificio di Maria Plozner Mentil. A questa coraggiosa donna carnica fu intitolata la Caserma di Paluzza, a valle di Timau, l’unica Caserma che, in Italia, reca un nome al femminile, oggi purtroppo demolita quasi del tutto, perché da tempo abbandonata all’incuria, cadente sulle proprie fondamenta.