Pessimismo di Schopenhauer
La vita umana è incapace di ogni vera felicità, è essenzialmente dolore, uno stato del tutto infelice. Il mondo umano è il regno del caso e dell’errore, follia e malvagità, egoismo e ingiustizia. È la volontà che, ingannata dalla conoscenza, disconosce se stessa distribuendo qui benessere e là dolore, ferendo se stessa e palesando il contrasto interiore del proprio intimo. La volontà non può cessare di volere perché non conosce appagamento. Volontaria, perfetta castità è il primo passo nell’ascesi, ovvero nella negazione della volontà di vivere. Nessuna forza può distruggere la volontà di vivere, se non la conoscenza.
La perfetta santità è l’abbandono e la negazione di ogni volere. Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è il nulla. Il mondo e la nostra propria esistenza ci si presentano come un mistero, la cui soluzione deve essere cercata in qualche cosa di interamente diverso dal mondo e deve scaturire dall’intellezione del mondo stesso accostando opportunamente l’esperienza esteriore con quella interiore. Con ciò giungiamo alla giusta comprensione del mondo, entro certi limiti, senza però raggiungere una spiegazione conclusiva e definitiva della sua esistenza.
Schopenhauer. Tempo-Spazio
La forma della vita o della realtà è il solo presente. Il nostro individuale passato non è che un sogno della fantasia, fatto di nulla. Il presente è formato soltanto dal punto di incontro dell’oggetto, la cui forma è il tempo, con il soggetto. Passato e futuro contengono semplici concetti e fantasmi. È il presente l’essenziale forma del fenomeno della volontà, è ciò che sempre esiste. Principio e fondamento del suo contenuto è la volontà di vivere.

(Figura del cerchio) Il cerchio (tempo e mondo fenomenico) ruota, ma la tangente e il punto su di essa sono fermi: in questo punto s’incontrano il soggetto conoscente (volontà) e il tempo. Così diventa ingannevole il timore di poter perdere, con la morte, il presente. Alla volontà di vivere è certa la vita e la forma della vita è un presente senza fine. Ciò che nella morte temiamo è la fine dell’individuo, ma ognuno di noi è quella volontà la cui oggettivazione e immagine è il mondo intero. Non si dovrebbe quindi temere la morte più di quanto il Sole possa temere la notte.
Schopenhauer. Mondo animale
Tutti gli animali hanno intelletto perché tutti conoscono oggetti. Negli animali c’è intelletto, ma manca la riflessione, perché non ci sono concetti astratti o ragione. L’intelletto animale non coincide con l’istinto. L’assenza della ragione limita gli animali alle rappresentazioni intuitive (opera comunque l’intelletto). Mente l’animale viene sempre mosso da una rappresentazione esclusivamente intuitiva, l’uomo va oltre e ricorre a rappresentazioni astratte.
Schopenhauer. Il fondamento della Morale
Egoismo: è la causa principale delle azioni umane. È colossale, sconfinato, domina il mondo. L’egoismo si contrappone alla virtù della giustizia che è la prima vera virtù cardinale. Contraria all’egoismo è la compassione. Soltanto la compassione è la base reale di ogni giustizia spontanea e di ogni genuino amore del prossimo.
Per nascondere l’egoismo abbiamo inventato la cortesia, un’ipocrisia riconosciuta. L’egoismo fa sì che ognuno voglia essere centro del mondo. A qualcuno il mondo potrebbe apparire, dal lato estetico, una raccolta di caricature; dal lato intellettuale, un manicomio; dal lato morale, un covo di furfanti.
Una principale fonte di malevolenza è l’invidia (è umana), il cui contrario è la gioia del danno altrui (è diabolico). Soltanto l’assenza di ogni motivazione egoistica può essere il criterio di un’azione con valore morale.
In genere esistono soltanto tre impulsi fondamentali delle azioni umane: a) l’egoismo, sconfinato, che vuole il bene proprio; b) la cattiveria che vuole il male altrui (crudeltà); c) la compassione che vuole il bene altrui (nobiltà d’animo, magnanimità). Dalla giustizia e dall’amore del prossimo derivano tutte le virtù.
“L’egoismo domina il mondo”, dice Schopenhauer, e noi cerchiamo di negarlo, di nasconderlo. Come? Camuffando i nostri atti con un’apparente cortesia di modi. Ma l’egoismo è come un cavallo selvaggio legato agli zoccoli, e questo si rispecchia nel fatto che noi malamente riusciamo a dissimulare le nostre intenzioni volte a usare il nostro prossimo per la soddisfazione dei nostri più o meno leciti scopi personali. L’egoismo è come qualcosa di cui non puoi sbarazzarti, è un potente stimolo a vivere, a sopravvivere con il massimo di piacere e di felicità. Induce ciascuno a credersi centro del mondo.
Schopenhauer non dà tuttavia l’umanità intera in pasto all’egoismo. Ammette un risvolto di tutt’altra natura nel manifestarsi del comportamento umano. Quando sostiene la possibilità di volere il bene non solo proprio, ma anche degli altri, in modo disinteressato, egli richiama il concetto di identificazione. Con questo atteggiamento l’individuo comprende il senso che si lega al dolore altrui, al dolore universale che incombe sull’esistenza di ognuno. Ed è qui che Schopenhauer raccoglie le tendenze empatiche, di comprensione, di identificazione nel termine di “compassione”. Da una simile concezione deriva il fatto che fra l’io e l’altro non c’è differenza, mentre ognuno è portato a riconoscere se stesso o, meglio, il proprio vero essere, in ognuno degli altri soggetti facenti parte della molteplicità. È il principio della compassione, di cui parla Schopenhauer, il principio che consente di considerare gli altri non già nella luce di non-io, ma in quella di “io un’altra volta”.
La volontà, di cui tanto parla Schopenhauer, è il vero centro di gravità, il solo e unico elemento metafisico esistente nell’uomo. Nel suo essere indistruttibile essa supera persino la ragione e la capacità di conoscenza le quali vanno a occupare una posizione di second’ordine, in quanto si limitano al mondo dei fenomeni. Attenzione, allora, alle esagerazioni! Diamo anche il giusto peso all’altra faccia della medaglia. Schopenhauer, infatti, non dà l’esclusiva all’egoismo, sebbene ne sottolinei la forza pervasiva. Egli va oltre e sostiene che nell’uomo non c’è soltanto egoismo. Anzi, insieme all’egoismo possono coesistere sia la malvagità sia la compassione. Sono, questi, i tre impulsi etici prevalenti nell’uomo e, in ciascun individuo, vanno a disporsi in proporzioni variabilissime.
È un modo di dire, quello qui riportato, che potrebbe avallare e giustificare la presenza della predestinazione nella vita dell’uomo. In un certo senso sì; infatti Schopenhauer non crede molto all’entusiasmo di chi si ripromette di convertire certe tendenze delinquenziali. È piuttosto più portato a sottolineare l’utilità che proviene dai tentativi di mettere “la testa a posto” in chi esibisce un comportamento deviante, perché prima o poi arrivi a capire. Ma che nessuno si illuda di sconfiggere l’egoismo o la malvagità, sarebbe come far sì che i gatti si scordassero dell’impulso che li spinge a cacciare i topi.
Schopenhauer. Molteplicità.
Ciò che è molteplice (che esiste nello spazio e nel tempo) non è cosa in sé, ma fenomeno ed esiste soltanto per la nostra coscienza limitata. Ogni molteplicità è soltanto apparente, mentre in tutti gli individui si manifesta un essere solo e il medesimo.
I Veda, le Upanishad sono Testi sanscriti di contenuto religioso-filosofico. Riguardano la dottrina panteistica che vede nel cosmo la manifestazione di un’anima universale di natura divina (brahman) con cui si identifica l’anima individuale (ātman); il ciclo della trasmigrazione delle anime, legato al concetto di karman, avrà come esito il ricongiungimento dell’ātman al brahman). Per questo ognuno deve riconoscere se stesso (in un altro se stesso) e il proprio vero essere. Il mio vero intimo essere esiste in ogni vivente, mentre l’altro diverso da me è mera apparenza, esiste nella mia rappresentazione, nata dallo spazio e dal tempo”.
Una declamazione di Schopenhauer da tenere ben presente:
“… è ben facile pensare come tutto il mondo pensa,
ma pensare come tutto il mondo penserà
fra trent’anni non è da tutti.”
Ora voglio esprimere qualche mia valutazione personale: sto pensando ad Arthur Schopenhauer in merito alla sua visione allargata della realtà: il mondo diviene e cambia; la Volontà è. Tutto quel che crediamo esista, in quanto siamo convinti cada sotto i nostri sensi, per la verità, se vogliamo dar credito a quanto riferisce Schopenhauer, non è altro che oggetto in rapporto al soggetto, una forma di intuizione; in definitiva noi non recepiamo che rappresentazioni, le quali devono inevitabilmente passare sotto il giogo del principio di ragione. E il principio di ragione rappresenta il modo costante con il quale la realtà ci appare, tanto che non potrebbe esistere alcunché di materiale oltre i limiti della rappresentazione del soggetto.
Dunque ognuno di noi descrive e dipinge un modo di essere del mondo, è scienziato e artista insieme. La cosa non mi disturba affatto. Mi chiedo, tuttavia, che cosa accada in “ognuno” di noi nell’atto del conoscere, del capire, del costruire la realtà. Mi riferisco ai vari punti di vista dai quali può essere colta un’esperienza. Concretizziamo con una situazione immaginata.
Siamo allo zoo, siamo di fronte alle gabbie degli animali “feroci”. Cinque persone stanno osservando, ammirate, una tigre oltre le sbarre. La persona A sta vivendo una certa esperienza che le altre quattro persone non possono conoscere, neppure qualora fosse loro concesso di vedere, dentro il cervello di A, i processi mentali e le rappresentazioni che vi si stanno attivando. Sentire di avere un’esperienza è qualcosa di interamente unico, incomunicabile, anche se tutte le cinque persone possono supporre di provare una sensazione equiparabile a un amalgama di meraviglia/stupore/timore. Posto che si tratti soltanto di stupore, tutte le cinque persone vedono e sentono la stessa cosa, in quello stesso momento, oppure hanno imparato a vedere e a sentire una condivisione? In altre parole, per riprendere il filone di poco fa, costruiscono un modo d’essere della realtà o costruiscono cinque diversi modi d’essere di quella realtà? Se scorgo, e così avviene per i miei quattro compagni, una macchia rossa su una zampa della tigre sono del tutto certo che gli altri vedano il rosso come lo vedo io?
Sì, perché hanno tutti le medesime reazioni alla vista del rosso. Di fronte a un semaforo, per esempio, sanno che significa STOP. Già, ma non potrebbe darsi il caso che ognuno di noi costruisca un proprio modo di rappresentare l’idea di “rosso”, un modo insondabile e intrasferibile? Il mondo in cui vivo è quel mondo che io sto continuamente edificando e non è detto che sia costruito allo stesso modo in cui lo costruiscono altre persone. Nel caso del rosso possiamo essere sicuri di non andare a vuoto se affermiamo che c’è una particolare lunghezza d’onda nella banda dei colori, che è condivisa da tutti, pare evidente. Da tutti… sì. Ma questa condivisione sulla realtà “lunghezza d’onda” significa che altri stanno, in quel momento, proprio vedendo il “mio” vedere rosso?
Al di là della natura umana esistono possibilità polimorfe nel riconoscere i colori. Molti animali pare percepiscano i colori in modo alquanto dissimile da noi. Le api, ad esempio, distinguono con precisione una ridotta gamma di colori; per tutti gli altri percepiscono qualcosa di confuso, come si presenterebbe ai nostri occhi una mistura di tinte tendente al grigio.
Riduciamo questi fenomeni all’atto cosciente del conoscere, e poniamo un’ipotesi. Se la mia coscienza potesse vagare fuori di me e partecipare intimamente delle esperienze di un’altra persona come mi si presenterebbe la situazione? Facendo uso non del mio proprio, ma di quel cervello vedrei ancora la tigre come la vedo ora? Non v’è dubbio che siamo tutti concordi nell’ammettere che la tigre ha la testa a un’estremità e la coda all’altra, che ha quattro zampe e queste stanno di norma sotto il corpo. Ma le coordinate che chiamiamo “estremità”, “quattro”, “sotto” e così via stanno anche a significare che tutti intendiamo “oggettivamente”, nel far ricorso alla loro denominazione, la stessa cosa? La parola “largo” in spagnolo si riferisce a un percorso e assume il significato che per noi ha la parola “lungo”. Ma, nonostante la variabilità interlinguistica del significato che uno stesso termine può recare, tutti, spagnoli e italiani conoscono la differenza che passa fra il guidare su una carreggiata larga e il guidare su una stretta; tutti conoscono la sensazione di un tempo cronologico che appare lungo o breve, al di là della referenza semantica legata alla terminologia. Il mondo, dunque, è quello che io vedo e che io, nel momento in cui vedo, credo di condividere in un insieme di rappresentazioni con gli altri? Oppure siamo io e gli altri tutti insieme che proiettiamo rappresentazioni soggettive e, in quanto tali, originali e differenti? Potrebbe essere un modo per creare unità di conoscenza e unità del sé. Cioè, noi proiettiamo rappresentazioni e poi ci riconosciamo in esse, diamo loro un nome e una referenza oggettiva soggettivante. Con “referenza” intendo dire che ognuno di noi fa accompagnare la propria rappresentazione a un oggetto illusorio che ha creato nell’oceano rappresentazionale mentale. Tutto questo perché ci spinge con urgenza il bisogno di avere riferimenti, di orientarci nel cammin di nostra vita. E tutto questo come atto creativo di oggetti che non hanno realtà oggettiva, che non esistono come “cose” là nel mondo.
Creiamo il mondo… o modi di essere, o quel che sia, non ha grande importanza. Creiamo il mondo, dunque, ma perché dobbiamo crearlo? Non potrebbe essere altrimenti? Forse non ci è d’avanzo il mondo delle nostre rappresentazioni, di quei noumeni o cose in sé che Kant reputava irraggiungibili e che per Schopenhauer possono essere colti soltanto con un grande sforzo di introspezione? Dobbiamo ammettere che abbiamo in ogni caso bisogno di qualcosa da poter considerare e collocare fuori di noi, qualcosa che siamo riusciti a materializzare, a dimensionare, a catalogare, a oggettivare per poterci orientare nel nostro cammino? Il noumeno, la cosa in sé, in quanto impalpabile, ci terrorizza? Perché? Abbiamo bisogno di un mondo illusorio… la cacciata dall’Eden? Dunque la rappresentazione che io mi formo della tigre può essere soltanto la mia rappresentazione e, in quanto tale, unica, improponibile, inesprimibile, inconoscibile. Anzi, mi verrebbe a dire, se su sei miliardi di persone una soltanto possedesse la mia identica rappresentazione della tigre, se le due rappresentazioni, la sua e la mia, fossero perfettamente sovrapponibili, io e quella persona staremmo creando lo stesso mondo nello stesso istante. Dovremmo allora anche coincidere come entità creatrici. O, più semplicemente, questo caso non si verifica mai: ogni rappresentazione rimane particolare e inconfondibile, come le impronte digitali o come il codice QR. Quella che io chiamo coda, all’opposto della testa, di quel tale colore che ha, può rivestirsi di tutt’altra referenza spaziale, cromatica, morfologica per un’altra persona. Questa vede la tigre, ma la vede in quanto dà forma a una propria rappresentazione che può essere qualcosa di completamente estraneo all’essenza della rappresentazione che a mia volta io ho creato. Siamo come due ciechi nati che, avendo a turno sfiorato con i polpastrelli della mano il viso incantevole di una bellissima ragazza, ora danno un’immagine a quel volto, un’immagine che certamente non ne sarà la fotocopia, ma che sarà il prodotto di una costruzione interamente soggettiva. Entrambi sono in accordo nel creare una cosa vestita di bellezza, mentre ognuno dipingerà di bellezza un volto diverso. Forse ciò che non muta, ed è comune a entrambi, risiede proprio nel concetto, nel senso di “bellezza” senza volto alcuno, con tutti i requisiti dell’idea in assoluto. Per noi si verifica qualcosa di affine. Semplicemente concordiamo, condividiamo su una traccia simbolica, senza darcene ragione, attorno alla equireferenzialità delle nostre diverse rappresentazioni. Non soltanto, ma questo processo di adeguamento si svolge altresì per quanto riguarda le nostre rappresentazioni non esclusivamente figurali, ma anche emozionali, reattive, interattive.
Immagine di copertina tratta da Skuola.net.