Riflessioni sui lavori dei seminari
Mario Bruno – Ottobre 2005
Un’intenzione – Un piano
Di fronte a una situazione difficile, critica, complessa come lo è quella del sistema di istruzione e della sua efficacia ai fini della formazione di personalità colte, equilibrate e competenti non basta, come vado rimarcando, fermarsi a constatazioni di fatto o esprimere giudizi di valore attorno ai caratteri salienti dell’oggetto di studio. È necessario agire, subito, stabilendo con precisione dove si vuole arrivare e su quali linee muoversi. Dunque un’intenzione precisa, chiara, definita nei particolari. Ma poi necessita un piano che esplichi l’insieme delle mosse da mettere in atto, degli strumenti di cui servirsi, delle metodologie da selezionare come supporto all’azione e dei contenuti da sviluppare.
È ciò che tenterò di fare qui di seguito, seppure in forma di abbozzo.
Innanzitutto la formazione destinata al corpo docenti e ai dirigenti scolastici. Una formazione che muova da un presupposto saldo in due direzioni: 1) scalzare la consolidata convinzione che, per insegnare, basti limitarsi ad una buona preparazione in uno specifico ambito disciplinare, trasmettere le conoscenze di cui si ha possesso e valutare i discenti in base alla misura in cui hanno assimilato tali conoscenze su un arco di tempo a breve termine; 2) formare una cultura del “preparare i giovani alla vita” attraverso l’appropriazione dei sistemi simbolici dei saperi in tutto il loro potere generativo.
Non è impossibile, neppure troppo difficile. Si tratta di muoversi verso un cambiamento di prospettiva, si tratta di chiamare con forte decisione gli operatori scolastici a riflettere su alcuni fattori portanti del mestiere di insegnare. Iniziando, pertanto, a creare un fondo culturale supportato dalla psicologia evolutiva in età scolare, dalla psicologia dell’apprendimento, dalla psicologia dei bisogni e delle aspirazioni dai quali sono attratti e spinti i giovani, dalla psicologia dell’essenziale per attrezzare gli studenti ad affrontare la vita con fiducia e serenità. Perché è di questo che i nostri figli hanno bisogno: capire che cos’è ciò che fanno a scuola, perché lo fanno, a che cosa può e potrà loro servire; capire che può esistere una condivisione circa l’utilità dei loro argomenti di studio e che dalla padronanza delle conoscenze e dall’acquisizione di competenze riconosciute nelle loro valenze propulsive si vanno aprendo nuove possibilità di conoscenza, di espressione, di realizzazione personale.
In seguito o contemporaneamente alla formazione si deve prevedere l’architettura dell’impianto che garantirà un ottimo dispiegamento di energie indirizzate al raggiungimento degli obiettivi primari. Il riferimento è per la preoccupazione circa il che cosa insegnare, il quanto insegnare e il come insegnare.
Che cosa: Con assoluta priorità quello “zoccolo” di cui si va parlando con particolare riguardo negli ultimi tempi; ovvero gli standard degli apprendimenti, con uno sguardo sollecito sia alle situazioni di palesi difficoltà nell’apprendere sia alle situazioni di eccellenza – fin troppo spesso trascurate – nella progressione scolastica.
Quanto: Qui è urgente che i docenti acquisiscano una nuova mentalità, quella di costruire una scala di priorità all’interno del colosso curricolare; è doveroso che essi si convincano della non ineluttabilità del sapere tutto di tutto. Non arriverebbero mai a tanto con i loro studenti, con nessuno. Ed è bene che si fermino a valutare attorno alla persistenza, alla durata, al valore strutturale in termini di cultura personale, delle cose che hanno trasmesso stando in cattedra: tutt’al più fino alla sede di esame o alla prossima verifica; che si fermino a valutare gli effetti dell’intossicazione prodotta dal tedio che lo stare per cinque ore consecutive seduti ad ascoltare lezioni e declamazioni finisce inesorabilmente di impossessarsi della massa degli studenti; che abbandonino l’idea folle di accumulare pile di quaderni e di materiali che spaziano sull’intero programma annuale d’insegnamento per apparire in buona luce alla critica dei genitori e da questi ottenere approvazioni ed encomi.
Come: Ponendo in campo linee di sviluppo degli apprendimenti vivificate e corroborate dall’applicazione di metodologie appetibili, vicine agli interessi e alle aspettative dei ragazzi. Ne esistono molte; dal “Bright Start” di Carl Haywood per la Scuola dell’infanzia a tutta una ricca gamma di esperienze vissute attraverso il dispiegamento di una didattica in versione metacognitiva per la Scuola dell’obbligo; un esempio per tutte il programma IAPC (Institute for the Advancement of Philosophy for Children) di M. Lipman, A.M. Sharp, F.S. Oscanyan per un’ampia fascia di età che copre la scolarità dall’infanzia alle soglie dell’età adulta. Tutto questo soltanto per citare alcune fra le numerose opportunità applicative. Non è una strada impercorribile. Anzi, volendo provare a inoltrarvisi si scopriranno, molto probabilmente, forti motivazioni all’interesse per l’uso del pensiero riflesso e critico, al lavoro cooperativo, al piacere di avventurarsi, in un certo senso, in un ambito della conoscenza denso di attrattiva e di rinforzi genuini per l’autoformazione.

Non ultimo, nel novero di tali proposte e non meno importante, deve essere valutato il ricorso al confronto. Un confronto in termini di comunicazione, di partecipazione di esperienze con altre scuole, ma fatto frontalmente, sul campo, in contesto interattivo. Le imponenti sedute assembleari, i concili su ampia scala servono a risvegliare le coscienze, a indurre riflessione, ma poco hanno a che vedere con il “sapere come” che è l’aspetto più interessante che gli insegnanti desiderano conoscere – e di cui hanno estremo bisogno, consapevole o meno che esso sia – nel momento di mettersi in gioco di fronte alla propria classe. Il “sapere come” non si acquisisce per comunicazione verbale nel corso di un itinerario di aggiornamento o, almeno, non solo in grazia di quello; in quella sede, tutt’al più, si ricevono spunti. Il “sapere come” si costruisce vedendo fare, riflettendo sui presupposti che stanno a monte e a spinta del fare altrui, provando a fare in situazione, all’interno di un’atmosfera monitorata interattiva, attiva e verbale, pregnante di curiosità. Ciò significa mobilità, significa che siano gli insegnanti stessi a spostarsi per rendersi conto. Non basta che ai dirigenti scolastici vengano offerte opportunità di visite all’estero nel novero di progetti di partenariato comunitari, non basta che siano alcuni insegnanti a partecipare a iniziative simili che, nell’arco di tre o quattro giorni, comunicano una parvenza di ciò che si fa in altre Scuole, ma non offrono la possibilità di penetrare la situazione per conoscerla. È necessario, dunque, che agli operatori scolastici sia offerta l’opportunità, sulla scorta di esperienze precedenti e in base ad accurate selezioni, di trascorrere un periodo “sabbatico” in altre scuole di altre Nazioni o in scuole del territorio nazionale che abbiano in corso procedure di insegnamento particolarmente interessanti. Insegnanti che, in seguito, saranno i promotori di proposte e sperimentazioni innovative nel proprio contesto di lavoro. È chiaro che un impianto del genere, proiettato nella direzione di un confronto arricchente, deve essere preceduto, accompagnato e sostenuto dalla volontà dell’intero corpo insegnante della scuola interessata. Ma, come sempre in questi casi, occorre gente di buona volontà, gente che ci creda, anche poche unità per iniziare, ma determinate nei loro proponimenti.
Immagini header tratte da Vecteezy