L’argomento nel quale vado a inoltrarmi riveste un aspetto cruciale nell’evoluzione occorse nel primo grande Conflitto mondiale per noi Italiani che avevamo dichiarato guerra all’Austria-Ungheria e credevamo di arrivare fino alla fine nel giro di breve tempo, quasi una passeggiata. Sto accennando alle occasioni di successo sul fronte, che perdemmo per una serie di inspiegabili motivi.
Fritz Weber in Guerra sulle Alpi (1915-1917) (Mursia, Milano 1978) sostiene una versione dei fatti in chiave probabilistica, trattando della Spedizione austriaca di Primavera sull’Altipiano di Asiago e cita il Tirolo nel ruolo di perenne minaccia alle operazioni militari preparate da Cadorna. È altresì convinto che con un solo deciso attacco sferrato dalle forze italiane nel primo periodo di guerra fra Italia e Austria, avrebbe aperto all’Esercito italiano la via del successo. Cosa che non accadde e che condizionò il proseguimento della lotta con 11 battaglie sull’Isonzo, che costarono immani sacrifici senza che quella minaccia fosse stata messa a tacere. Così accadde al Col di Lana che dominava il traffico tra i passi del Pordoi e del Falzarego e che fu attaccato l’8 giugno ma poi, dopo questa possente esibizione dell’artiglieria italiana trascorse una settimana intera di quasi assoluto silenzio.

Il successo, aggiunge Weber, che due o tre settimane prima avrebbe arriso alle formazioni italiane se soltanto avessero organizzato un attacco improvviso contro la fascia difensiva austriaca, invero assai debole, sfuggì dalle mani dei nostri generali. I contingenti italiani godevano di una netta superiorità su quelli austriaci, sia per disponibilità di reparti armati sia per dotazione di materiale bellico. Weber intravede due fattori di disturbo relativi all’incapacità di ottenere un successo per così dire già a portata di mano: uno risiede nel metodo tattico imposto da Cadorna, informato a massicci attacchi frontali che ottenevano il facile esito di dare in pasto alle mitragliatrici nemiche un numero smisurato di vite umane; il secondo risiedeva nel comportamento di attesa, di indeterminazione con il quale si muovevano i generali italiani. Osservò a proposito il generale Emilio Faldella: “Non soltanto il generale Brusati aveva messo la sua Armata nelle peggiori condizioni per resistere ad un’offensiva, ma… dimostrò l’intenzione di mettere agli ordini del generale Zoppi anche il XVIII corpo (generale Etna) in costituzione in Valsugana, scaricando così sul comandante del V corpo tutta la responsabilità della condotta dell’ormai prossima battaglia”.
Uno fra i tenti esempi di spreco di opportunità ci perviene dalla lotta per il possesso del Monte Peralba allorquando il 7 e l’8 agosto 1915 occorsero addirittura 4 compagnie di Alpini e tanta fatica per scalare i versanti sud e sudest in una rischiosa azione di conquista, quando invece nei primi giorni del conflitto l’azione si sarebbe potuta portare a buon termine addirittura senza colpo ferire.
Una importante occasione di successo che sfumò fra le mani delle nostre forze fu quella della penetrazione in Carinzia e della presa di possesso del centro di Villach, dove si sarebbe potuto mettere le mani sul più importante nodo ferroviario delle Alpi meridionali e si sarebbe potuta creare una definitiva interruzione sul prezioso collegamento Maribor-Fortezza. La lentezza e il temporeggiamento dei nostri generali lasciò agli Austriaci tutto il tempo per poter fortificare e potenziare le posizioni di confine creando così un bastione impenetrabile nel quale si sarebbero scontrati i reparti italiani in una sterile e dolorosa avanzata.
Lorenzo Del Boca (Maledetta guerra, Piemme, Milano 2015) dipinge una panoramica assai significativa di qual era la situazione al fronte e delle occasioni sciupate dalle formazioni italiane di attacco. Se gli Italiani avessero deciso tempestivamente di portarsi in territorio austriaco, nei primi giorni del conflitto avrebbero trovato una via facilmente praticabile perché assai ridotte erano le difese austriache sulla linea di confine che interessava il Friuli e il Trentino. Era il tempo in cui l’Esercito austro-ungarico si trovava fortemente impegnato contro i Russi e i Serbi, e certamente non poteva più di tanto guarnire le frontiere con l’Italia.

Ancora nei giorni 4 e 5 giugno 1915 il generale Nava, al comando della 4a Armata, si limitava a studiare il modo più efficace per rendere inattaccabili le proprie posizioni. Avrebbe dovuto agire diversamente, ma qui giunge a proposito una osservazione di Del Boca: “Non era il coraggio degli uomini che mancava. A difettare era l’intelligenza dei comandanti superiori”. E allora succedeva che si prolungassero insensatamente i tempi richiesti per schierare i primi reparti sulla linea di confine.
Altrove, in ambito di “Zona Carnia” (XII corpo d’Armata), operava il generale Clemente Lequio il quale era pronto per inoltrarsi verso il valico di Tarvisio, ma per far questo avrebbe dovuto contrastare gli sbarramenti opposti dai forti di Malborghetto e del Predil. La cosa, però, dovette restare nelle pure intenzioni a causa dell’assenza, nelle dotazioni del generale Lequio, di bocche da fuoco. Quando i primi pezzi d’artiglieria arrivarono sul luogo, la situazione era ormai andata fuori tempo massimo ed erano svanite le condizioni per approfittare di un efficace effetto sorpresa.
Nella piana di Caporetto era giunto il generale Pietro Frugoni, ma vi si stabilì senza pensare di procedere nell’avanzata. Per altro verso si constatò che al generale Di Robilant si era presentato frontalmente un terreno sgombro da difese austriache, ma egli non seppe approfittare dell’occasione per occuparlo, anzi lasciò agli avversari la stessa opportunità che egli stesso aveva scartato. Cosicché in men che non si dica la zona venne riempita dagli schieramenti nemici.
Sul basso Isonzo il generale Pirozzi aveva ricevuto l’ordine di schierare la 1a divisione di Cavalleria a presidio dei ponti di Pieris, ma temporeggiò a tal punto che, quando finalmente gli riuscì di abbracciare una decisione adeguata alla circostanza, si avvide che i ponti succitati erano stati distrutti.
In tutto questo, alimentato da una atavica carenza nell’assumere decisioni importanti, non mancavano neppure risvolti indesiderabili a livello di alti comandi, come dire disubbidienza agli ordini superiori. Vedi in primis Cadorna le cui disposizioni venivano spesso ignorate o travisate – oppure una serpeggiante diffidenza reciproca circolante nei rapporti fra ufficiali superiori e generali e la scarsa stima reciproca coltivata fra i più. Era un po’ come se ciascuno dei condottieri badasse a fare il proprio dovere senza calarsi in problemi insormontabili o in situazioni di improbabile buon esito e, per quanto riguarda i gradi più alti, come se ognuno volesse singolarmente vincere la guerra con le proprie capacità e con la propria iniziativa, senza badare a una più doverosa rete di collegamenti fra i quadri e i reparti. Da questo instaurarsi di comportamenti invero men che disciplinati prendevano origine fatti concreti che concorsero a generare una massa di perdite umane e di materiali che si sarebbe potuta evitare. Parliamo allora di perdite.
Perdite nella Grande Guerra. Tante le cause…
La saggistica storiografica ha indagato e descritto a lungo sulle cause che hanno portato alla disfatta di Caporetto nel 1917. Qui cercherò di approfondire, per quanto mi è possibile, le cause che si rifanno al rapporto fra ufficiali e sottoposti, soprattutto chiamando in causa coloro che furono i primi responsabili delle decisioni da assumere sul campo di battaglia. Inizierò con una panoramica generale, citando anche dati ricavati da una serie di Autori di fama riconosciuta per mettere a nudo, in un secondo tempo, in quali risvolti della conduzione bellica si annidassero le cause di insuccesso che si ripercossero interamente sui Combattenti, sulle loro famiglie e persino sulla popolazione che con la guerra non avrebbe avuto alcunché a che vedere. Le perdite nel corso della prima Guerra Mondiale furono ingenti, dall’una e dall’altra parte delle forze contrapposte. Ne abbiamo già osservato una triste rassegna in puntate precedenti della Storia della Grande Guerra, vedi la guerra sugli Altipiani, vedi l’Ortigara, vedi Caporetto per solo portare alcuni determinanti esempi fra i tanti. In questa sede mi limiterò a prendere in esame le testimonianze riportate da una serie di Autori esperti delle vicende belliche relative al primo Conflitto. Vediamo alcuni di questi risvolti, in modo da comprendere quale sia stato il volume dei disastri subiti e delle perdite in uomini e materiali.

Un salto indietro nel secolo XIX: con la sconfitta subita in Africa Orientale dal generale Baratieri a inizio marzo, perdemmo 4.600 nostri soldati. Racconta il gen. Tullio Vidulich (Storia degli Alpini, Ed. Panorama, Trento 2002) che erano partiti per conquistare l’Abissinia 945 Alpini e ne tornarono in Patria appena 95. Sulla condotta delle estrapolazioni veniamo a scoprire una triste analogia con il conflitto in Russia dove, l’anno 1943, tornarono pure in quella circostanza un Alpino su dieci della divisione Cuneense. È ancora Vidulich a rammentare le perdite nel corso della Strafexpedition dal 15 maggio al 31 luglio 1916, ammontanti a quasi 150 mila uomini dall’Adige al Brenta, mentre per gli Austriaci le perdite toccarono la soglia di circa 82 mila uomini.
Paolo Volpato e Paolo Pozzato (Guerra sulle Tre Cime e Dolomiti di Sesto, Itinera Progetti, Bassano 2015) raccontano di scontri avvenuti in zona “Piani di Cengia” che si apre a Est delle Lavaredo e a Ovest della Cima Dodici, fra gli oltre 6.400 nostri Combattenti e le truppe avversarie nell’agosto del 1915: la battaglia si era protratta fino al 19 agosto e aveva provocato, nel 56° reggimento della brigata Marche, la perdita di 415 uomini. Altre fonti riportano perdite per il primo anno di guerra attestandole nel numero di 66 mila morti e di circa 180.400 feriti.
Corrente il secondo anno della Grande Guerra le lotte protratte sul Pasubio dal 26 al 30 giugno 1916 decretarono la perdita di oltre 1.300 Combattenti. Il 24 luglio 1916, dopo 70 giorni di lotte durissime sull’Altopiano di Asiago, si contarono numerose le perdite: oltre 147 mila uomini tra morti, feriti e dispersi, mentre per gli Austriaci le perdite furono quasi 83 mila (da Giorgio Seccia, Monte Zebio, Nordpress Edizioni, Chiari, 2007).
Restiamo in tema di Strafexpedition: leggiamo in Pio Rossi (La Prima Guerra Mondiale, Ed. Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2014) la descrizione fatta dal gen. Karl Schneller circa l’entità del bottino ricavato al 1° giugno 1916: 31.600 prigionieri, oltre a ingente materiale bellico. Alberto Di Gilio (L’offensiva di primavera, Gino Rossato Ed., Novale, 2015) si riporta all’azione sviluppata tra il 2 e l’8 giugno 1916 allorché i soli battaglioni alpini persero 1.050 soldati. Il 3 giugno dello stesso anno i Granatieri di Sardegna del gen. Pennella persero sul Cengio 4.615 soldati su un totale di circa 6 mila. Per tutta la difesa dell’Altopiano, dal 15 maggio al 31 luglio 1916 le nostre perdite furono di quasi 147.800 uomini. Il 19 maggio era stata decimata letteralmente la 35a divisione sistemata a sbarramento dell’avanzata tentata dal XX corpo d’Armata austriaco. Il reparto quasi interamente sacrificato fu il batt. Alpini Vicenza; in quella che fu lotta per lo sfondamento nei pressi di Folgarìa il Vicenza, forte di un migliaio di uomini, tornò con appena 150-200 Alpini. Sugli Altipiani circa 8 mila soldati furono sorpresi dai gas diffusi dalle linee nemiche; i superstiti tornavano ai posti di medicazione in condizioni disperate.

Edoardo Pittalis (La guerra di Giovanni. L’Italia al fronte: 1915-1918, Ed. Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2006) cita le perdite di 143 mila uomini nella battaglia degli Altipiani, di 86 mila uomini per raggiungere Gorizia l’8 agosto 1916. Riporta un bilancio drammatico, quello delle 246.500 perdite nel primo anno della guerra e delle 404.500 nel secondo anno.
Nell’ultimo anno di guerra le perdite, sulla zona che parte dal Montello e si prolunga sino al mare, furono di oltre 85.600 uomini di cui più di 6 mila morti nel nostro Esercito e di circa 142 mila uomini con oltre 11.600 morti per gli Austriaci. Il 30 giugno 1917 nella sola 52a divisione, che annoverava al suo interno i battaglioni alpini, si verificarono più di 23 mila perdite, e altre subite sull’Ortigara dove, dall’ottobre al novembre 1917, le perdite salirono da 6.700 a quasi 24.000. Nella Battaglia di Vittorio Veneto, ottobre-novembre 1918, perdemmo circa 36.500 uomini. Nelle stime di Diego Vaschetto (Sui sentieri della Grande Guerra, Edizioni del Capricorno, Torino) il conflitto armato ci era costato complessivamente, in uomini, la cifra di 680 mila morti, di un milione di feriti, di oltre 500 mila prigionieri su un totale di 5.250.000 soldati mobilitati. Di questi, il 95% dei Caduti erano soldati di Fanteria.
La triste rassegna riguardante le perdite subite qui riportata, sicuramente incompleta nell’insieme, ma almeno abbastanza seppur dolorosamente rappresentativa, avvia il pensiero in un ambito parallelo, quello dei motivi che sono stati all’origine di così gravi e numerosi sacrifici.
Il gen. Angelo Gatti (Caporetto. Diario di Guerra, Il Mulino, Bologna 1997), nel considerare ciò che avvenne sul San Gabriele nel solo 7 settembre 1917, dopo dodici giorni di ininterrotto combattimento, rende noto lo sciupio fatto ai danni di cinque nostre brigate. Per quanto riguarda le munizioni furono consumati 360.000 colpi di medio e grosso calibro; nell’attesa, fu procurata una stanchezza cronica a tutto l’Esercito e, insieme, si causò intenso logoramento a 30 mila uomini. La domanda che Gatti si pone, comprensiva della risposta, è la seguente: “Per quale risultato? Nullo”. Si chiede ancora, il generale, se l’intenzione del Comando Supremo fosse stata quella di voler distruggere addirittura tedeschi e austriaci, cosa da non pensarci neppure. La decisione più saggia da abbracciare sarebbe invece stata quella di smetterla di immolare il capitale uomini e sperperare felicità, ricchezze, per una conclusione che non si vedeva. E, allora, deduzione terribile ma necessaria, cominciare a vedere di trattare la pace, poiché con la guerra non si risolve nulla.
Detto questo torniamo di getto ad analizzare i motivi che alla condotta delle azioni di guerra sono stati di palese nocumento. Stiamo dunque parlando dei nostri soldati che venivano usati come merce dirompente da lanciare senza alcuna precauzione contro le armi ben piazzate del nemico. Ufficiali superiori, vale a dire, che impartivano ordini scriteriati, e giovani in divisa che con valore e rassegnazione affrontavano una morte annunciata. Se ne accorsero persino gli Austriaci i quali, meravigliati dalla fierezza e dalla caparbietà con le quali i nostri proseguivano a sferrare attacchi su attacchi, in condizioni impossibili, arrivarono ad affermare che non sarebbero stati più in grado di trattenere i soldati italiani qualora questi avessero imparato ad attaccare ovvero qualora i loro ufficiali avessero aggiornato la conoscenza delle tattiche più idonee per conseguire risultati remunerativi. Alcuni fra i nostri comandanti di reparto, che credevano fermamente nel proprio dovere e che si erano convintamente investiti della responsabilità verso i propri sottoposti, dopo essere stati testimoni di stragi inutili quanto evitabili non ressero al dolore, al supposto disonore e al senso di colpa da cui furono oppressi e arrivarono al punto di togliersi la vita. Ne troviamo alcuni esempi nella saggistica dedicata.

Guido Alliney (Mrzli Vrh. Una montagna in guerra, Nordpress Ed., Chiari 2000) accenna al suicidio del maggiore Luigi Garrino (3 luglio 1915) dopo aver ordinato a una compagnia di Alpini un assalto che risultò rovinoso e che lasciò inermi sul campo più di 300 uomini insieme al loro capitano Giovanni Battista Ricci. Si era trattato di un tentativo per conquistare il Monte Rosso, mosso nella giornata del 3 luglio 1915 per opera del battaglione Intra. Fu il massacro subìto, causa dello sfacelo della compagnia di Alpini, a gettare nella prostrazione il magg. Garrino e a sconvolgere irrimediabilmente la sua mente. Un altro generale, Giovanni Villani, comandante la 19a divisione, in seguito al disastro occorso alle Brigate Taro e Spezia nell’immediato dopo-Caporetto, non resse al senso di catastrofe che lo assalì e il 25 ottobre 1917 si suicidò. Le due brigate del gen. Villani avevano il compito di salvaguardare un fronte della lunghezza di oltre 12 chilometri, per la cui difesa sarebbero occorse forze almeno tre volte superiori. Del gen. Gustavo Rubin de Cervin parla Gerardo Unia (Dalla Bainsizza a Caporetto, L’Arciere, Dronero 2008). Rubin era comandante della 13a divisione e aveva lasciato il proprio posto di comando dopo ver ordinato il ripiegamento al proprio reparto. Anch’egli, dopo aver cercato invano e senza esito di ricongiungersi alla propria divisione, preso dalla disperazione ricorse al suicidio.
In alti casi si verificò un netto abbandono perpetrato da alcuni comandanti di reparto nei confronti dei loro sottoposti, cosa che lasciò interi battaglioni allo sbando, senza comando alcuno, come si verificò su larga scala con la disfatta di Caporetto. Successe sul Mrzli e sullo Sleme, dove i comandanti delle brigate Alessandria e Caltanissetta pensarono bene, di fronte al disastro che andava profilandosi all’orizzonte, di darsela a gambe piantando in asso i propri reparti nel bel mezzo delle difficoltà. Emblematico, a proposito, il basso esempio dato dal gen. Farisoglio che se ne andò dalle postazioni del Monte Nero per portarsi in salvo, abbandonando così l’intera sua 43a divisione che riuscì comunque a resistere ancora per un giorno intero all’avanzata austro-tedesca. Capitò male tuttavia al gen. Farisoglio il quale, nell’atto di raggiungere Caporetto, cadde prigioniero nelle mani dei Tedeschi. Fu il primo generale italiano a essere fatto prigioniero.
Immagine di copertina tratta da Trentino Cultura