(dalla lettura di Antonio Caponnetto, La Iglesia traicionada, Ed. Detente, Buenos Aires 2010)
Andiamo avanti con il testo Memoria e Riconciliazione. Nella quarta parte del contenuto si porta l’indagine sulle possibili similarità fra giudizio storico e giudizio teologico, mettendo in luce l’esigenza di chiedersi che cosa sia “precisamente avvenuto” nel corso dei secoli bui e “che cosa è stato propriamente detto e fatto” sulla base di un “rigoroso giudizio storico” che tenga conto con fermezza del contesto epocale nel quale i fatti contestati si sono avverati. Ebbene, immergendoci nella casistica particolare delle condanne inflitte dalla Santa Inquisizione, bisognerebbe chiedere a quelle povere “streghe” e a quegli “eretici” lasciati consumare, vivi, dalle fiamme dei roghi, bisognerebbe poterli richiamare e lasciarli parlare, avrebbero non poco da raccontarci. È facile dire di indagini storico-critiche circostanziate, di ricostruzione delle condizioni ambientali di una lontana epoca storica, di modi di pensare, di condizionamenti e di processi vitali quando alle nostre orecchie pervenissero le urla strazianti di dolore di chi sentiva le proprie carni divorate dal fuoco negli spasimi della disperazione e della pazzia indotta dall’atroce condanna. Quando si va a giudicare “possibili colpe del passato – continua il documento – occorre tener presente che diversi sono i tempi storici, diversi i tempi sociologici e culturali dell’agire ecclesiale, per cui paradigmi e giudizi propri di una società e di un’epoca potrebbero essere erroneamente applicati nella valutazione di altre fasi della storia, generando non pochi equivoci”. Ed eccoci a una profusione di giri concettuali e di circonlocuzioni acrobatiche nel tentativo fallace dell’aggrapparsi a motivazioni decolpevolizzanti. Atteggiamento, questo, che non sfugge alle preoccupazioni di Giovanni Paolo II quando afferma che “un corretto giudizio storico non può prescindere da un’attenta considerazione dei condizionamenti culturali del momento”.

L’appello, come di consueto, è per la sfera del Trascendentale, che tutto spiega senza nulla spiegare: “La Chiesa, in forza della comunione prodotta in essa dallo Spirito di Cristo nel tempo e nello spazio – non può non riconoscersi nel suo principio soprannaturale, presente e operante in tutti i tempi, come soggetto in certo modo unico, chiamato a corrispondere al dono di Dio in forme e situazioni diverse” e “Grazie a questo fondamento oggettivo e trascendente della comunione del popolo di Dio nelle sue varie situazioni storiche, l’interpretazione credente riconosce al passato della Chiesa un significato per l’oggi del tutto peculiare”. Aderendo a un principio tutto particolare di storicità si afferma che “Per comprendere veramente gli atti umani e le dinamiche ad essi connesse, dovremmo entrare nel mondo proprio di coloro che li hanno compiuti: solo così potremmo giungere a conoscere le loro motivazioni e i loro principi morali”. Qui, come sopra, ci si attarda in scrupolose definizioni epistemologiche dei termini affrontati, quasi si trattasse di una tesi universitaria di Diritto e di una dotta analisi delle circostanze nella gamma delle possibilità di avveramento. Indagare le motivazioni? Ce n’è forse bisogno? Non parlano già esse di per sé della intrinseca perversione di cui sono investite? E i principi morali, forse che anche quelli sono diventati, per una metamorfosi inspiegabile, cangianti a seconda dei tempi e delle situazioni sociali? Dare alle fiamme un innocente o un colpevole è forse un comportamento a gradi variabili di atrocità come per i vantati principi morali che li hanno mossi a compimento? Di questo passo, allora, per retrocessione nel tempo possiamo rivestire di comprensibilità anche il fratricidio perpetrato da Caino: già, le sue belle motivazioni, consone alla situazione, le avrà pur sempre avute! O no?
Il testo di cui vado esaminando i passi, nel suo complesso, fa ricorso con estrema disinvoltura al nome di Dio, con l’attribuzione aggiuntiva di requisiti diventati dogma per la fede, vedi il Dio uno e trino, vedi la missione salvifica del Figlio inviato dal Padre fra gli uomini. Si fa ricorso a una serie di definizioni fallaci e coniate alla bisogna, con il tempo diventate fonte di verità. Sembra che i Padri della Chiesa sappiano tutto di Dio, quasi si trattasse di una vecchia conoscenza con la quale si siano spartite svariatissime esperienze e con la quale essi si trovano in sintonia di pensiero, in stretta confidenza e in reciprocità di affetti quando proprio, in verità, non ne possono avere la minima idea, neppure intuitiva.

Di altra fatta si dimostrano i passi fatti per arrivare alla riconciliazione allorquando si parla di scismi, di riforme, di reciproci anatemi scagliati alla bisogna. Ben venga dunque il tentativo, iniziato da Papa Paolo VI e dal Patriarca Atenagora, di purificare la memoria dalle divisioni del passato e di generarne una nuova nel nome del reciproco amore. Ma c’è di più. Un punto della relazione su Memoria e Riconciliazione che spinge molto a meditare è quello che riguarda l’uso della violenza a cui spesso si fece ricorso. Si accenna apertamente, nel testo, all’impiego di “mezzi dubbi per conseguire fini giusti, quali sono tanto la predicazione del Vangelo, quanto la difesa dell’unità della fede”. Che i mezzi usati fossero dubbi è un’espressione del tutto fuorviante: la Storia ci descrive senza remore quali inganni, atrocità e torture escogitarono e fecero applicare gli uomini di Chiesa per imporre la religione cattolica a popoli lontani di distanza e di cultura. Di dubbio c’è proprio veramente poco. Prendiamo a esempio soltanto l’operato della Santa Inquisizione: gli inquisiti venivano seviziati moralmente con domande tendenziose e accuse fantasiose, intimoriti con la minaccia di morte sino a ridurli alla spersonalizzazione e alla impotenza della volontà e della capacità di discriminazione concettuale, ridotti alla remissività più assoluta e costretti in casi specifici a dichiarare la propria abiura per evitare la condanna al rogo. Su un altro scenario, poi, il portare il Vangelo a popolazioni di altri continenti forse non fu altro che un’impresa imperialistica tentata per fini di supremazia politica ed economica. Comunque appare proprio brutta l’immagine dell’uomo di Dio che avanza tenendo alto con la mano un crocifisso ligneo, posando i passi sul sangue sparso dagli armigeri assetati di razzia che lo precedevano. A parte il fatto che era una mania vera e propria, carica di presunzione, alimentata da una non meno esaltata volontà di potenza quella di costringere intere etnie ad abbandonare il proprio credo rituale sotto la minaccia delle armi e per pura imposizione.
Il documento in esame cita la circonlocuzione “metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio della verità” e il ricorso a “strumenti impropri per annunciare la verità rivelata”. Forme di violenza furono a momenti alterni esercitate “nella repressione e correzione degli errori”. Errori che, capovolta l’affermazione, erano spesso verità scientifica: ne sono eloquenti le vessazioni inferte a Galileo Galilei per combattere le sue idee fondate sui principi copernicani del moto dei pianeti, senza trascurare Giordano Bruno per le sue idee avanzate sull’Universo e sulla materia. Ossia era la Chiesa cattolica che persisteva nella falsa credenza e si industriava per alimentare follemente errori palesi, pur di avvalorare e sostenere immagini cariche di fantasia del passato biblico, sulle quali poggiava la fede dei cristiani.
Ora la Chiesa vuole chiedere perdono “per quanto è stato omesso o taciuto per debolezza o errata valutazione, per ciò che è stato fatto o detto in modo indeciso o poco idoneo”. Un bel modo, anche questo, per cercare di ammorbidire una realtà ormai lontana, diluita nell’oblio, con l’introduzione di termini depurati di ogni aspetto di tragicità: debolezza, errata valutazione, modo indeciso o poco idoneo. Ma le massime autorità ecclesiali non erano forse sostenute e garantite dalla perenne assistenza divina? E il senso morale del detenere fra le mani la vita e la sorte di un uomo non sarà stato sufficiente a mordere la coscienza degli aguzzini? Lo scopo, non lo si può negare, non era altro che quello di mantenere una posizione di privilegio e di potere, con l’uso di minacce pesanti e con il diffondere terrore fra le genti, assoggettandole con la forza e con l’inganno. In quanto, poi, alla verità rivelata, sarebbe qui da aprirsi un altro capitolo, ma questa direzione ci porterebbe troppo lontano (su questo argomento rimando, per chi ne fosse interessato, al mio lavoro Regno Celeste, Impero terreno, IBN Editore, Roma).
Non si può comunque trascurare un aspetto del discorso sulla violenza e sull’uso di mezzi coercitivi: i tribunali inquisitivi si limitavano a erogare la condanna, ma chi si sporcava le mani azionando la forca era personale politico; mai l’Alto Magistero si sarebbe macchiato del sangue dei condannati, ma ciò nulla toglie alla gravità delle decisioni abbracciate: la configurazione di delitto si attaglia sia agli uni, gli esecutori, sia agli altri, i demandanti, nella stessa identica misura. Il documento sul quale mi sono attardato si dilunga ancora nel considerare il concetto di verità storica da stabilirsi mediante la ricerca storico-critica. Non è necessario rifare tutto da capo, ricerche in merito ne sono state fatte quanto basta per vedere in faccia la verità storica. Così pure, alla raccomandazione leggibile fra le righe del documento, di stabilire i fatti e “valutare il loro valore spirituale”, risponderei che non c’è bisogno di scavare ancora su ciò che accadde, ne sappiamo abbastanza per dire che la valutazione, alla luce della conoscenza acquisita, è immediata e perentoria.
Nell’ultima parte della relazione che vado esaminando, “Prospettive pastorali e missionarie”, viene rimarcata la necessità di purificare la memoria, nella forma di processo di rinnovata valutazione del passato, che si avvale di un processo compresente, quello teso a rinnovare, sia dalla memoria personale sia dalla memoria collettiva, qualsiasi causa che possa alimentare risentimento per le ingiustizie e le sofferenze inferte al prossimo, e tutto questo, infine, come “atto di lealtà e di coraggio che ci aiuta a rafforzare la nostra fede”. Ma, mi chiedo, rafforzare la fede in chi? Nel Dio degli Eserciti che combatté a fianco del Popolo eletto seminando stragi e sangue? E qui pure si aprirebbe un altro capitolo, ma rimando chi ne volesse sapere di più alla mia già citata collana Regno celeste. Impero terreno (IBN Editore, Roma 2020).
Più avanti, insistendo sulla necessità di un’opera di rinnovamento e di riforma all’insegna della Chiesa cattolica, il documento redatto dal gruppo di teologi suggerisce che “Il criterio di vera riforma e dell’autentico rinnovamento non può che essere la fedeltà alla volontà di Dio riguardo al Suo popolo” e, insieme, la testimonianza che “la Chiesa rende al Dio della misericordia e alla Sua Verità che libera e salva”. Ancora, mi domando, ma quei prelati che hanno messo mano a queste parole lo sanno qual è la volontà di Dio? Sempre che si tratti di quel Dio manipolato in modo così confidenziale e privilegiato, che nessuno al mondo, mai, riuscirà a conoscere e a descriverci. Oppure, di fronte a tanta faciloneria di elaborazione lessicale, dobbiamo confezionare per noi un’altra idea di un Dio ineffabile, incomunicabile, che tuttavia non sia quella del Dio degli Eserciti?
Nel prosieguo della lettura si incontra la distinzione fatta fra i concetti di Magistero e di autorità della Chiesa, un motivo del quale si risente l’eco nelle pagine sopra descritte di Iglesia traicionada del critico Antonio Caponnetto. Nel novero della puntualizzazione offerta dal gruppo di teologi si legge che “non ogni atto di autorità ha valore di Magistero”; ne deriverebbe che “un comportamento contrario al Vangelo di una o più persone rivestite di autorità non implica di per sé un coinvolgimento del carisma magisteriale, assicurato dal Signore ai Pastori della Chiesa, e non concerne di conseguenza alcun atto magisteriale di riparazione”. E, per giunta, sarebbero da considerarsi in disparte o da non considerarsi affatto le creature umane che hanno ricevuto del male dalla Chiesa: l’implorazione di perdono andrebbe rivolta esclusivamente a Dio, mentre eventuali destinatari umani andrebbero “individuati con opportuno discernimento storico e teologico”. Difficile a comprendersi anche questo enunciato: che cosa si può intendere con il termine “discernimento”? Ciò che appare con tutta evidenza, fra la marea di definizioni atte soltanto a creare confusione perché passibili di interpretazioni le più svariate, è che si è voluto dare un vigoroso colpo di spugna: domandiamo perdono a Dio, Lui è misericordioso, il perdono non ce lo negherà; degli uomini seviziati nella mente e nei visceri, che dire, non ce ne ricordiamo neppure l’immagine, cose passate, da non pensarci più. Tutte le attenzioni concentrate nel grave problema del dover chiedere perdono avevano come interlocutore esclusivo Dio stesso, mentre si soprassedeva su quanti e quali furono i patimenti inflitti ai poveri mortali. Sprofondate nell’oblio più oscuro le persecuzioni ai Catari, le efferatezze della Notte di San Bartolomeo nel secolo XVI, le guerre sante di religione, le persecuzioni agli Ebrei per il deicidio commesso, l’istituzione dei ghetti per gli Ebrei, voluta nel secolo XVI da Gian Pietro Carafa o Papa Paolo IV, l’ammissione della schiavitù sino al secolo breve, il XX della nostra era, il coinvolgimento nella Lega cattolica, ancora nel secolo XVI, per combattere l’unione calvinista, la pena di morte per il reato di eresia, sancita con l’Editto di Compiègne del 1557.
Ed è così che gli uomini del loro Dio, quasi all’epilogo di un gioco infantile, esultano in coro: “Uno, due, tre…liberi tutti!”. E volgono le spalle per non essere frastornati dalle grida strazianti e imploranti di coloro che, vittime dei soprusi e delle efferatezze loro inferti dai tribunali ecclesiastici, gridano vendetta al cospetto di Dio, come istruisce lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica.
In aggiunta a tutto ciò la relazione dei teologi non si limita a sancire un atto di assoluzione generale; anzi, ci prova, persino con esultanza, a edulcorare ciò che era ed è stato male. Inutile insistere nel portare sulla scena dei commenti storici le immagini abbrutite di chi si è coperto di colpe, inutile rivangare il passato; ciò che importa, ora, è che i credenti vivono di “una sorta di partecipazione al mistero di Cristo crocifisso e risorto”, una efficace prospettiva messa in luce per “produrre frutti di liberazione, di riconciliazione e di gioia”. È qui che si arriva al massimo della presunzione e del negativismo. Belle parole anche in questo caso, addirittura un incitamento a dare la stura alla pace di coscienza e a una sorta di euforia fideistica che tutto aggiusta al momento propizio, lo sguardo fisso a quell’unità dei credenti “voluta dal Signore”. È un bel dire. Ma quando mai una Divinità è venuta fra gli uomini a pontificare in vista di una immaginabile unità della Chiesa? Non danno forse l’impressione, tutte queste declamazioni, di costruzioni concettuali posticce?
A rinforzare e avvalorare una posizione di tal fatta viene la dichiarazione, da parte della Chiesa cattolica, di non sentirsi sola nei percorsi che la indussero a cadere in errore: “I cristiani non sono stati un’eccezione e sono consapevoli di quanto tutti siano peccatori davanti a Dio!”, e questo suona come un motivo di mezza soddisfazione e di benedizione assolutoria: non siamo soli, anche altri hanno fatto come noi, a parziale nostra discolpa, mal comune… finché ogni cosa detta, sostenuta ed enfatizzata si conclude con una totale pressoché delirante immersione, ribaltato il concetto generale, fra le carezze di un sentimento inattaccabile, incorruttibile, inalienabile: la gioia!
m.b.
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