Quando l’uomo aprirà gli occhi della mente…
Le notizie divulgate questa mattina mi fanno tornare con immediatezza a un’asserzione di Arthur Schopenhauer: “È ben facile pensare come tutto il mondo pensa, ma pensare come tutto il mondo penserà fra trent’anni non è da tutti.”
Accade oggi, infatti, che quanto viene rilevato attorno all’andamento del clima su tutto il globo terracqueo riporti indietro di almeno quindici anni il corso delle osservazioni su questo impellente problema.
Il 15 e il 16 marzo del 2005 si riunivano a Londra i ministri dell’ambiente di numerose Nazioni di tutto il mondo, i quali prendevano di petto la questione delle emissioni di biossido di carbonio in questi termini: si era stabilita una soglia limite, indicata con la quota 400 ossia 400 parti per milione, al di là della quale nient’altro che il precipizio. Il superamento delle 400 parti per milione di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre avrebbe significato che il riscaldamento globale della Terra sarebbe stato più veloce del previsto e avrebbe provocato, come in effetti dimostrò, alluvioni, desertificazioni, scioglimento rapido dei ghiacci. Che cosa può comportare tutto ciò? Significa che se si arriverà a superare le 400 parti di anidride carbonica per un milione di parti di aria, avremo raggiunto quello che è stato indicato come il punto del non ritorno.
L’Europa da sola, nel 2005, produceva oltre 35 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Arriviamo al mese di aprile 2014, quello che diede a registrare la maggior concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera di tutta la Storia dell’umanità. Il livello di CO2 superava bellamente e in modo costante le famigerate quattrocento parti per milione.
La storia delle Conferenze per parlare dei cambiamenti climatici va a datare lungamente e stancamente nel corso di numerosi decenni ormai: dal Protocollo di Kyoto nel 1997 alle Conferenze di Bali nel 2007, di Copenaghen nel 2009, di Bonn e, a seguire, Città del Messico, New York, Ginevra, Tianjin, Cancun, fino a quelle di Panama nel 2011, di Varsavia nel 2013, di Lima nel 2014 e all’Accordo di Parigi nel 2015, le cui previsioni e promesse furono largamente disattese.
A fine 2012, prima che arrivasse a esaurimento, il Protocollo Di Kyoto veniva esteso sino al 2020, ma l’impegno a ridurre ulteriormente le emissioni di gas serra era tuttavia mantenuto soltanto dall’Unione Europea e da pochi altri Paesi. Decidevano di restarne fuori i Paesi “grandi inquinatori” come la Cina, gli Stati Uniti d’America, il Giappone, il Brasile, l’India.
A quel ritmo di inquinamento dell’atmosfera che cosa si sarebbe potuto prevedere? Niente meno che lo scioglimento crescente dei ghiacciai e gli oceani sempre più caldi. Il rapporto che così si esprime scaturisce da una sintesi di settemila relazioni scientifiche provenienti da 36 Paesi; drastico, ineluttabile, non lascia dubbi sulla crisi climatica: oceani più caldi e acidi, ondate di calore, piogge e cicloni devastanti, isole sommerse, 80% e oltre il rischio di scomparsa dei ghiacciai. “Entro il 2050 più di un miliardo di persone vivranno in zone soggette a inondazioni su larga scala, cicloni e altri eventi estremi”. Sintomo allarmante: all’inizio del XXI secolo il livello dei mari è aumentato a una velocità due volte e mezzo superiore a quella rilevata nel XX secolo e continuerà ad aumentare soprattutto in conseguenza della riduzione delle calotte glaciali.
Alla data del 6 giugno 2020 le cose sembrano non voler migliorare. Il mese di maggio appena scorso è stato il più caldo di sempre, facendo registrare temperature di 0,63°al di sopra della media dello stesso mese calcolando il periodo dal 1981 al 2010. In Siberia la temperatura è aumentata di 10° oltre la media mentre, come riferisce il bollettino Copernicus, in Europa le temperature si sono mantenute al di sotto della media. Fatte le dovute differenze, diciamo pure che il mese di maggio 2020, oltre ad aver conseguito il primato del caldo, ha pure raggiunto il record delle emissioni di CO2 nell’atmosfera: un record assoluto di concentrazione di anidride carbonica a livello globale: abbiamo parlato del punto di non ritorno, equivalente al raggiungimento delle 400 parti per milione; ebbene, siamo riusciti a toccare il picco di 417,1 parti per milione ossia 2,4 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La notizia perviene dalla Organizzazione Mondiale di Meteorologia (WMO) e, tutto sommato, non mi lascia affatto tranquillo.
Pensando a ciò che lasceremo ai posteri.
(Da Greenpeace): Gli insetti impollinatori, in particolare le api, sono in pericolo. Stiamo privandoci, in una corsa sempre più sfrenata, dei nostri alleati pronubi. Due terzi delle colture a scopi alimentari e la maggior parte delle specie vegetali selvatiche dipendono dall’impollinazione di insetti come le api e i bombi. Il lavoro di questi preziosi insetti è alla base della biodiversità vegetale e dell’abbondanza delle colture. Ma l’equilibrio venutosi a creare in milioni di anni di evoluzione ora è a rischio: le api di tutto il mondo stanno morendo. Le cause sono tante: dall’inquinamento globale al cambiamento climatico, all’agricoltura intensiva fino alle attività consumistiche dell’uomo.
Il problema dell’estinzione delle api ha già colpito la Cina e l’emergenza è stata tamponata con il processo di “impollinazione manuale”. Se le api scompaiono saremo costretti a impollinare a mano molte coltivazioni, come già accade in certe zone della Cina in cui le api sono estinte: ogni giorno migliaia di braccianti agricoli si armano di pennelli e salgono sugli alberi per fare il lavoro delle api.
Un altro grave problema riguarda i bombi; nei campi ce ne sono sempre meno, decimati dalle stesse malattie e calamità che colpiscono le api. Da tempo le popolazioni di insetti impollinatori, domestici e selvatici, sono in declino in tutto il pianeta. La perdita di questi insetti ha gravi conseguenze economiche e ambientali, perché gli impollinatori garantiscono la produzione agricola e sono indispensabili per la conservazione degli ecosistemi. Gli studi compiuti in laboratorio hanno dimostrato che il virus dwv e il fungo N. ceranae possono infettare gli insetti selvatici e in particolare il Bombus terrestris. Le ricerche svolte sul campo, nel Regno Unito e sull’Isola di Man, hanno confermato che i bombi selvatici sono spesso colpiti dalle due malattie. Un terzo di ciò che mangiamo non esisterebbe senza il lavoro delle api. “Se l’ape scomparisse dalla faccia della Terra, all’uomo non resterebbero più di quattro anni di vita”: può sembrare terribile davvero la celebre frase attribuita ad Albert Einstein.
Da altra fonte emerge che enormi masse di ghiaccio dell’Antartide stanno fondendo e il processo, che ha ormai superato la soglia del non ritorno, progredisce in modo esponenziale. Soltanto tra 150 anni potremo sperare in un suo rallentamento, non nel suo esaurimento e, intanto, che accadrà? Vogliamo pensare anche alle falangi di affamati e disperati che, fenomeno collaterale non meno preoccupante, aumenteranno la pressione ai nostri confini, alle nostre dimore?
Distruggere inesorabilmente un ecosistema planetario senza speranza di rimedio per godere di un benessere economico ora, qui, subito, in senso prevalentemente egotistico vuol dire perversione sadomasochistica di stampo diabolico, vuol dire follia, scelte demenziali, coscienti e irresponsabili.
Prospettive infernali
Andiamo proprio male, nulla ci manca per fare il salto finale nel buio. Ormai siamo bersagliati da più parti, non terminiamo di attrezzarci contro un’insidia mortale, che ce ne piomba un’altra fra capo e collo. Sembra ripetersi la serie delle dieci piaghe che infestarono l’Antico Egitto, come descritto in Esodo (cap. VII, 11). Una, almeno, sicuramente la registriamo ai giorni nostri: l’invasione di cavallette. Sono veri e propri eserciti divoratori, di miliardi di cavallette che si spostano alla ricerca di che nutrirsi, e così facendo invadono le terre e le colture faticosamente curate dagli uomini. Ora stanno letteralmente divorando i frutti dell’agricoltura nel Corno d’Africa le cui popolazioni, tanto per restare in argomento, sono già vittime di una endemica carestia. Emerge qui ancora il ricorrente motivo di fondo, quello della crisi climatica che si dimostra responsabile della direzione pazza intrapresa dal nostro Pianeta e dai suoi abitatori. L’attuale migrazione delle “locuste del deserto”, di eccezionali dimensioni, sta minacciando, vista la valutazione della FAO, “la sicurezza alimentare di almeno venti milioni di persone”. Di aiuti concreti si sa poco o nulla. Di interventi, si è attutata una terapia d’urto con l’uso massiccio di pesticidi, ma la cosa non ha dato risultati efficaci e non ha fatto altro che portare devastazione all’ambiente naturale.
Su più vasta scala, ormai di estensione mondiale, assistiamo alla propagazione rapida quanto malefica del coronavirus COVID 19 al cospetto della cui minaccia restiamo inermi, con gli occhi sbarrati, non avendo ancora un vaccino a nostra disposizione. In quest’altro contesto possiamo anche pensare a una prima incursione virale, che sarà seguita da altre, altrettanto se non più perniciose per la salute e la sopravvivenza dell’uomo, dovute alla fusione dei ghiacciai polari. Ghiacciai che nel corso dei secoli serbarono in cattività una serie di generazioni virali, forse anche quella della cosiddetta Spagnola. Scomparendo le masse ghiacciate, enormi colonie di virus ibernate nel corso della storia verranno repentinamente dimesse e lasciate libere di propagarsi nell’atmosfera. Il vaso di Pandora: ne avremo (ne avranno) da vedere ancora delle belle!
Ma ci sono altri mostri mortiferi che incombono sulla felicità perduta del genere umano. Nei prossimi venti anni, in tutto il mondo – riporto da un enunciato della Organizzazione Sanitaria Mondiale in occasione della Giornata Mondiale del cancro – se non si verificherà un cambiamento di rotta, assisteremo a un incremento dei casi di tumore nella misura del 60% rispetto a oggi, con punte dell’81% per i Paesi più poveri. E viene da pensare, dal modo e dalla celerità con cui vanno le cose, che altri terribili flagelli cadranno a oscurare le sorti dell’umanità intera. A me fa impressione quella affermazione che suona nelle parole “un cambiamento di rotta”: è precisamente quel che sostengo da molto tempo, ossia, se non ci fermiamo noi, ci penserà Madre Natura a fermarci, e ha già incominciato a farlo. Illudiamoci di accarezzare la chimera di una crescita costante dell’economia e del benessere; siamo maestri di incuria, di indifferenza, di egoismo, di guerra e di distruzione a tutti i livelli. Che cosa chiediamo di più alla nostra capacità di valutare il passato, di gestire il presente e di prevedere il futuro?