Aggressivi e invasori, ma non troppo (Con passo leggero sui campi di battaglia – puntata 6 di 15)

Le guerre italiane, divampate nel corso del secolo breve, non sono state guerre difensive ossia legittime per la salvaguardia dei patri confini dalle insidie esterne. Al contrario. Nessuno, tra la fine del secolo XIX e il XX, ci minacciava, ma fummo noi a prendere l’iniziativa che ci portò a occupare territori che non ci appartenevano e che già erano amministrati da una organizzazione interna politicamente e storicamente consolidata. Ora, coloro che stavano dall’altra parte, quella soggetta alla nostra invasione, e che noi definivamo con il troppo facile appellativo di ribelli qualora avessero dimostrato di battersi contro la nostra determinazione, erano in realtà partigiani del proprio popolo, vittime eroiche di soprusi e di prepotenza. Questo il punto di vista di chi si pone in una certa posizione come osservatore, punto completamente ribaltato se la posizione viene variata. Ma sta di fatto che gli unici a combattere una guerra giusta fossero i popoli che noi cercavamo di assoggettare con la sopraffazione e con il vantato possesso delle loro terre e dei loro beni, mentre per noi invasori si trattò, sempre, di guerre ingiuste, oppressive, schiaccianti, esportate in casa d’altri.

Quali motivazioni si potrebbero trovare, viene da chiedersi, alla decisione di sorpassare i confini di uno Stato libero e di spingerci armati in territorio altrui per portarvi la guerra? Incominciamo dal prestigio sul piano politico e militare: c’era l’esigenza di non rimanere indietro nella corsa all’accaparramento coloniale già negli ultimi decenni del secolo XIX, c’era la necessità di offrire spazio vitale e lavoro alla popolazione che cresceva in entità. Ma più ancora, direi, c’era l’ambizione di una casta privilegiata formata da pochi individui soltanto, desiderosi di accrescere il potere di famiglia o personale. C’erano le invidie fra i grandi dello scacchiere europeo e mondiale, sempre pronti a cercare di ritagliare la maggiore fetta del bottino preparato dalle guerre di conquista. C’era la voglia incontenibile dei regnanti verso il conseguimento di un potere sempre crescente, soprattutto per dare lustro alla casata e per assurgere a più alti gradi di dignità nei casi personali. E d’intorno a tali personalità, come per una strategia di sostegno reciproco, un manipolo di arrivisti che assecondavano i voleri del loro capo, monarca o condottiero o dittatore che fosse, pur di entrare nelle sue grazie e di ottenere favori indispensabili a percorrere e conseguire una carriera di eccellenza.

Si tratta di una dinamica in cui si crea, in ogni caso e in ogni tempo, un circolo vizioso alimentato da intenzioni subdole e malsane, tacite e virulente: un esponente rappresentante della massa che cerca la notorietà, la fama, il potere, grazie anche e soprattutto ai consensi tributatigli dai suoi sudditi più vicini e fedeli da una parte e, dall’altra, proprio quel gruppo di sudditi privilegiati i quali, grazie alla tutela patriarcale loro garantita di contropartita, si vedono con ampie garanzie aperte le porte al raggiungimento del successo in carriera e notorietà. È così da interpretare l’espressione “l’Italia dichiarò guerra” in un’altra più veritiera “Quei pochi rappresentanti del popolo dichiararono guerra”. In realtà tutto il resto della popolazione o almeno la sua maggior parte sarebbe stata contraria a tale deliberazione. Ma, si sa, chi decide il corso della Storia è chi detiene il potere e che può fare la voce più grossa. Sennonché può persino succedere che il predatore, lanciato con tutta la sua veemenza sulla preda, si scontri a un certo punto con contingenze impreviste e indesiderabili che lo convincono di gran fretta a invertire la rotta. Nella storia delle nostre guerre ne troviamo abbondanti esempi.

L’avidità comunque, sempre. In un secondo tempo, nella fase infuocata dei conflitti, chi ne portava il peso era la povera gente, soprattutto coloro che nulla avrebbero potuto sapere della guerra e dei motivi che l’avevano fatta divampare, che vivevano in tutt’altra atmosfera dove la vita quotidiana parlava di pace, di lavoro, di semplicità e di affetti genuini.

Le avventure, o disavventure, ebbero inizio sin dal 1885 con l’occupazione di Massaua, portata a termine il 5 febbraio, poi nel 1887 con gli Alpini del magg. Cicconi. Già quel 1887 fu l’anno di pessimi presagi affollatisi alla mente dei nostri generali, con la distruzione apportata alla colonia italiana di Dogali, perpetrata dal comandante Ras Alula. Dopo Dogali, 26 gennaio 1887 e Massaua, marzo 1987 le nostre truppe vennero rimpatriate con approdo a Napoli il 22 aprile 1888. Più tardi, il 7 dicembre 1895, il condottiero Menelik, succeduto al Negus Giovanni IV, infliggeva una pesante sconfitta alle nostre truppe di occupazione all’Amba Alagi e, l’anno successivo, riusciva ad avere ragione delle truppe agli ordini del gen. Baratieri. Molti caduti, da una parte e dall’altra degli schieramenti contrapposti, un bilancio certamente non lusinghiero per una Nazione in cerca di espansione e di affermazione nel novero delle conquiste extraterritoriali. Baratieri, il 1° marzo 1896, disponeva della forza di quattro brigate, ma la mancanza di coordinazione fra le tre brigate disposte in linea fu causa della disfatta. La sconfitta di Adua, che nel 1896 colpì il gen. Baratieri, fu all’origine di una ritirata dai risvolti veramente disastrosi, con migliaia di soldati italiani vittime degli scontri armati. Adua rappresentò per i tempi una sconfitta colossale.

Come succederà dopo Caporetto, anche Baratieri, precedendo il comportamento di Cadorna del 1917, addossò tutta la colpa del disastro tattico ai propri soldati, tacciandoli di vigliaccheria, con lo scopo di distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica e dei politici dai suoi personali errori e dalla propria esibita incapacità. Come riferisce il gen. Emilio Faldella, gli Alpini di Adua furono le vittime di una politica di espansione, voluta al tempo del governo Crispi, realizzata con improvvisazione e imprevidenza, senza che i responsabili si rendessero conto con chi le nostre truppe avrebbero dovuto battersi e senza che avessero valutato le insidie ambientali e logistiche alle quali avrebbero dovuto fare fronte. Non guadagnammo un centesimo da quella campagna, anzi dovemmo sborsare capitali enormi, per l’epoca, allo scopo di rabbonire il Negus che, con quel denaro, non fece altro che giocare astutamente contro di noi.

Entra il nuovo secolo e vediamo le nostre Forze Armate impegnate in Libia. Un ultimatum lanciato a fine settembre 1911 dall’Italia alla Turchia per via di una questione di rotta marittima del piroscafo Derna da Costantinopoli a Tripoli, rifiutato dal governo turco, fu motivo sufficiente per l’Italia a dichiarare guerra alla Turchia. I primi sbarchi avvennero a Tobruk il 4 ottobre 1911 con un Corpo di spedizione agli ordini del gen. Caneva, ma già gli scontri iniziali con gli indigeni causarono numerose perdite fra i nostri soldati, fra i quali gli Alpini dei battaglioni Edolo, Susa, Tolmezzo, Verona, Mondovì, Fenestrelle, Ivrea, Vestone, Feltre. Il 14 ottobre 1911 partì da Napoli un forte contingente di cui facevano parte il 22° regg. Fanteria, il batt. Saluzzo e un plotone del Genio, che giunse a Derna con il col. Zupelli il 25 ottobre. Il rimpatrio avverrà nel mese di ottobre 1913 con i batt. Saluzzo, Edolo, Susa; il mese seguente con i batt. Mondovì, Verona, Tolmezzo; tutti gli altri nell’agosto 1914. Molti non tornarono, sterminati più dalle malattie contratte sui territori occupati che non dai fatti d’arme: a imperversare sui nostri soldati erano morbi letali come la malaria e il tifo addominale.

Per noi ancora non era scoppiata la Grande Guerra che le nostre truppe, nel novembre 1914, occupavano l’isola di Sasena di possesso albanese. Intanto anche in Libia, dopo la nostra dichiarazione di guerra alla Turchia che ci portò in conflitto armato dal 1911 al 1913 e dove furono accumulati a nostro danno disastri sopra disastri, verso la fine del 1914 erano scoppiati movimenti di guerriglia contro i nostri soldati a presidio, che non si affievolirono per tutta la durata della Grande Guerra. Il 2 ottobre 1916 le nostre truppe ingrandirono il teatro di occupazione in Albania da Argirocastro verso l’Epiro. Appena terminato il primo Conflitto mondiale, nel mese di agosto 1919 nostre formazioni consistenti in due Gruppi Alpini sbarcano in Albania, a Durazzo, destinati alla Valle del Mathi, e a Valona l’anno successivo per sedare le rivolte degli insorti albanesi. È la volta del 2° Reggimento Alpini con i battaglioni Dronero, Saluzzo e Intra che il 5 giugno 1920 subiscono un violento attacco risoltosi con numerose perdite fra i nostri Alpini. Il 27 luglio le formazioni italiane respingono una pesantissima irruzione di insorti che si protrae fra mille difficoltà, non ultime quelle dovute ai confronti ravvicinati all’arma bianca. I tre battaglioni menzionati faranno ritorno in Patria riportando poco più di un centinaio di uomini per ciascuno, decimati orrendamente dunque e, per di più, con i casi diffusi da malaria contratta sui campi albanesi.

La Grande Guerra fu un’altra di quelle decisioni partorite dalla mente di pochi e subita con indicibili sofferenze dalla maggioranza della popolazione. Parlano da sé l’immane sacrificio di oltre 700 mila uomini, il triste novero dei mutilati, degli invalidi, dei feriti, degli ammalati, delle vedove e degli orfani; ancora, i 600 mila prigionieri di cui 100 mila non tornati. Ma anche, aspetto questo da non trascurare perché ricaduto interamente sulle spalle della gente soggetta a restrizioni alimentari, alla fame, alla denutrizione e decimata da patologie conseguenti, la mole di denaro bruciata per costruire ordigni di morte e per mandare tanta gioventù al macello. Nel mantenere il costo della guerra totale si calcolò che sarebbe servita una somma sicuramente da capogiro. L’Italia, che era povera di materie prime e di derrate alimentari, fu costretta ad acquistare il necessario all’estero e presto precipitò in debiti astronomici che costituirono un abisso di privazioni per la gente comune alla quale, per buona misura, si chiedevano prestiti nazionali, il conferimento di metalli e la donazione degli anelli nuziali.

Fra le potenze belligeranti nel primo Conflitto mondiale l’Italia rappresentò l’unico caso di una nazione entrata in guerra in posizione offensiva senza essere stata oggetto di provocazione da parte di altri, ma la situazione si sarebbe dovuta ripetere in una nuova edizione assai simile nei periodi immediatamente successivi. La Grande Guerra aveva insegnato certe massime di comportamento che tuttavia non furono colte né considerate nella loro ineluttabilità se subito dopo l’armistizio, nell’agosto de 1919, fu ordinata una nuova spedizione in Albania per sedare alcune sommosse di insurrezione. Altri incontri di guerra, dunque, per i nostri soldati a Valona, Tepeleni, Vaiza, Giormi, Passo Logorà.

Pochi anni appresso eccoci a parlare dei fatti d’Etiopia dal 1935 al 1937. Ancora terribili scontri armati: Adi Gul Negus, Amba Aradam, Amba Alagi, Mai Ceu, Addis Abeba. Un’altra guerra dalle conclusioni fallimentari se consideriamo che, per conquistare quattro palmi di terreno senza valore, l’Italia dovette spendere qualcosa come 40 milioni di Lire che all’epoca rappresentavano un’immensa fortuna. Dal 1936 al 1938 ci fu il concorso di parte delle nostre forze nella guerra civile in Spagna. Nel 1939 nuovamente in Albania, alla frontiera con la Jugoslavia, fino al mese di settembre 1940.

Il 1940 fu l’anno delle insane risoluzioni politico-militari: l’attacco alla Francia il 10 giugno 1940 e alla Grecia il 28 ottobre dello stesso anno, dove secondo la roboante declamazione del dittatore in un batter di ciglio avremmo dovuto “spezzare le reni” al dichiarato nemico e di fronte al quale ci trovammo ben presto in una palude insidiosa che avrebbe risucchiato tutte le nostre risorse se all’ultimo non fossero intervenute le orde tedesche a cavarci d’impaccio.

Infine la dolorosissima disavventura nella steppa russa, foriera di sofferenze estreme ai nostri Combattenti sino alla ritirata, al ritorno in Patria e al passaggio di alleanza nello schieramento che avevamo combattuto. La sola divisione Cuneense, partita nel 1942 con circa 16 mila uomini, ne riportò in salvo appena 1.607: nove su dieci rimasero sulle lande ghiacciate della steppa russa.

A proposito del 28 Ottobre: chi ha ragione in guerra?

Il 28 ottobre fu una data funesta nel lontano ormai 1940. Erano scoccate appena le ore 4,30 che i battaglioni della brigata Julia superarono il confine irrompendo in terra greca. È doveroso ricordare il sacrificio del primo Caduto in questa impresa di invasione di suolo straniero. Un colpo di fucile sparato dalle linee avversarie colpì a morte l’Alpino Giovanni Vallar originario di Chievelis, nei ranghi della 69a compagnia del battaglione Gemona.

Fu un fatto luttuoso di estrema gravità, nel novero degli immensi sacrifici imposti ai nostri Combattenti nella sciagurata decisione di abbattere un popolo vicino per mania di supremazia sullo scacchiere delle potenze in lotta. Un fatto che non può fare a meno di indurre a riflettere sul senso che si lega alle dichiarazioni di guerra e alle aggressioni armate effettuate contro altre Nazioni che, nel caso nostro, non ci erano affatto di nocumento.

Onore ai Combattenti che lasciarono la vita per la Patria. Con una distinzione: la Patria non era il re, non erano i vertici militari o le istituzioni che vollero avventurare il popolo in guerre lesive del diritto alla libertà, per pura follia e per manìa di potere. La Patria si identifica e si identificava, allora come oggi, nell’operosità di braccia e menti del popolo, nei Valori che stanno alla base della nostra Storia e della nostra civiltà, nella famiglia, negli affetti, nelle opere dell’arte, della cultura e dell’ingegno, nel sentirsi “Uni” per tradizioni e per obiettivi condivisi; al fronte, con i propri compagni di sventura, per un aiuto vicendevole. Quando leggo su alcune lapidi commemorative frasi altisonanti del tipo “Hanno fatto il loro dovere, sono morti per la grandezza dell’Italia, obbedienti e sprezzanti del sacrificio” inorridisco. I Combattenti, che per la stragrande maggioranza erano contrari alla guerra, morivano per ordini insensati, per incapacità di comando dei vertici militari, per essere mandati al macello senza le minime precauzioni del caso, in situazioni assurde mentre assai spesso, a sconfitta subìta, i primi a fuggire erano i loro altolocati comandanti: A Caporetto intere divisioni si trovarono prive di comando, centinaia di migliaia di soldati allo sbando; e c’era pure chi, fra i generali, si sollazzava a scovare gli sbandati e a farli fucilare sul posto per diserzione.

Le guerre, le “nostre” guerre: abbiamo mai pensato a quanto giuste fossero state? Prescindendo dal fatto che le guerre sono la negazione del senso di umanità e di rispetto per l’altrui persona, da rinnegare dunque prima ancora che se ne parli, abbiamo mai pensato il perché di quelle guerre? Forse che i Francesi nel 1940 ci avevano fatto un affronto? Forse gli Albanesi, i Greci, gli Etiopi, i Turchi, i Russi? E, qualora ne avessimo subito offesa, quale danno avrebbero arrecato al nostro patrimonio umano, economico e culturale? No, siamo stati noi, quasi nella totalità dei casi, ad aggredire e a invadere altre Nazioni. Si disse che la Grande Guerra fu scatenata per la volontà di un ristretto sciagurato manipolo di persone, non più di duecento. Ma duecento persone riuscirono a portarsi dietro il bilancio terribile di 9 milioni di Caduti fra i militari, di 7 milioni di vittime civili, di uno stuolo immenso di prigionieri, feriti, ammalati, mutilati, invalidi, vedove, orfani, e distruzioni, rovine, fame e miseria dappertutto. Duecento persone che formavano un circolo collusivo, dotato di un potere inattaccabile, attorno alla figura principale deificata, accondiscendenti alle sue brame con il supremo scopo di aggiudicarsi una carriera invidiabile. Di poi, a leggere le pagine di una certa storiografia, si riconosce il Soldato Italiano come l’esempio sublime del coraggio, della virtù militare, dell’abnegazione per amor di Patria, del conquistatore vincente. E chi subiva la nostra aggressione era definito “ribelle”.

A pagina 233 del volume scritto dal gen. Tullio Vidulich, Storia degli Alpini (Panorama, Trento 2002) appare un’immagine riportante la lapide del 7° Alpini che ha scolpite le parole “7° Reggimento Alpini – Battaglione Val Pescara – Sul Sacro Tomori consacrato dal sangue nostro s’infranse il tracotante furor greco. Dispiegò l’ali la radiosa vittoria. Natale 1940 – XIX – Pasqua 1941 – XIX”. Era il 31 marzo 1941: fu la 287a Compagnia Alpina a sacrificarsi. Tuttavia, in realtà, eravamo noi gli invasori; i Greci si difendevano sul patrio suolo. Semmai la tracotanza sarebbe stata da parte nostra. A pagina 237 leggo: “… il fatto d’armi più importante avvenne il 1° dicembre 1941 a Plevlja… riportiamo la relazione che il colonnello Arturo Barbieri, comandante dell’11° Reggimento Alpini, inoltrò al Comando Divisione Pusteria all’indomani dei drammatici scontri”. Più volte il col. Barbieri usa il termine “ribelli”. È la stessa cosa che succederà con l’occupazione tedesca in Italia nel secondo Conflitto: i Partigiani erano chiamati banditi o ribelli. Ma qui a Plevlja, i cosiddetti ribelli erano i partigiani locali che combattevano per la difesa del suolo patrio contro gli aggressori, noi. Come dire che, dal nostro punto di vista, noi eravamo penetrati nei Paesi oltre l’Adriatico con pieno diritto e i popoli delle Nazioni invase si sarebbero dovuti sottomettere, cancellando anche il proprio atavico senso di Patria e di sovranità nazionale; se si attestavano a difesa, non erano altro che ribelli. Ma, a ben vedere, leggendo a pagina 250 dell’opera medesima, si constata che il gen. Emilio Faldella, per fortunata valutazione, li chiama partigiani e non usa il termine “ribelli”… Perché la guerra?

Le sorti, in guerra, cambiano spesso fronte e mutano gli assetti dei belligeranti. Ci trovammo pure noi nelle condizioni di impegnarci in battaglie difensive, tuttavia sempre conseguenti a precedenti azioni offensive. Il primo caso riguarda la Strafexpedition del maggio-giugno 1916; il secondo ci riporta alla Battaglia sul Piave e sul Grappa nel novembre 1917 dopo i fatti di Caporetto; il terzo alla resistenza opposta alla pressione austriaca sul Piave nel giugno 1918 sino alla cacciata dell’avversario invasore negli scontri che portarono a Vittorio Veneto. In tutti tre i casi citati riuscimmo vincitori e gli Austriaci non passarono. Infine va ricordato il lungo e tormentoso ripiegamento della nostra Armata in Russia, conclusasi con il ritorno di quei pochi sopravvissuti nel marzo del 1943.

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