Alberto Cavaciocchi era nato a Torino il 31 gennaio 1862; di fronte a sé una rapida carriera militare. Si spense a Torino il 3 maggio 1925. Partecipò alla guerra italo-turca e negli scontri in terra libica dimostrò un particolare valore combattivo, tanto da essere insignito della Croce di Ufficiale dell’Ordine Mauriziano di Savoia e di una Medaglia d’Argento al Valor Militare. Racconta Fabio Gramellini, in Storia della guerra italo-turca, che verso la fine del mese di giugno 1912 il generale Clemente Lequio e l’allora colonnello Cavaciocchi, al comando dell’11° reggimento Bersaglieri, del 60° Fanteria di due battaglioni di Granatieri e due di Ascari, riuscirono a respingere il (dichiarato) nemico dalla penisola di Macabez e a impadronirsi della posizione dominante del marabutto di Sidi-Said dopo aver fatto cedere con l’azione convergente di due colonne, il 14 luglio 1912, il marabutto di Sidi-Ali ad appena sei chilometri dall’obiettivo, aprendo la via per Zuara.

Con lo scoppio della prima Guerra mondiale fu nominato capo di Stato Maggiore della 3ª Armata, agli ordini del Duca d’Aosta. Nel mese di luglio dello stesso anno ottenne il comando della 5ª Divisione, per la difesa del settore Valtellina-Val Camonica; il 1º ottobre salì al grado di tenente generale. Tra l’aprile e il maggio 1916 procurò il consolidamento della linea italiana attraverso operazioni offensive nella zona alta dell’Adamello. Nel successivo mese di giugno ottenne il comando del XXVI Corpo d’armata e, in novembre, fu nominato comandante del IV corpo, nella 2ª Armata comandata dal generale Luigi Capello. Il 25 ottobre 1917 fu destituito in seguito alla rotta di Caporetto. La sua unità e il contiguo XXVII Corpo d’armata furono investiti in pieno dall’offensiva austro-tedesca. Il IV corpo d’Armata aveva perso gran parte dei propri effettivi nella giornata del 24 ottobre.
Il 23 ottobre 1917, proprio il giorno prima che scoppiasse la tragedia di Caporetto, il capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, gen. Luigi Cadorna, si era recato di persona sul fronte tenuto dal IV corpo d’Armata al cui comando si trovava il gen. Alberto Cavaciocchi. (La foto è tratta da Wikipedia)
Non fu una giornata felice per il comandante del IV corpo poiché, da quanto riferisce Angelo Gatti nel suo lavoro Diario di guerra, il gen. Cadorna ne ebbe un’impressione pessima. Nonostante questa prima impressione del momento, il generale Luigi Cadorna, il 2 febbraio 1918 nel corso di un colloquio con il generale Angelo Gatti, riconobbe che la sconfitta di Caporetto fu dovuta allo sfondamento effettuato dagli austro-tedeschi sul fronte tenuto dal XXVII corpo d’Armata di Badoglio, ritiratosi in grande disordine, che consentì l’aggiramento delle posizioni tenute dal IV Corpo di Cavaciocchi e alla conseguente forzosa ritirata del XXIV Corpo d’armata di Caviglia.
Nel corso dell’indagine per accertare le cause della disfatta di Caporetto, dopo una serie di inchieste interne, Cavaciocchi fu giudicato uno dei responsabili della disfatta da una apposita Commissione d’Inchiesta voluta dal Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando. Il 2 settembre 1919, assieme ad altri comandanti (Luigi Cadorna, Luigi Capello, Carlo Porro), venne collocato a riposo d’autorità. Trascorse gli ultimi anni della sua vita nel tentativo di riscattare la sua azione di comando durante la battaglia. Si spense improvvisamente nella sua casa a Torino per i postumi di un colpo apoplettico il 3 maggio 1925, lasciando incompiute due importanti opere sulla battaglia di Caporetto: Un anno al comando del IV corpo d’armata e Il IV corpo d’armata alla battaglia di Caporetto.

La bomba di Caporetto era esplosa e fra le truppe si era insinuato un pericoloso senso di disorientamento. Fu a questo punto che il Capo di Stato Maggiore assunse una decisione assai pesante nei confronti del Generale Cavaciocchi. Quest’ultimo, una mezz’ora circa prima della mezzanotte del 17 ottobre, mentre si trovava a poco più o poco meno di mezz’ora da Nimis (poco a Est di Tarcento), s’imbatté nel generale Gandolfo dal quale fu informato che il Comando Supremo gli aveva ordinato di assumere il comando del IV corpo d’Armata. Cavaciocchi, in poche parole, veniva destituito dall’incarico. A questo evento seguì una lettera di Cavaciocchi, indirizzata al gen. Porro, nella quale venivano esposti i fatti nella loro cruda realtà, a dimostrazione dell’ingiustificato provvedimento preso dal gen. Cadorna. Cavaciocchi spiegò con chiarezza di termini le dinamiche responsabili dello sfondamento della linea del IV corpo in fondo Valle Isonzo dove si era verificato l’aggiramento della 46a divisione comandata dal gen. Amadei. A creare la situazione citata erano state le truppe austro-tedesche provenienti dalla sponda sinistra dell’Isonzo, e proprio questo era il punto che richiedeva di essere presidiato dalla brigata Napoli compresa nella 19a divisione guidata dal gen. Villani nel contesto del XXVII corpo d’Armata al cui vertice era posto il generale Pietro Badoglio. Il gen. Cavaciocchi indicava con certezza l’errata dislocazione prevista per le truppe della brigata Napoli. Ciò che successe trova una spiegazione nel commento di Angelo Gatti: “Se infatti il IV corpo, con i suoi centomila uomini e 500 cannoni, era in realtà una vera e propria armata e aveva accanto il VII (gen. Bongiovanni) e il XXVII corpo (gen. Badoglio), Cadorna avrebbe avuto di che farsi delle riserve in piena efficienza e soprattutto vicine, non a 50 chilometri, per poter imbastire una seconda linea nel caso di un ipotetico sfondamento”.
Cavaciocchi fu l’unico tra i generali coinvolti nella disfatta di Caporetto a non accanirsi contro i propri soldati e non mosse contro di loro accuse di cedimento o di scarsa volontà di battersi, ma in conclusione fu l’unico a dover pagare per le conseguenze della disfatta: destituito dal comando del IV corpo d’Armata, neppure con il passare del tempo ebbe la ventura di vedere riesaminata la propria azione di comando: ne sarebbero, infatti, scaturite rivelazioni assai amare per gli alti Comandi dell’Esercito, basti pensare alla sparizione delle tredici pagine della relazione ufficiale della Commissione di Inchiesta nelle quali era descritto il comportamento del XXVII corpo d’Armata agli ordini del generale Badoglio.
Non che Cavaciocchi cercasse di nascondere le proprie responsabilità. Fece anch’egli un grosso errore, quello di lasciare libero il passaggio, quasi senza combattere, della così detta Stretta di Saga, a tutto vantaggio dell’avanzata austro-tedesca che, portatasi nella prospiciente Valle Uccea, enfatizzò la rottura del fronte per un’estensione che andava oltre la Valle del Natisone. Fu, quello, il motivo portante del cedimento per il collegamento che teneva unite la 2a Armata e la Zona Carnia.
La vicenda della difesa della Stretta di Saga poteva ripercorrere quanto successe alle Termopili molto tempo addietro, 2.500 anni, allorché gli Spartani di Leonida avevano fatto tanto da riuscire a fermare l’avanzata dei Persiani. Ma in quell’infausto 24 ottobre successe di tutto: in un caso specifico si viene a sapere che il generale Farisoglio, comandante la 43a divisione del IV corpo d’Armata, pervenutogli dal generale Cavaciocchi l’ordine di attaccare con forza, si attardò nel dubbio se dover attaccare con le riserve oppure con l’impiego dell’intero reparto. In preda a tale dubbio non trovò altra soluzione che recarsi di persona a Creda per dissipare, alla luce di ulteriori ordini, ciò che non gli era chiaro sin dal principio. La storia ebbe rapida conclusione: Farisoglio, raggiunta Caporetto, cadde nelle mani degli avversari e con questo ottenne l’ambìto primato di primo fra tutti i generali e di primo uomo della propria divisione a cadere nelle mani del nemico.

Chi parla di “prove schiaccianti” attorno al crollo del fronte tra Plezzo e Tolmino il 24 ottobre 1917 è Domenico Quirico nel suo libro Generali. Controstoria dei vertici militari che fecero e disfecero l’Italia. La linea dove si aprì la breccia a favore delle formazioni austro-tedesche il giorno di Caporetto era tenuta dal XXVII corpo d’Armata di Badoglio. Quando riuscirono ad aprirsi la strada in Valle Isonzo, i nostri avversari vedevano già avvicinarsi la sagoma di Caporetto e, sopravanzando, furono in grado di prendere alle spalle il IV corpo d’Armata di Alberto Cavaciocchi che finì davanti alla Commissione di Inchiesta e fu oggetto di condanna. Per altro verso Badoglio, per i cui ordini le batterie di artiglieria avevano taciuto, nonostante le disposizioni chiarissime e perentorie sia del capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna sia del comandante la 2a Armata, Luigi Capello, restò inspiegabilmente fuori di scena. Badoglio disponeva di una forza notevole, composta da quattro divisioni delle quali una era rinforzata tanto da potersi dire, da sola e con i suoi 82.000 soldati agli ordini di 2.700 ufficiali, della grandezza di un Corpo d’Armata. Gli uomini che componevano tale forza erano gente temprata, veterani di guerra. Il XXVII corpo, inoltre, era dotato di circa 800 bocche da fuoco. Questa potente disposizione di artiglieria, come fa notare Lorenzo Del Boca in Maledetta Guerra, avrebbe consentito di radere al suolo gli altipiani, ma fu lo stesso Badoglio a impedire l’esecuzione degli ordini superiori. La giustificazione che addusse fu che l’ordine di aprire il fuoco sarebbe dovuto partire da un suo comando personale. Sennonché al momento opportuno, sulla linea di Ostri Kras Badoglio non c’era e non era dato modo di rintracciarlo: semplicemente se n’era andato a Cosi, a tre chilometri dal suo posto di comando. Chi aveva la responsabilità dell’impianto di artiglieria era il colonnello Alfredo Cannoniere, ma questi si guardò bene dal contravvenire agli ordini del suo superiore diretto, generale Badoglio. Cosicché le artiglierie rimasero fredde e i proietti accatastati in bell’ordine al loro posto. Il disastro, poi, fu di tale portata da indurre due famosi ufficiali a darsi la morte per la disperazione nel vedere tanto macello: morirono suicidi il generale Villani della 19a divisione e il generale Gustavo Rubin de Cervin, comandante la 13a divisione. A maggiore spregio di quanto era avvenuto per quella grave mancanza, Badoglio finì per ottenere la nomina di vicecapo di Stato Maggiore dell’Esercito e fu annoverato con vistosi onori fra i vincitori del conflitto.
Può essere istruttivo, ma anche curioso, il modo in cui Angelo Gatti, ricorrendo a una similitudine, dà un volto alla situazione relativa ai due ufficiali contrapposti: “Due uomini sono posti a guardia di una stanza, uno alla porta, l’altro alla finestra: mentre quello alla finestra si difende come può dagli assalti di strada, il compagno della porta lascia entrare il nemico che butta via l’affaccendato difensore della finestra; e questi ha il danno e le beffe, e l’altro le lodi e gli onori. Tale è in breve la curiosa storia dei generali Badoglio e Cavaciocchi”.
Immagine di copertina tratta da outdooractive.com
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