Poteva essere una Caporetto

L’episodio che va a seguire rientra nella infinita serie di atti di resistenza e di eroismo che fecero onore ai nostri Combattenti. Si riferisce tuttavia a un fatto della prima Guerra Mondiale poco conosciuto, molto probabilmente per via della piccola estensione geografica interessata dagli avvenimenti e per la breve durata che venne circoscritta a un giorno soltanto. Eppure, a modo di vedere di chi scrive, esso segnò fortemente le sorti del conflitto sui fronti italo austriaci a partire già dai primi mesi di guerra. Non è azzardato, viste le valenze tattico-strategiche che ne contraddistinsero lo sviluppo, accostarlo ad altri due episodi che videro le nostre truppe in sforzi difensivi di immane prova: la Battaglia degli Altipiani o Strafexpedition iniziata il 15 maggio 1916 e la Battaglia del Solstizio a partire dal 15 giugno 1918.

Siamo in Carnia, poco più a est del Passo di Monte Croce Carnico e delle cime contese del Pal Piccolo, del Pal Grande e del Freikofel. Era la zona di guerra dalla quale si apriva una dorsale dominata dal monte Lodìn e dalla cima Val di Puartis sulla testata dell’alta Valle d’Incarojo, Comune di Paularo. Qui erano appostati a presidio della zona frontaliera due battaglioni alpini, il Saluzzo e il Val Varaita insieme a un battaglione di Bersaglieri: più precisamente, la 21a compagnia del battaglione Saluzzo, la 223a del battaglione Val Varaita (entrambe del 2° regg. Alpini) e l’8a del XXXV battaglione 10° bisBersaglieri.

Quella che stiamo per affrontare è una vicenda che, per i caratteri peculiari di ordine strategico, avrebbe potuto giocare, come poi avvenne con forte rischio, un ruolo di scacchiere determinante per le sorti della guerra già nelle sue fasi iniziali.

Alla base della cima Val di Puartis, quota 1579, poco a ovest del Passo Melèdis, era appostata la 21a compagnia del battaglione Saluzzo, comandata dal capitano saluzzese Mario Musso. I Bersaglieri e il grosso del battaglione Val Varaita occupavano il tratto occidentale di Val di Puartis ossia la massicciata del monte Lodìn sulla cima del quale erano state inviate tre squadre di Alpini del Val Varaita agli ordini di un Sottotenente.

Furono questi due reparti, quello del capitano Musso e quello del Lodìn, con la loro accanita resistenza, a frapporre seri ostacoli ai tentativi di penetrazione perpetrati dalle truppe austroungariche in quel fatidico martedì 14 settembre 1915.

Per tutto il successivo 15 settembre si svilupparono attacchi delle artiglierie austriache contro il nostro tratto di fronte a est del Passo di Monte Croce Carnico. Specialmente accaniti e intensi erano i tiri diretti contro le posizioni comprese tra il Pal Piccolo e la selletta Cuelat (Freikofel). Contemporaneamente, irruzioni di fanteria austroungarica venivano sferrate ora contro questo, ora contro quel tratto della nostra difesa. Appariva chiaro che i nostri avversari avessero pianificato qualcosa di strategicamente importante, ma non nella zona fin qui descritta. Quei tentativi di intrusione nelle nostre linee erano probabilmente soltanto azioni dimostrative e diversive che avevano lo scopo di trattenerci sul posto a parare gli attacchi e impedirci dunque ogni spostamento di riserve su altri tratti del fronte dove più credibilmente si stava preparando la strada per una vera e propria invasione in territorio italiano. L’avversario, infatti, già dal giorno precedente si era mosso in forze alla testata del Chiarsò ed era riuscito a impossessarsi del nostro saliente del Monte Lodìn, catturando circa 200 prigionieri.

Gli Austriaci avevano effettuato un fortunoso avanzamento spingendo la loro XII brigata da Montagna, tra una serie e l’altra di attacchi di sorpresa e aspri scontri a fuoco, lungo la linea di frontiera. Con una diversione strategica su quei siti le armi austriache avrebbero avuto buon agio nell’esercitare un facile controllo che, da tale linea, poteva essere esteso su tutta la conca di Paularo e che avrebbe consentito di aprire la via alle truppe imperiali per una successiva infiltrazione nella vallata sottostante.

Lo scenario descritto divenne teatro delle eroiche imprese della 21acompagnia alpina del capitano Musso, subito impegnata in una mischia furiosa su tutto il tracciato delle proprie trincee. Il fatto che gli Austriaci fossero infine riusciti, con forze preponderanti, a occupare la dorsale alpina, che avessero stabilito posizioni in punti capaci di dominare l’intera testata del torrente Chiarsò traboccante nel Canale d’Incarojo, che la sorte degli eventi avesse loro arriso consentendo la posa in linea di potenti rafforzamenti, tutto questo insieme di eventi faceva sì che ogni azione offensiva lanciata dai nostri Alpini e Bersaglieri si trovasse a dover superare immense difficoltà.

Il capitano Musso già presagiva quel che stava per accadere, messo in allarme dai ripetuti tentativi di penetrazione perpetrati da grosse pattuglie austriache.

Quelle che potevano sembrare scaramucce limitate a un territorio ristretto lasciarono ben presto il posto a preoccupazioni più gravi.

Se gli Austriaci fossero riusciti a transitare per il Passo Promosio (Kronhof Törl, m 1770) avrebbero avuto facile accesso a una rapida discesa verso Casera Malpasso (m 1619), al valico di Sella Cercevesa verso Casera Cercevesa, Casera Fontanafredda bassa (m 1541), poi breve risalita verso Casera Dimòn (m 1612) sino al M. Culèt (m 1591) e alla Csta Cravostes (m 1662) a 2500 metri circa in linea d’aria ovest del Cul di Creta. Certamente da qui avrebbero potuto facilmente battere le nostre postazioni di mitragliatrici e di fucileria sul Cul di Creta e la Stua di Ramàz, ma per loro sarebbe stato anche abbastanza facile invadere il versante carnico verso nord-est attraverso la “Malelastre” sino a raggiungere la Stua di Ramàz oppure verso sud-ovest su sentieri e strade che ancor oggi discendono alle Casere Montute, Cuesta Robbia, Valdaier e, di seguito, attraverso la Forcella Liùs e la Forcella Duròn raggiungere Paularo. Da qui la prosecuzione verso la pianura avrebbe con forti probabilità creato un disorientamento crescente nelle nostre linee, e di questo i nostri avversari erano ben consapevoli. Attraversato il Canale d’Incarojo e il Canale di San Pietro che proviene dal Passo di Monte Croce Carnico avrebbero potuto incontrare facili occasioni per congiungersi con le truppe affini in discesa da Tarvisio-Coccau rafforzando una ulteriore irruzione verso Gemona del Friuli, Osoppo, San Daniele e oltre il Tagliamento. Una sinergia di sforzi vista in questi termini avrebbe costituito una potenza d’urto quasi irresistibile.

Gli Austriaci, sì, contavano su un numero inferiore di battaglioni in prima e in seconda linea, e anche in riserva; erano tuttavia in grado di combattere in condizioni che li favorivano, come la mobilitazione di reparti già temprati al fuoco e la puntuale occupazione di posizioni forti, dominanti, arricchite quindi di numerose difese accessorie. Sul fronte carnico, infatti, avevano iniziato a sferrare, già all’inizio di giugno del 1915, attacchi locali e verso l’Isonzo si erano garantiti il possesso delle teste di ponte di Tolmino e di Gorizia, mentre le nostre formazioni non avevano ancora raggiunto una linea adeguata e stabile per organizzare la difesa. A conferma della gravità della situazione venutasi a creare sulla linea frontaliera Lodìn-Puartis-Meledis alla testata del Canale di Incarojo furono i copiosi provvedimenti assunti dal nostro Stato Maggiore a fatto compiuto, tardivi dunque e pressoché irrilevanti nei tentativi di sanare la situazione.

Sta di fatto che, a dispetto della critica storiografica che sull’avvenimento del 14 settembre 1915 in Alta Carnia non pose mai l’accento che l’evento avrebbe meritato per i suoi risvolti sugli sviluppi successivi della situazione di conflitto, furono due eroici Ufficiali del 2° Reggimento Alpini, con un pugno di valorosi difensori, a tener testa per lunghe ore alle incalzanti offese nemiche dando così la possibilità e il tempo, alle forze ripiegate, di organizzarsi per disporre un baluardo insormontabile al tentativo di infiltrazione nemica in territorio italiano sino anche a vanificarne gli esiti che si stavano profilando in forma minacciosa e devastante.

I due Ufficiali del 2° Alpini si batterono con eccezionale valore, a oltranza, eroici nello scongiurare il pericolo che si avverasse una Caporetto in anteprima. Una Caporetto in dimensioni all’apparenza minime ma tali da porre il rischio di aprire a un’invasione lungo il Canale d’Incarojo sino alla pianura, con gli sviluppi che ne sarebbero potuti seguire verso esiti nefasti non impossibili a immaginarsi. La particolare forma di coraggio e dedizione dimostrata dai nostri uomini sulla dorsale di confine, rimasti soli dopo il ripiegamento del grosso delle truppe a presidio della frontiera e isolati dal resto del più grande teatro di guerra, meriterebbe un riconoscimento individuale, sicuramente per i comandanti dei due nuclei di difensori, di cui si ha soltanto la Medaglia d’Oro conferita al Cap. Musso, e per i Caduti nel confronto armato, dei quali si conoscono i nomi.

Una breve puntualizzazione sul concetto accennato della piccola Caporetto. È necessaria giacché l’episodio della difesa della linea Lodìn – Val di Puartis – Meledis del 14 settembre 1915 non può definirsi come caso isolato perché limitato nelle dimensioni o privo di valenze tattico-strategiche di vasta portata, ma si va piuttosto a inserire in uno scenario possibilistico dalla cornice molto più ampia, costituendone l’aspetto determinante per la criticità del momento. Come avrebbero dimostrato i fatti del maggio-luglio 1916 con la terribile Strafexpedition sferrata dalle truppe del Generale Conrad von Hötzendorf per la tentata conquista della piana vicentina, quelli più drammatici del 24 ottobre 2017 con lo sfondamento del fronte Tolmino-Caporetto e quelli risolutivi della Battaglia del Solstizio del giugno 1918, gli Austriaci non digerirono mai la defezione consumata dal loro alleato dei precedenti 33 anni. Per loro divenne un imperativo quasi ossessionante la determinazione di distruggere l’Esercito italiano, come risposta punitiva a quello che definirono senza mezzi termini “tradimento”. Ne fu riprova, il 14 settembre 1915, la pesante serie di bombardamenti scatenati dagli Imperiali sulla linea Pal Piccolo – Freikofel – Pal Grande allo scopo di coinvolgere massicciamente le truppe italiane e impedirne l’invio in zona Lodìn a rinforzo delle nostre tre Compagnie colà impegnate in difesa. Qui, in Carnia, non c’erano i Tedeschi a violare i nostri confini, perché l’Italia non aveva ancora dichiarato guerra alla Germania, ma le forze in campo erano sicuramente soverchianti. Non sarebbe stato difficile per gli Austroungarici dare il via a un’invasione in grande stile. In questa, che fu una guerra di attacchi quasi esclusivamente frontali, la giornata del 14 settembre 1915 fu testimone della prima mossa di infiltrazione austro ungarica al di qua delle Alpi.

Sappiamo che alla data sopra riportata, 14 settembre, il capitano Mario Musso (foto a lato), nell’eroica resistenza opposta alle soverchianti forze austro ungariche in avanzata, venne ferito in modo assai grave. Riuscì comunque a mandare in salvo la propria compagnia di Alpini e rimase con pochi uomini, feriti e malridotti, a fronteggiare l’avversario. Fu fatto prigioniero e trasportato di là del confine, presso il Comando austroungarico di Straniger Alpe. Fatto oggetto di cure assidue e premurose da parte di un Ufficiale medico austriaco, dopo tre giorni di sofferenza atroce morì per la gravità delle ferite riportate in combattimento. I suoi avversari del momento, con notevole senso cavalleresco, gli tributarono gli onori per il valore riconosciutogli e parteciparono in massa agli onori funebri. Lo stesso ufficiale medico austriaco che si era incaricato di prodigare le prime cure al capitano Musso, colpito e commosso dal comportamento nobile e inflessibile mantenuto dal suo assistito, inviò una lettera, tramite la Croce Rossa Internazionale, ai familiari di lui. In essa affermava di aver constatato, sul corpo del caduto, la presenza di parecchie ferite al ventre, a fronte delle quali ogni tentativo di intervento si era dimostrato privo di efficacia. “Il 17 settembre si spegneva da prode ed è stato da noi sepolto con tutti gli onori” proseguiva l’ufficiale austriaco nella sua lettera e si incaricava, contemporaneamente, di porgere, come debito d’onore, gli ultimi saluti del morente alla madre, al fratello e alla moglie. Assicurò, ancora, l’aver partecipato ai funerali l’intero contingente di ufficiali e soldati che erano stati impegnati nei combattimenti. La missiva terminava con le parole “Gradiscano per la crudele sciagura, le condoglianze dei soldati austriaci che non intendono negare gli onori al valoroso nemico caduto”.

È a questo punto che sulla scena appare una persona di straordinaria umanità, seppure della parte così detta “nemica”. Il capitano Musso era steso su una brandina, sotto una tenda da campo. Viveva le ultime ore della propria vita e i suoi pensieri vagavano spingendosi lontano agli affetti più cari e ai suoi Alpini che era riuscito a mettere in salvo. Dolori lancinanti e una spossante debolezza dovuta alla copiosa perdita di sangue lo tormentavano annebbiando i suoi pensieri. Accanto a lui si fece innanzi un Ufficiale austriaco, con fare premuroso, cauto e rispettoso, date le condizioni dell’avversario italiano. Gli si avvicinò, sedette al suo fianco e iniziò a confortarlo proferendo alcune parole e frasi in italiano, lingua di cui aveva una buona padronanza. Il suo nome era Oscar Pfau, “primo tenente” dell’Esercito Austriaco. Per sostenere moralmente il cap. Musso iniziò con il raccontargli qualcosa di sé, perché tutti, Austriaci, Ungheresi e Italiani con il cuore amavano lasciarsi trasportare fra le consuetudini familiari che erano stati costretti ad abbandonare.

Oscar Pfau narrò con voce delicata esser nato a Fiume nel 1894. In quella città i suoi genitori, Nathan Pfau, originario di Leopoli e Flora Husserl che proveniva da Brno ed era cugina del filosofo Edmund Husserl, erano proprietari della distilleria PFAU & CO, dal 1976.

Mario Musso lo ascoltava con attenzione e un sentimento di simpatia, di tenerezza, quasi di amicizia non aveva difficoltà a farsi breccia nel suo cuore. (Nelle foto, due ritratti di Oscar Pfau)

L’Ufficiale austriaco, accortosi che Mario Musso gli prestava attenzione e pareva sentirsi un po’ sollevato al suo dire, continuò a parlargli un po’ di sé: Dopo gli studi classici presso il Liceo Ginnasio di Fiume, in lingua italiana e ungherese, aveva frequentato il politecnico di Graz. Dovette però interrompere gli studi per andare al fronte col grado di primo tenente. Durante la guerra era stato comandato a cambiare più volte destinazione. Fu mandato in Russia dove soffrì la fame, in Trentino, in Carnia e in altri luoghi ancora. Aveva frattanto contratto la malaria e alla fine della guerra si trovava, in convalescenza, presso sua zia a Budapest.

La sconfitta dell’Austria, che fu la vittoria per l’Italia, lo portò ad abbandonare gli studi di ingegneria per diplomarsi all’Accademia del commercio di Vienna.

A Vienna ebbe anche l’occasione di conoscere Sigmund Freud, il padre della Psicoanalisi.

Venne poi a Milano, dove sposò la Signora Teresa Busseti originaria dell’Oltrepò Pavese e aprì uno studio di importazione ed esportazione.

Chi riferisce queste testimonianze è la Sig.a Helga Pfau Collamati, figlia di Oscar e di Teresa Busseti. Ho avuto la fortuna e il piacere di conoscere la Sig.a Helga tramite comunicazioni telefoniche e corrispondenza via e-mail. Da lei ho ricevuto alcune altre notizie (con mail inviatami il 30 ottobre 2017) attorno alla personalità di suo padre la cui presenza nelle ultime ore di vita del capitano Musso manifestò tutto il valore umano che le persone dal cuore generoso riescono a esprimere anche nelle più dure situazioni conflittuali:

“Mio padre era d’animo buono e sereno, tendenzialmente allegro, nonostante tutti i problemi che aveva dovuto affrontare durante la sua vita. Parlava correntemente quattro lingue: tedesco (sua lingua madre), italiano, ungherese e francese. Le invio, come d’accordo, la fotografia di un gruppo di ufficiali austroungarici in cui mio padre Oscar Pfau si trova al centro della prima fila alla destra del comandante. Nel 1915 mio padre era un primo tenente di ventuno anni, studente di ingegneria al politecnico di Graz. Mio padre ha sempre parlato in famiglia con tanta stima e rispetto del capitano Mario Musso, che lui aveva assistito fino all’ultimo parlandogli in italiano quando era stato ferito gravemente e per cui aveva voluto la sepoltura con l’onore delle armi. 
Penso sia giusto, sia per il Capitano Musso, sia per mio padre, che si conosca anche il volto del “nemico”, che ha raccolto le ultime parole di un eroe italiano della Grande Guerra. In questo episodio traspare la reale personalità di mio Padre, che era un uomo buono e giusto, sempre benevolo con tutti, anche con quelli che durante la guerra venivano considerati “nemici”. 
Helga Pfau Collamati”.

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