Nel 1914, allorché il 28 luglio l’Austria aveva dichiarato guerra alla Serbia innescando la dolorosa campagna del Grande Conflitto 1914-1918, l’Italia era da ben 32 anni alleata alla Germania e all’Austria in quello che fu chiamato il patto della “Triplice Alleanza”. Non era così palese né fondata su presupposti concreti quella stipulazione di amicizia, detto così perché sul piano politico di amicizia vera e propria non si trattava: l’Italia e l’Austria erano state, si può affermare da sempre, nemiche secolari e l’astio che la seconda portava alla prima era cresciuto con le guerre II e III d’Indipendenza mosse dall’Italia nel 1859 e nel 1866, conclusesi con la cessione, da parte dell’Austria, del Lombardo-Veneto sino alle terre friulane, esclusi il Trentino e la zona di Trieste. Da allora, sebbene vincolate da un patto di alleanza che richiese periodiche sedute di rinnovo a cavallo dei secoli XIX e XX, le due alleate si guardavano per lo più con una buona dose di diffidenza, se non anche con occhio torvo. L’alleanza, pare di poter arguire, non era stata altro che un accordo fra le due rivali, timorose l’una dell’altra, per non farsi del male a vicenda, per mantenere uno “status quo” di almeno apparente quiete e sicurezza nella panoramica degli interessi internazionali.
Le cose, però, avrebbero dovuto assai presto mutare sembianza e ciò accadde sin dal 1906, l’anno in cui al comando dello Stato Maggiore dell’Esercito austro-ungarico fu nominato il generale Conrad von Hötzendorf, dichiarato nemico storico dell’Italia. Non tardò affatto, il generale Conrad, a rendere nota la propria disposizione negativa e di contrasto nei confronti dell’Italia, già a partire dal suo progetto di invaderne il territorio per assoggettarla approfittando – invero poco lealmente – del terremoto-maremoto di Messina del 1908 (28 dicembre), allorquando tutta l’Italia era impegnata nel provvedere ai soccorsi da portare sulle terre colpite dalla grave calamità naturale. Era stato, per nostra fortuna, il lungimirante imperatore di Austria-Ungheria, Francesco Giuseppe, a dissuadere Conrad dalle sue velleità di invasione e a porre un veto incontestabile al realizzarsi di quell’impresa.
Era il tempo in cui al comando dello Stato Maggiore dell’Esercito italiano stava il generale Alberto Pollio, a muovere dalla stessa data citata del 1908, due anni dopo la nomina di Conrad in terra austriaca. Pollio aveva subodorato ciò che stava covando sotto la cenere e non ci pensò due volte a correre ai ripari, in chiave preventiva ovviamente. Si trovò invero impegnato ad assumere al tempo stesso decisioni su due fronti: quello occidentale per una eventuale deflagrazione della conflittualità con la Francia, allora in posizione di nemica dell’Italia; quello orientale per potersi trovare preparato ad affrontare le minacce che trasparivano dai propositi anti-italiani di Conrad. La paura era più forte per quanto sarebbe potuto accadere dalla parte della frontiera austriaca e tanto bastò perché il generale Pollio si muovesse di proposito. Pensò ad allestire un programma di previsione, ma l’idea che lo accompagnava aveva dei costi, e anche molto alti: si parlava di un finanziamento ammontante a una cifra iperbolica per i tempi, 551 milioni di Lire, che sarebbe stata impiegata per la costruzione di fortificazioni e di sbarramenti a fronte della linea confinaria e lungo il corso del Tagliamento. Tanto più che anche l’Austria non aveva perso tempo né occasioni per edificare sistemi difensivi fortificati su tutta la linea di confine che si affacciava al Trentino e alle sue valli.
Interlocutore di primo piano in questo progetto di interventi era il Governo che avrebbe dovuto fare i conti con la salvaguardia del bilancio nazionale. La spesa fu valutata effettivamente eccessiva, si doveva scendere, e di larga misura, nelle richieste di impegno finanziario. Siamo a cavallo dello scoppio della prima Guerra Mondiale. Ricordiamo che l’Italia, giovane Stato nella Storia europea, reduce da una campagna di Libia (1911-1913) che aveva richiesto l’impegno di notevoli risorse, si trovava in serie difficoltà nel racimolare i fondi necessari per premunirsi da eventuali tentativi di invasione. Si arrivò a discutere su una cifra di 400 milioni, ma non bastò. Soltanto 198, meno della metà del previsto, furono proposti da Salandra, allora presidente del Consiglio dei ministri. Al che il generale Pollio voltò sdegnosamente le spalle e lasciò libera la carica alla quale era stato nominato. Si fece avanti il generale Domenico Grandi il quale si dichiarò disponibile a mettere in moto la macchina difensiva con la sola dotazione dei 198 milioni proposti da Salandra. Il seguito dei fatti avrebbe poi dovuto dare ragione a quanto previsto dal generale Pollio perché, preso a riferimento il periodo intercorso tra il mese di agosto del 1914 e l’antivigilia della nostra dichiarazione di guerra all’Austria, 22 maggio 1915, il Governo si trovò costretto a far lievitare gli stanziamenti da quella modesta cifra iniziale a una molto più consistente, che toccò la soglia di 1 miliardo e 92 milioni di spese andate ad aggiungersi a quelle ordinarie e straordinarie dichiarate per l’anno finanziario 1914-1915.

La riflessione che desidero riportare sull’episodio sopra esposto riguarda l’assurdità, se non proprio la follia, dimostrata nell’impiego di tanto denaro. Sì, è vero, i tempi volgevano per la coltivazione di timori crescenti sul piano dell’espansione territoriale ed economica, timori fondati, e la cosa non poteva passare indifferente, sui ribollenti nazionalismi di cui i responsabili della politica nutrivano le folle. Ognuno degli Stati chiamati in causa nella lotta a prevalere su un presunto nuovo ordine mondiale puntava l’occhio sui propri vicini e sulle minacce che da quelli si sarebbero dovute attendere con forti probabilità. Ognuno pensò a precorrere i tempi apprestandosi a difesa dei propri confini e a sbarramento dei valichi di transito lungo le dorsali montane. Era lo spirito del tempo, orientato in una direzione di attesa e di diffidenza reciproca a stabilire le mosse da prendere. Non si può dire che fosse un problema soltanto dell’Italia e dell’Austria. Tutte le potenze allora protagoniste della Storia europea davano fondo ai loro avanzi in pecunia per premunirsi contro eventuali attese minacce.
Ma qui mi limito ai fatti di casa nostra e guardo con attenzione alle due realtà che, in Italia, procedevano per molti versi contrapposte: da una parte il Governo con le sue preoccupazioni di bilancio, dall’altra il popolo con i suoi problemi a sbarcare il lunario, proprio quel popolo che fu costretto a immolare sugli altari del conflitto armato più di settecentomila dei propri figli, succube, ancora, di tutte le disgrazie che la guerra si portò dietro: dai feriti ai mutilati agli invalidi agli orfani, alle vedove, ai malati gravi, alle famiglie smembrate, senza più casa e ridotte alla fame.
Ho voluto procedere a un breve confronto di cifre, un semplice computo matematico che mi ha concesso di rendermi conto dell’insensatezza di una realtà dalle dimensioni enormi e di una serie di decisioni prese, si direbbe oggi, contro l’umanità.
Sappiamo di quanto potevano disporre, per vivere, i popolani di quell’epoca: un operaio arrivava a guadagnare appena attorno ai 20 centesimi di Lira all’ora prestando la propria opera e, impegnandosi per dieci ore al giorno, poteva portare a casa, al termine della giornata lavorativa, la sommetta di 2 Lire e con quella mantenere la famiglia. Ci riuscivano, in qualche modo, abituati com’erano alla modestia nelle pretese, ad accontentarsi di un vitto semplice e spesso misero, ripetitivo e poco ricco di sostanze nutrienti, a soccombere alle malattie per mancanza di mezzi adeguati a procurarsi i rimedi indispensabili, a evitare qualsiasi spreco, a rifuggire da qualsiasi anche minimo lusso o attività diportiva-ricreativa.
Tornando dunque al computo matematico e assumendo come base una cifra di 400 milioni, quella corrispondente a un programma minimo di spesa presa in considerazione per porre in essere il progetto difensivo sopra accennato, fatti i dovuti calcoli e confronti con la capacità in guadagno di un operaio dell’epoca, quei 400 milioni sarebbero stati l’equivalente dello stipendio annuo di un operaio moltiplicato per 617.284 anni; in altri termini 617.284 lavoratori della gleba che avessero offerto tutto il ricavato del proprio lavoro di un anno intero senza portare a casa un centesimo per i dodici mesi di impegno.
Ma poi vado ai costi accumulatisi a fine conflitto, nel 1918, soltanto per il nostro bilancio di Stato. Qui non si parla più di milioni, ma di miliardi di Lire del tempo: i calcoli volsero per una spesa totale fra i 94 e i 96 miliardi di Lire, di oltre 150 miliardi se andiamo a enumerare insieme le spese per ricostruire dove languivano i danni di guerra, per pagare le pensioni ai Combattenti e le indennità di guerra, sino ai risarcimenti versati a vari livelli.
Lascio a chi ne sente la necessità l’onere di calcolare quanti benefici sarebbero occorsi alla povera gente se soltanto quelle fortune fossero state usate per agevolare il lavoro nelle sue varie forme in regime di pace, per incrementare la produzione agricola e di tutta una immensa gamma di generi di consumo, per la ricerca tecnologica e la messa a disposizione di macchine capaci di agevolare il lavoro, per esplorare e sintetizzare nuovi mezzi e metodi a garanzia della salute pubblica, per costruire ospedali, scuole e per migliorare il sistema di istruzione e di preparazione professionale nell’intero Paese.
Si fece, invece, tutto il contrario e per affrontare le spese folli di una guerra devastante e foriera di morte dovemmo ricorrere alla cessione di prestiti all’interno, prosciugando le già misere risorse delle famiglie, e all’esterno indebitandoci fino agli ultimi anni ’80 del 1900, sprofondando gli strati sociali più deboli in situazioni di crisi politica e di indigenza portatrici di altre funeste disavventure.
(Riferimenti: Emilio Faldella, La Grande Guerra. Le Battaglie dell’Isonzo 1915-1917, Chiari, Brescia 2005 – Mario Bruno, La grande Guerra. Accadde 100 anni fa, IBN Editore, Roma 2019).
Osservazioni terribili
Spaccati della Grande Guerra, nella cruda realtà
“Frequenti colpi s’udivano d’intorno: brillavano mine, saltavano ponti, crollavano gallerie, franavano strade, cupi rumori sotterranei scandivano le fondamenta, preparavano la fossa. Il cielo non dava una lacrima, ma coperto d’un denso velo come lenzuolo di morte s’incendiava di tratto in tratto in foschi vortici di fiamme: e di tempo in tempo un soffio gelato passava sulla cupa terra”
(Osservazioni di Don Ugo Larice, Libro Storico Parrocchiale di Tolmezzo, appendice 7.1, pag. 271 sulla rotta di Caporetto, citato da A. Dreosti e A. Durì, La Grande Guerra in Carnia, Ed. Gaspari, Udine 2006)
Donne in fuga dopo Caporetto: “Passano i bambini che hanno perduto le scarpine, nella corsa, e pestano i piedini nel fango nero, senza più lagrime perché sono già sommersi nel dolore e nell’ombra. Le madri cupe, discinte, li trascinano, disperatamente. Salvano i nati, come le fiere. Passano giovinette che si attardano nella vana ricerca di un parente. Saranno violentate per via, sui margini dei fossi, dai tedeschi ubriachi, che vincono.”
(Da Attilio Frescura, in Donne nella prima Guerra Mondiale di Bruna Bertolo, Edizioni Susalibri, Torino 2015)
“Per noi l’attesa ora punge. Mancano cinque minuti: giù i parapetti per gli sbocchi. Ancora tre minuti: via i reticolati… Una stretta di mano ai più vicini… e via giù per la china… Gli sbocchi delle nostre trincee vomitano uomini… ma le mitragliatrici nemiche li falciano… Vedo la catena degli uomini che si spezza. Vedo i soldati che vacillano e cadono pesantemente. Qualche caduto tenta di rialzarsi, si trascina carponi, si attacca ai reticolati per tornare in trincea. Molti ricadono e tendono le mani… Il cielo è ferro e fuoco… gli scoppi si susseguono feroci, si confondono, si moltiplicano fra le gole dei monti… Il nostro posto di medicazione è già un carnaio, un ammasso di esseri sanguinolenti frenetici spasmodici. I feriti gravi vaneggiano… l’odore di sangue cresce, si fa irritante, insopportabile… Sono migliaia gli uomini che hanno bisogno d’aiuto… i morti. I più sono irriconoscibili… Si inizia subito un contrattacco nemico… Mi trovo nel centro di un’immane fornace… L’orizzonte è una cortina di fiamme… Non siamo più uomini… I feriti giungono così esauriti da credere che abbiano assistito a un eccidio sovrumano. C’è un attimo di terrore. Corrono le voci più strane… di massacri, di completo annientamento…”
(Dal Cappellano del battaglione Sette Comuni Luigi Sbaragli che visse in prima persona i sanguinosi attacchi sull’Ortigara, in Vita con gli Alpini della “grande guerra” di Alberto Redaelli, Hobby e Work Italiana Ed., Milano 1994)

“I soldati venivano avanti piangendo: Non si ribellavano: quando erano spinti fuori dalle trincee andavano; ma piangevano”
“I morti è meglio che non vedano quel che sono capaci di fare i vivi, e la strada storta che sta prendendo il mondo. È meglio che non si accorgano nemmeno che noi siamo diventati così poveri e tanto miseri che non siamo capaci di volerci bene. No, è meglio che i morti stiano nella neve e nel ghiaccio, e che non sappian di noi; altrimenti potrebbero pensare di essere morti invano, e allora si sentirebbero ancora più soli.”
(Da Gian Maria Bonaldi, Combattente sull’Adamello, In Il fuoco e il gelo. La Grande Guerra sulle montagne di Enrico Camanni, Ed. Laterza, Roma 2014)
“A mezzogiorno circa un rumore sordo attraversò l’aria, un sibilo acutissimo, sinistro, poi un colpo spaventoso sconvolse ogni cosa d’intorno. Un proietto da 380 aveva colpito in pieno il Cimitero. Non si vedeva più nulla. Grida lugubri, disperate, selvagge attraversavano l’aria fatta grigia, giallastra, irrespirabile per il terriccio; e, in mezzo alla fitta cortina che si era abbassata, tavole, mattoni, marmi di tomba, membra di vivi e di morti, cose indefinibili cadevano sul terreno sconvolto. Appena potemmo vedere, un quadro spaventoso, terrificante ci si presentò. Un cratere immenso, le tombe aperte; la configurazione del terreno mutata e, quasi formiche fra la sabbia, soldati a mezzo sepolti che si agitavano disperatamente, pazzi dal terrore, per uscir fuori da quell’inferno donde i morti, smembrati, erano schizzati lontano…”
(Da Mario Ceola, Museo Storico della Grande Guerra, Rovereto, Cronaca del 5 giugno 1916 sul Pasubio).
In Nicola Maranesi (Avanti sempre, Il Mulino, Bologna 2014) leggo la citazione dal diario di Francesco Ferruccio Zattini che scrive a casa dal fronte: “Povere madri, se solo potessero aver cognizione esatta di parte delle sofferenze che sopportano i loro figli, io credo che la rivoluzione scoppierebbe in ventiquattro ore”.
Un ultimo riferimento, tratto da Gerardo Unia che riprende dal diario di un soldato (Verso l’estate del 1917, Nerosubianco, Cuneo 2003), può rendere l’idea delle scene che si presentavano ai soldati in trincea dopo i bombardamenti: “Si apre la bocca per mangiare un boccone e si inghiotte puzzo concentrato di cadaveri. Accanto a me c’è un torso strappato col fegato nero, chiazzato di verde, messo a nudo. Brulica di vermi e le mosche passeggiano dal fegato al mio viso. Ripugnante! Io vorrei portare qui dentro una madre che abbia un figlio in guerra. Io credo che in capo a una settimana non ci sarebbero più né imperatori, né re, né generali.”
Le immagini riproducono le figure dell’imperatore Francesco Giuseppe e del generale Luigi Cadorna.
Superata la soglia dell’umana sopportazione
La guerra di trincea, sul Carso, sull’Isonzo e sulla Catena Alpina imponeva sacrifici enormi, spesso insostenibili anche per la lunga esposizione al nemico, i brevi e scarsi periodi di riposo e la disciplina ferrea imposta dal così detto Cadornismo. Molti Combattenti, esauriti nelle forze e debilitati nel morale, spinti da ordini insensati sino alla spersonalizzazione, persero ogni segno di controllo e si ribellarono alle autorità militari. Erano gli ammutinamenti, di cui vedremo qualche esempio soltanto qui di seguito, rammentando che tale fenomeno non fu prerogativa specifica del nostro Esercito, ma si verificò, in dimensioni anche maggiori, negli Eserciti delle altre Potenze belligeranti. Il 20 aprile 1917 si verificava il primo grande ammutinamento fra le truppe francesi: era il caso di un intero reggimento.
Sul diario dei Volontari Alpini del batt. Morbegno si legge che il reparto si ammutinò in massa. Eppure aveva dimostrato di comportarsi con eroismo nei confronti armati del 1917 sul Vodice e del 1918 sul Monte Solarolo, tanto da poter essere insignito della massima onorificenza militare. All’ultimo aveva trascorso dieci mesi in zona Monte Nero e, dopo questo, anziché ricevere la concessione di un periodo di riposo, fu destinato a fronteggiare il nemico sul Gruppo Ortles-Cevedale (che si eleva nella parte occidentale di quello che oggi è denominato “Parco Nazionale dello Stelvio” aperto verso Nordovest e a Est di Bormio e della Valfurva). La rivolta del battaglione venne sedata a costo di grande fatica.
Lo Storico Guido Poggi (Un anno di guerra a Pal Piccolo, Moro Ed., Tolmezzo 2009) descrive dettagliatamente la triste vicenda occorsa ad alcuni Alpini della Valle del But, in Carnia. Tutto aveva avuto inizio il 23 giugno 1916 con l’ammutinamento della 109a compagnia del batt. Monte Arvenis. Si trattava di organizzare un attacco alla Cima Est del Monte Cellon, tenuta dagli Austriaci. Allorché la truppa ne venne a conoscenza, valutati impossibili i passaggi previsti dal comandante la compagnia, alcuni graduati fra quegli Alpini decisero di far presente al loro capitano l’assurdità delle direzioni di attacco stabilite per la conquista della vetta; chiesero rapporto e ne spiegarono i motivi al capitano, suggerendogli anzi di voler modificare gli ordini impartiti, rifiutandosi apertamente di realizzarne il progetto perché a loro giudizio l’impresa sarebbe da subito stata destinata a un netto fallimento e avrebbe causato numerose vittime fra gli Alpini. Quei graduati erano quasi tutti del posto e conoscevano a meraviglia ogni palmo del terreno e delle pareti da superare. Il comandante la compagnia non ne volle sapere; anzi, decretò di deferire immediatamente ottanta dei suoi uomini al Tribunale Militare Straordinario di Guerra, bollandoli con il reato di atteggiamento rivoltoso. Fu subito instaurata una commissione di inchiesta giudiziaria con sede nella chiesa di Cercivento, non lontano da Paluzza (Carnia, Canale di San Pietro). Il 29 giugno 1916 iniziavano gli atti del processo, prolungatosi sino alla notte del 1° luglio. Nessuna propensione a cercare di approfondire i motivi che avevano spinto i graduati alpini ad avanzare le proprie ragioni, nessuna remissione, nessuna attenuante. Il verdetto fu emesso senza pietà: 4 Militari condannati a morte, 29 al carcere; degli altri 47 l’assoluzione pervenne soltanto a cinque. I quattro condannati alla pena capitale furono frettolosamente passati per le armi verso l’aurora, appena due ore dopo la dichiarazione della sentenza. Caddero ai piedi del Cimitero di Cercivento, nonostante avessero in precedenza dato prova e conferma di valore dimostrato in guerra e del coraggio con cui sapevano gettarsi nelle imprese più rischiose. Più tardi ci fu chi, in qualità di pronipote di uno dei giustiziati, rivolse istanza di riabilitazione al Ministero della Difesa, ma ottenne come risposta che la domanda di riabilitazione si sarebbe dovuta inoltrare per mano degli interessati. Anche una petizione rivolta al Presidente della Repubblica non ebbe esito concreto. Addirittura si verificò un fatto assai dubbio, quello della sparizione di alcune pagine dal Diario storico-militare della 109a compagnia, quelle che si riferivano espressamente alla tragica vicenda. La compagnia di cui trattasi era comandata dal cap. Cioffi coadiuvato dal subalterno ten. Pasetti. In seguito all’accaduto i due ufficiali furono trasferiti.
Si viene tosto a sapere che il 7 luglio, appena trascorsi pochi giorni dall’infame sentenza, la giustizia impietosa pose fine all’esistenza del capitano, per mano di ignoti. La stessa cosa fu riservata al tenente di cui si è detto, trascorsi soltanto pochi altri giorni.
Era il 17 maggio 1917 quando si parlò di un ammutinamento nel 4°regg. Bersaglieri: dei nove indiziati nella rivolta, due furono condannati a morte e gli altri sette a venti anni di carcere: ne fa menzione il gen. Angelo Gatti, segretario particolare del gen. Cadorna, nel proprio lavoro Caporetto. Diario di Guerra (Ed. Il Mulino, Bologna 1997). Il generale Gatti riporta ancora, in una triste rassegna, i casi di ammutinamento, diserzione e passaggio al nemico, portando a esempio quello della brigata Puglie dove circa ottocento nostri soldati, in zona Timavo, il 29 maggio 1917 erano passati al nemico. Si dice, tanto per fare il punto sull’atmosfera che quei poveracci erano costretti a respirare, che il comandante della Puglie, gen. Tettoni, fosse solito portare al macello i propri soldati, spingendoli all’attacco senza le benché minime cautele né misure tattiche adeguate. Ed erano persone che trascorrevano settimane e mesi in trincea: alcuni di loro da 17 mesi non avevano più goduto di una licenza. Prosegue ancora, il gen. Gatti, con il rimarcare la stanchezza cronica che pesava sui soldati, confusa con il loro stato di rassegnazione e di abulia indotta con la prepotenza e con le pesanti sanzioni.
Alcuni comandanti di reparto ricorrevano all’impiego di mezzi estremi per costringere i propri sottoposti ad avanzare sul campo di morte: ne furono esempio eloquente le fucilazioni comminate tra le fila del 74° regg. Fanteria, gli undici Militari del 117° fucilati poco prima dell’attacco, il battaglione del 71° Fanteria passato al nemico, e l’ammutinamento verificatosi nel 141° reggimento.
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