I bambini possono ancora essere bambini?
Quando iniziai la mia carriera di insegnante vigeva ancora il servizio di doposcuola, vera oasi di lavoro per i molti neodiplomati in cerca di occupazione e a caccia di punti per l’avanzamento nelle graduatorie del settore.
Oggi i genitori di due bambini, che parlassero della cosa, potrebbero dar luogo a questo colloquio: “Mandi anche tu tuo figlio al doposcuola?” – “No, io l’ho iscritto al dopascuola!”.
Chiedo perdono per questo prologo all’apparenza sbilanciato e poco serio, ma drammatico per i significati di cui si riveste e che desidero portare alla luce. Qualche volta, d’altra parte, è giocoforza iniziare con una battuta semi ironica, per non piangere.
Si è parlato, ormai da anni, di un argomento che ha toccato da vicino i miei interessi in fatto di ortopedagogia, così che sono andato a scaricare da Internet copioso materiale che mi dicesse qualcosa in più sull’ADHD.
Che cosa ho appreso?
- che l’acronimo sta per “disturbo da iperattività e difficoltà di attenzione;
- che ADHD è un movimento del quale fanno parte numerose famiglie preoccupate per i disturbi di comportamento e di adattamento sociale che colpiscono – o potrebbero colpire – i loro figli;
- che si tratta di un’iniziativa con uno scopo principale, quello di scongiurare un’esperienza infelice per i bambini a motivo di difficoltà ad autocontrollarsi, ad autogestirsi e a rapportarsi con gli altri.
Fin qui non vedo come possa essere giudicata negativa, dannosa e pertanto da condannarsi la posizione di questi genitori attenti all’educazione e alla crescita equilibrata dei loro bambini.
Incominciano tuttavia a girarmi intorno alcune perplessità nel momento in cui vado a scoprire quali sarebbero le strade percorribili e quali i mezzi utilizzabili per il superamento del problema. Su una pagina web (www.epicentro.iss.it/problemi/attenzione/registro.htm) leggo che già nel 2003 si tenne, a Cagliari, un congresso di addetti ai lavori per discutere la delicata questione. Dagli atti di quella conferenza emerse la volontà di aprire un Registro nazionale per l’ADHD, attivo a muovere dall’anno scolastico 2004/2005. La lettera di questo documento, se non vado errato, non dice di cose stravaganti, ma si interessa di procedimenti legittimi, necessari e auspicabili quali la diagnosi, il trattamento con la compartecipazione di tutti gli adulti che sono preposti all’educazione dei bambini considerati bisognosi di cure particolari.
Così, fino a quando i miei occhi non cadono su un paio di parole sospette – metilfenidato, Ritalin – e allora ripenso a tutto ciò che ho letto in precedenza.
Sì, va bene, si ricorre a tali prodotti solo per prescrizione medica, con la massima cautela e per i casi che siano emersi in seguito ad accurati accertamenti, nei casi disperati vorrei aggiungere.
Gli esperti in ambito neuropsichiatrico tendono a mettere a fuoco una svariatissima gamma di disturbi comportamentali in età infantile per raccoglierli con una sigla – ADHD, appunto – che sta a indicare una sindrome complessa, classificabile nell’ambito delle patologie psichiatriche.
C’è, peraltro, chi afferma l’assoluta inesistenza della sindrome da ADHD (www.newmediaexplorer.org/ivanin). Io credo il contrario: esiste eccome, ma è solo un altro modo di etichettare quella che è sempre stata conosciuta come difficoltà di adattamento scolastico e sociale. C’è, ancora, chi va a catalogare con estrema sicurezza il fenomeno nella casistica dei disturbi neurobiologici interessanti alcune aree encefaliche, ravvisandone la manifestazione in una distorta elaborazione delle risposte che l’individuo colpito assocerebbe agli stimoli ambientali. E c’è chi vorrebbe inscrivere il disturbo nella storia genetica delle trasmissioni ereditarie, escludendo del tutto l’intervento di fattori esterni presenti nel contesto, primo fra i quali lo stile educativo adottato in seno alla famiglia.
Ma, quando si sia pervenuti a una diagnosi del genere, ci si domanda: che fare?
Mentre anch’io mi porgo questa domanda in forma di ipotesi, rimando il pensiero ai tempi della mia infanzia e rivedo come i nostri maestri e i nostri genitori ci “tiravano su”. Serietà, prima di tutto, poi chiarezza d’intenti, determinazione, così si fa e poche storie, altrimenti erano punizioni, quando non botte.
Ma siamo matti, che cosa c’entra? Già, oggi ti becchi una denuncia se molli un calcio a un cane che minaccia di azzannarti; provati a lasciare andare un ceffone a tuo figlio in pubblico, o anche non in pubblico, ci sarà sempre un telefono azzurro o di qualche altro colore a inchiodarti lì dove sei.
Eppure siamo cresciuti ugualmente, io e quelli della mia epoca, pur fra privazioni di vario genere, eccessiva semplicità di vita, severità educativa, paure dei bombardamenti, disgusto per l’olio di fegato di merluzzo… e senza Ritalin. Siamo cresciuti, non siamo diventati stupidi né sprovveduti, e abbiamo afferrato a piene mani le nostre responsabilità, facendocene portatori e testimoni nel corso del nostro lavoro di ogni giorno.
Oh, sì, i tempi sono cambiati! E chi afferma il contrario!? Ma i bambini, se a tutti paiono molto diversi, in fondo in fondo non sono cambiati. Nell’intimo della loro personalità e dei loro vissuti sono sempre creature fondamentalmente bisognose di affetto, di sicurezza, di fiducia, di protezione.
Hanno tutto, si dirà. E in effetti è vero. Hanno tutto il superfluo, meno l’essenziale. Nella ricerca affannosa della propria identità, sommersi da una marea confusionaria di sostituti materiali, di illusioni ripetute, di promesse mai mantenute, un giorno invecchieranno e, in momenti di amaro sconforto, penseranno a papà e mamma e lanceranno un grido soffocato: “Quando avevo bisogno, tu dov’eri? Di te avevo bisogno!”.

Perché dico queste cose, perché uso questo tono? Per impietosire, per allarmare, per colpevolizzare, per muovere a compassione? Nulla di tutto questo. Semplicemente per toccare un tasto sul quale ben pochi si soffermano a riflettere. I nostri figli non hanno bisogno di cose, di regali, ma di un po’ del nostro tempo da dedicare loro con amore genuino, un po’ di tempo per parlare con loro, per giocare con loro, per stare in loro ascolto, per comprendere i loro bisogni, le loro ansie, le loro gioie, per assaporare il piacere reciproco della compagnia e del fare alcune cose importanti insieme.
Non mi fraintendete: non è mia intenzione voler sdottorare che i genitori di oggi siano tutti sbagliati. Secondo me sono solo assai sbadati, almeno per una buona parte. Nel senso che pigliano tutto quel che una propaganda assordante, ipocrita e a buon mercato propina loro e non sanno discriminare fra ciò che è fondamentale, sovrabbondante o addirittura nocivo per i loro figli. A iniziare dai loro stessi comportamenti nei confronti dei figli. Per dirne una, hanno disimparato, alcuni, a far uso della parola “NO!” e i bambini si formano la convinzione che tutto si può avere, in caso contrario basta inscenare un pianto disperato; hanno appreso che la rinuncia a ciò che non è necessario, la soddisfazione differita di un desiderio sono cose impensabili; che la richiesta di impegno, di sforzo e fatica nell’assolvimento dei doveri scolastici è cosa da ridere. Forse molti genitori danno o credono di dare tutto ai propri figli per eccesso di zelo o, chissà, per soffocare i morsi di qualche mal definito senso di colpa – oh, bisogna fare attenzione, occorre il massimo riguardo, badate che non accada qualcosa al vostro figliolo che lo traumatizzi – forse invece lo fanno per opportunismo, per avere buon gioco nel godere della propria libertà e nel dare sfogo ai desideri di evasione. Non dicono più “no” ai figli perché hanno smesso di dire “no” a se stessi. Non fanno dunque che alimentare, in conclusione, il falso senso di onnipotenza dei bambini, favorendo in essi la formazione di un Sé personale che ben poca familiarità può avere con quello che un tempo si usava definire “esame di realtà”. Le difficoltà più vistose insorgono nel periodo della frequenza scolastica allorquando – e questo lo sanno bene gli insegnanti – le richieste istituzionali attinenti ai doveri da espletare e ai comportamenti da adottare urtano con le abitudini e con lo stesso stile di vita di alcuni alunni. Soprattutto quando manca la collaborazione dei genitori i quali molto spesso si irrigidiscono o reagiscono in modo irrazionalmente protettivo nei confronti dei propri figli e delle loro mancanze. Per mio vezzo sono solito proporre l’eufemismo del treno: il suo percorso sarà efficace e andrà a buon fine sin tanto che le rotaie del binario correranno nella stessa direzione; se una delle due diverge, il treno vedrà svanire ogni possibilità di proseguire, o si cimenterà zoppicando, sino a fermarsi.
Alcune situazioni interattive danno modo di pensare che ci sia stato, negli ultimi anni sino a questa parte, un calo di autorevolezza in certi insegnanti. Oggi, per le nuove generazioni, sono necessarie cure d’urto, non supportate dalla somministrazione di psicofarmaci, ma dal nostro rimboccarci le maniche. Non dico che si debbano invocare sistemi di rigore carcerario o di vittoriana austerità. Dico solo che ha da essere arrestata, subito, la corsa al ribasso nelle richieste che rivolgiamo ai giovani, che per loro è causa di male. La Scuola, purtroppo, per la tranquillità di tutti è scivolata in una palude infida, quella dell’abbassare le soglie delle richieste di prestazione intellettuale e di adeguarle alla rilassatezza generale degli studenti e del contesto sociale di appartenenza. È un indirizzo errato, che non porta da alcuna parte. Gli insegnanti devono riappropriarsi della grande dignità professionale che investe il loro mandato, del potere educativo e della credibilità che conferisce loro la facoltà di tradurre in realtà concreta e in cultura di sostanza le intese con le quali hanno intessuto i loro piani di lavoro.
Lascio qui questa parte, perché il discorso rischierebbe di farsi lungo fuori misura. Piuttosto tornerei a quel che riguarda la somministrazione di psicofarmaci ai bambini. Non nego, torno a dire, che esistano casi di una gravità tale da consigliare il ricorso a tali mezzi, ma credo si debba trattare di vere eccezioni, e comunque di episodi doverosamente sottoposti a controlli da parte di personale di indiscussa competenza e onestà professionale, perfettamente affidabile dunque. L’anomalia sta nella generalizzazione di questo atteggiamento dal momento che da essa può essere incoraggiata una crescente dimestichezza con l’uso del farmaco miracoloso che risolve di botto ogni dolorosa contingenza: una pillola al mattino prima di andare a scuola, e noi stiamo tranquilli. Bambini dopati e malridotti da malaccorte pratiche sportive ne vediamo già troppi, ci mancherebbe solo più che siano le preoccupazioni scolastiche a convincere i genitori a dopare i figli!
Ma, poi, da qualche parte leggo: nell’età che va dai 12 ai 20 anni il disturbo da ADHD svanisce spontaneamente. Proprio sicuri? Nulla di che preoccuparsi? Al contrario, semplicemente il problema viene camuffato e si ripresenta in altre sembianze: certi studenti continuano ad andare male a scuola; non sembrano più ipercinetici o deconcentrati, ma in realtà ciò accade perché in loro si sono risvegliati nuovi interessi che li spingono in altre direzioni, per sventura non ancora quelle che una buona istruzione auspica. I loro occhi sono impegnati sugli sms del telefonino, la loro testa vaga altrove. La scuola è così lontana, tanto, a che cosa serve? Alla fine, in un modo o nell’altro, “passano” tutti, non si boccia più.
Ribadisco e chiudo: c’è un antidoto, ed è un antidoto insostituibile, quello che risiede nella donazione di noi stessi ai nostri figli. Se non torniamo a rivestirci di una genuina funzione genitoriale, nel senso di riapprendere a rinunciare a gratificare il nostro individuale immediato narcisismo e a scegliere di dedicare il meglio di noi ai nostri bambini, verrà un momento che il dopaggio da metilfenidato non basterà più.
Barge, 09 gennaio 2006
Mario Bruno