Una minaccia incombe sul Trentino
Sono trascorsi più di cent’anni e l’anno nuovo iniziava con fosche nubi che si affacciavano dal nord delle Alpi, minacciose e presaghe di gravi sventure. Si stava preparando niente meno che un’invasione in grande stile del territorio italiano, che l’Esercito austro-ungarico avrebbe dovuto scatenare per mettere l’Italia fuori gioco sullo scacchiere del Grande Conflitto e per punirla della sua defezione, in quanto ritenuta fedifraga dopo che il Governo italiano aveva deliberato l’entrata in guerra a fianco dell’Intesa.
Da parte nostra si aveva sentore di quella minaccia? Le nostre divisioni erano preparate ad affrontare l’urto previsto? L’assetto strategico e logistico era adeguato a fronteggiare una situazione, come poi si dimostrò, assai critica?
Il generale Cadorna, capo dello Stato Maggiore dell’Esercito, aveva idee chiare su quanto sarebbe potuto accadere. Non altrettanto poteva dirsi, però, sul piano politico.
Italia e Austria, in realtà, erano state vicendevolmente legate, insieme alla Germania, da ben 33 anni con il Patto della Triplice Alleanza, ma gli irriducibili nemici storici, Italia e Austria, si guardavano con occhio torvo e nutrivano reciproca diffidenza. Il 4 maggio 1915 noi avevamo denunciato il Patto della Triplice, dopo aver stipulato l’ingresso nell’alleanza franco-anglo-russa con il patto di Londra del 26 aprile. L’impegno, per l’Italia, era che essa sarebbe entrata in guerra nel giro di un mese dalla firma del trattato ossia entro il 26 maggio 1915. Ma, cosa che sa di grottesco oltre che di illogico, da questo giro di decisioni l’apparato esecutivo, vale a dire il gen. Cadorna stesso, era stato lasciato ai margini. Allorché a maggio inoltrato fu finalmente informato della decisione assunta dal Governo italiano, Cadorna valutò immediatamente non poter garantire la preparazione dell’Esercito prima della data del 20 maggio. In realtà si era provveduto alla mobilitazione, che ancora doveva definirsi occulta, sin dal 4 maggio, alla data medesima della denuncia del Trattato della Triplice Alleanza.
Quando, il 18 maggio, l’Austria procurò di spostare ingenti forze sul confine italiano, per noi già si profilava un nostro ritardo nel ricorrere ai provvedimenti urgenti del momento. Sì, il nostro Esercito c’era, ma gli mancava la preparazione per affrontare un confronto armato vero e proprio. Non essendo stato messo al corrente a tempo debito degli sviluppi decisionali, Cadorna si trovò veramente alle strette con i tempi e incontrò serie difficoltà nello sforzo di garantire forze adeguate e pronte al combattimento che si stava profilando all’orizzonte degli eventi.
Fatti tutti i calcoli e tratte le conclusioni, si va a considerare che il 18 maggio, allorquando l’Austria si stava efficacemente preparando sulla linea frontaliera, per noi già si registrava un buon mese di ritardo. Questo evento comportò anche l’occupazione puntuale, da parte dei nostri avversari, di punti strategici in altura assai ambiti che costituivano ottime opportunità di controllo e che costarono a noi sacrifici immani nei tentativi perpetrati nei mesi successivi per sottrarli al nemico. Così avvenne, come in una gara che costringa il concorrente tardivo a inseguire e a calpestare terra bruciata. I fatti insegnarono che sarebbero occorsi almeno 35 giorni per avere l’Esercito pronto e già radunato sul campo, cosa che aveva tutto dell’immaginario.
Le nostre 25 divisioni schierate sul fronte avrebbero per giunta incontrato gravi problemi in conseguenza del trasferimento di ingenti forze austro-ungariche dai Carpazi, dopo la disastrosa sconfitta russa di Gorlice-Tarnow. Accadde così che da parte nostra si dovette accantonare la speranza di un consistente aiuto da parte dei Russi; anzi, i fatti volsero in modo tale che fummo proprio noi a doverci accollare il peso della pressione austriaca sui nostri confini per alleggerire l’Esercito russo dalle enormi contingenze negative che avevano preso le mosse dai fatti d’armi in Galizia.
Non era certo ciò che il gen. Cadorna si era prefigurato. Anzi, si stava come ribaltando la sua visione precedente di come si sarebbe dovuto evolvere l’andamento del conflitto.
Persino l’Esercito serbo se ne stava perfettamente inattivo. A muoverci eravamo noi soltanto e ci trovammo subito a confrontarci con problemi inattesi, svanite le speranze in una collaborazione efficace da oriente. Cadorna dovette temere un attacco repentino da parte dell’Austria la quale avrebbe potuto approfittare di una situazione favorevole alle proprie intese e dei ritardi di cui aveva intuito l’esistenza nella mobilitazione del nostro Esercito. Tutto ciò indusse il nostro Governo ad accelerare i tempi, ma, come quando si fa qualcosa di tutta premura perché si ha timore di perdere un appuntamento, e si finisce per farla male, così successe che si procurarono spostamenti prematuri e affrettati di truppe e materiali, con tutto il seguito di confusioni che, anziché restringere i tempi, li allungarono. Ne provenne che la radunata del nostro Esercito non fu completata prima del 15 giugno. A quella data non si era ancora al massimo dell’efficienza: gravi carenze settoriali di materiali e di servizi offrivano una panoramica piuttosto offuscata della potenza combattiva.
Si ponevano le premesse per un’ombra di morte che avrebbe dovuto incombere su tutto il 1916 con la tentata invasione austriaca della pianura veneta nel maggio-giugno da una parte e, dall’altra, con l’ecatombe di Verdun nella mattanza d’uomini che si protrasse da febbraio a dicembre.

L’ulteriore carneficina, non dissimile per proporzioni e crudeltà degli esiti, doveva compiersi sul Carso dove gli Austriaci avevano curato la disposizione di punti di resistenza e postazioni di artiglieria forti del vantaggio dell’occultamento e della precisione di tiro. Era qui che i nostri Fanti cadevano, a decine, a centinaia di migliaia, schiacciati dal volume preponderante del fuoco nemico che sbaragliava loro il passo e faceva facile bersaglio di quella massa di uomini lanciati in attacchi suicidi senza un minimo di tattiche protettive.
Le nostre offensive per tutto il 1916 diedero risultati molto limitati e costarono sacrifici enormi, sproporzionati di vite umane. Già all’inizio del 1916 l’Esercito italiano lamentava gravi perdite per l’insufficiente disponibilità di complementi. Per giunta doveva mettersi di mezzo pure la questione macedone, là dove l’Italia fu chiamata a inviare due divisioni di soldati in Albania per dare una mano all’Esercito serbo in rotta.
Avevamo reparti sottodimensionati, non adeguatamente attrezzati di armi automatiche. I nostri soldati al fronte, poi, erano costretti a lunghi e spossanti turni di trincea, proprio a motivo della penuria di rincalzi. Persino l’armamento individuale non arrivava a soddisfare l’intero fabbisogno. Era una situazione generale che sarebbe dovuta durare sino alla primavera del 1916, quindi possiamo soltanto immaginare quali potessero essere state le condizioni operative in cui erano costretti a combattere quei giovani di cent’anni fa e, per conseguenza immediata, quali potessero essere stati il loro clima morale, la fiducia nella vittoria, la speranza di tornare a casa e lo stesso orgoglio nazionale che avrebbe dovuto spingerli all’azione senza ripensamenti e senza soluzione di continuità.
Un anno di guerra spietata
Un secolo è trascorso e, per i nostri Combattenti al fronte, si apriva un anno dai risvolti dolorosissimi. Non solo, ma persino l’assetto organizzativo delle nostre formazioni lasciava alquanto a desiderare. Per tutti i primi tre mesi dell’anno venivano rilevate profonde lacune nella forza del nostro Esercito a partire dalla riduzione degli organici, dalla incompleta dotazione di armamenti, di munizionamento individuale e per l’artiglieria, dai prolungati e massacranti turni in trincea sino alla scarsità dei rifornimenti.
Il 1916 si era appena affacciato sullo scenario della Grande Guerra che già si potevano vedere schierati sulla linea di confronto 200 nostri battaglioni in possesso di 1300 cannoni contro i 116 battaglioni austro-ungarici che disponevano di 650 bocche da fuoco. Presso i confini delle Alpi Orientali il conflitto divampò dapprima in Conca di Plezzo: fu il Monte Rombon a segnare quei momenti di Storia in veste di funesto protagonista per i nostri Alpini, Bersaglieri e Fanti quando, il 12 febbraio, gli Austro-ungarici presero l’iniziativa superando i nostri punti di resistenza e impadronendosi della vetta del Monte Cukla. Di là dominavano ampi spazi della sottostante Conca di Plezzo e avrebbero avuto buon agio per controllare e contrastare le nostre operazioni.
Quasi contemporaneamente, poco oltre la frontiera belga, il 21 febbraio si scatenava nella zona di Verdun, in Francia, un inferno di ferro e fuoco che avrebbe inghiottito uomini, materiali e risorse naturali in un rogo devastante, ininterrotto, sino alla fine dell’anno.
Il triste binomio Cukla-Rombon divenne per i nostri Combattenti un simbolo perenne di estremo sacrificio. Qui le forze in lotta si batterono in scontri cruenti, micidiali. Gli Austro-ungarici erano ricorsi a una strategia che, da una serie di indizi, si sarebbe potuta definire diversiva: si fecero vedere presenti e minacciosi sul fronte dell’Isonzo, molto probabilmente per non dare a intendere, ai Comandi italiani, che già andavano ventilando un’intenzione piuttosto solida, quella di discendere con l’impeto di una valanga dai monti dell’Alto Adige e del Trentino con lo scopo di infliggere al nostro Esercito una sconfitta umiliante.

Era la preparazione della Strafexpedition, come volle definirla il generale Conrad von Hötzendorf, ossia una spedizione punitiva per sanzionare l’Italia che, tacciata di alleanza fedifraga, il 3 maggio 1915 aveva denunciato il Trattato della Triplice Alleanza con Austria e Germania per passare dalla parte dell’Intesa: Francia, Inghilterra, Russia e dichiarare, contemporaneamente, guerra all’ex alleata Austria.
Fu così che le truppe austro-ungariche si mossero, a partire dal 17 marzo 1916, spingendosi con insospettata irruenza lungo tutta la dorsale che, a iniziare dal Rombon (nell’immagine), puntava al Mrzli, a Santa Maria e a Santa Lucia di Tolmino. Era il presagio di una sorpresa disastrosa che avrebbe travolto le nostre linee di difesa avanzata, a oltranza e d’Armata diciannove mesi appresso. Nella maggior parte dei casi si trattava di un va e vieni di conquiste, perdite e riconquiste dettate dalle alterne fortune e dall’impiego puntuale di opportune abilità tattico-strategiche degli schieramenti contrapposti.
Erano ormai evidenti tutti i presupposti di una guerra che, anziché risolversi in poche settimane come le più accreditate ottimistiche stime avrebbero voluto far prevedere, si trasformò ben presto in una guerra di trincea, di confronti ravvicinati, di quotidiano logoramento.
Così accadeva peraltro sull’Alta Carnia ancora, nei pressi del Passo di Monte Croce Carnico, dove aspri scontri armati venivano ingaggiati dai nostri Alpini e Finanzieri contro reparti austro-ungarici in una gara feroce a disputarsi il possesso di alcune alture che vantavano la dichiarata fama di importanti punti strategici. Fu, in quei giorni, il caso del Pal Piccolo la cui cima fu conquistata dagli Austro-ungarici il 26 marzo, subito ripresa il giorno seguente dalle nostre formazioni da montagna, purtroppo al costo di un elevato numero di perdite umane, dall’una e dall’altra parte.
Le donne italiane in guerra. Una data: 15 febbraio 1916
Sono scorsi cent’anni e più da quando si consumò quell’inutile strage, come ebbe a definirla Papa Benedetto XV allorché, il 1° agosto 1917, si prodigò nel tentativo di dissuadere i belligeranti dal massacrarsi a vicenda. Fu un’ondata di violenze che si abbatté sulla nostra gente, sulle nostre città e campagne portando desolazione, morte, sofferenze atroci, fame e miseria in una stragrande fascia della popolazione.

Le donne non furono estranee ai sacrifici imposti dal conflitto armato. Chiamate anch’esse a un lavoro assiduo e faticoso, di braccia e di mente, per garantire la prosecuzione delle attività produttive lasciate dagli uomini che avevano dovuto raggiungere il fronte di battaglia, dimostrarono capacità e virtù insospettate, trasformandosi in brevissimo tempo in protagoniste di primo piano sui posti di lavoro lasciati vacanti dai loro uomini.
Qui, nello specifico, è cosa onorevole portare l’attenzione su quelle donne che si immersero cuore e anima nei fatti di guerra, non per imbracciare le armi, ma per dare pur sempre un sostanziale contributo al buon funzionamento della macchina bellica. Il riferimento privilegiato, nel corso di queste considerazioni, è per quelle donne che calcarono i sentieri impervi delle Alpi Orientali per concorrere al sostentamento degli uomini nelle trincee della displuviale di confine tra l’Italia e l’Austria.
Accadeva, a quel tempo e in quei luoghi, che la necessità di rifornire gli uomini lassù in alto imponesse il trasporto del materiale richiesto dalla situazione in atto per una quantità tale che sarebbe dovuta bastare a rifornire una intera divisione di soldati, diciamo qualcosa come dodicimila uomini. Le esigenze logistiche erano pressanti, perché tutti quei combattenti avevano bisogno di nutrirsi quotidianamente, e non solo. Portare in quota tutto quel po’ di roba non era così semplice, perché non disponevamo di una rete stradale adeguata alla bisogna. Per arrivare sulla linea frontaliera, da un certo punto in poi e per lungo tratto, non esistevano che sentieri disagevoli e tratturi di difficile individuazione. Si sarebbe potuto ricorrere ai muli, ma quelli non abbondavano così tanto da poter assolvere ai vari impegni; in più erano di necessità adibiti agli spostamenti di pezzi d’artiglieria, di materiale bellico pesante e, quando le forti precipitazioni nevose frequenti nei lunghi e rigidi inverni coprivano il suolo per un’altezza di alcuni metri addirittura, quei poveri animali sarebbero certamente naufragati nelle difficoltà più insormontabili.

Rifornire i soldati là in alto si doveva, senza tanti ripensamenti. Fu così che gli alti Comandi militari trovarono una soluzione: avanzare una urgente richiesta presso la popolazione perché si risolvesse a prestare il proprio aiuto. La popolazione, si sa, era formata sostanzialmente da donne, bambini, vecchi e infermi, perché tutti gli uomini validi erano in zona di guerra.
Furono le donne a rispondere all’appello e lo fecero con il profondo senso del dovere che le contraddistinse fino ai cupi eventi di quel disastroso 24 ottobre 1917. Molte donne dei paesi di media e alta valle in Carnia, dunque, accettarono e si presentarono ai Comandi militari per assumersi l’incarico. Così fecero per almeno due fondamentali motivi. Il primo era perché avevano lassù sulle creste montane i loro cari e per nulla al mondo li avrebbero lasciati soli e in difficoltà. “Andiamo – dicevano – altrimenti quei poveretti moriranno pure di fame”.
Il secondo motivo si rifaceva a quella che per loro e per le famiglie l’offerta di una piccola retribuzione giungeva come una vera provvidenza di natura economica. Il Governo italiano aveva disposto il compenso di una Lira e 50 centesimi a persona per ciascun viaggio effettuato. Oggi una cifra del genere farebbe sorridere, sarebbe anche difficile a immaginarsi, ma, se pensiamo che nel 1915 un operaio guadagnava dai 20 ai 30 centesimi all’ora ossia, lavorando dieci ore al giorno, circa due o tre Lire giornaliere, l’obolo ricevuto da quelle donne carniche equivaleva a quasi la paga diurna di un operaio.

C’era la fame, allora, in Carnia, una fame vera e nera che portava in certi casi alla disperazione, tanto da costringere la gente, che moriva per denutrizione con i soli sussidi governativi, a racimolare i frutti dei faggi, a macinare i baccelli di fagioli e fave, persino i tutoli del granoturco e, allo scopo di percepire quel senso di replezione che sopisce ingannevolmente i morsi della fame, a macerare addirittura le canne del granoturco abbandonate nei campi, per farne farina, che farina non era ma pura segatura, e a nutrirsi di quella, mischiata ai miseri 80 grammi di macinato che la sussistenza passava, nel 1918, a ciascuno, nell’illusione di poter sopravvivere per un po’ ancora.
Con la modesta somma di Lire 1,50 che, equiparata alla valuta dei nostri giorni, poteva corrispondere a 4 o 5 Euro, le donne carniche potevano garantire un migliore tenore di vita ai propri bambini e ai vecchi inabili componenti la famiglia.
L’incarico che avevano accettato non era cosa da nulla, perché comportava il sottoporsi a fatiche e il dispendio di tempo considerevoli. Si trattava di salire gli erti pendii, superando dislivelli dai 600 ai 1200 metri e sfidando i rischi delle traiettorie micidiali che fendevano l’aria a destra e a manca, con sulle spalle una gerla carica sino a 40 chilogrammi e anche più di generi vari. Portavano pane, viveri, biancheria di ricambio, medicinali, materiale logistico, armi date in riparazione e suppellettili, munizioni e quant’altro fosse stato richiesto dai Comandi periferici. Nelle giornate d’inverno s’inerpicavano calpestando neve alta spesso sino alle ginocchia, con poche soste per riprendere fiato. Al ritorno, poi, riempivano nuovamente le proprie gerle con materiale da destinare a riparazioni, con biancheria da lavare e, all’occorrenza, con qualche ferito o malato da trasportare negli ospedali di fondo valle per le cure del caso.

Persino le mani non rimanevano in ozio perché, fra un passo e l’altro nella discesa altrettanto faticosa e insidiosa quanto la salita, queste donne eccezionali si dedicavano a sferruzzare per confezionare semplici capi di vestiario e calzetti per i propri cari che stavano in casa nell’attesa del loro ritorno. E, qui giunte, non potevano neppure godere di un meritato riposo dopo le sfacchinate della giornata. Appena il tempo di asciugarsi alla meglio se erano incorse in un temporale o se la neve alta aveva intriso i loro vestiti; poi, ecco i bambini e i vecchi da coprire di attenzioni e di cure, ecco le faccende domestiche da sbrigare, la stalla, se c’era, con qualche animale da accudire e quel po’ di orto che avevano a disposizione da tenere in ordine per il magro sostentamento che avrebbe potuto assicurare alla famiglia.
Facevano volentieri tutto ciò, queste donne eroiche e si muovevano in gruppetti di dieci-quindici, anziane e giovani dai quindici anni in su. Per il loro protagonismo nei fatti di guerra furono chiamate “Portatrici Carniche”. Provenivano dai 28 Comuni della Carnia, si dice fossero una bella schiera di 1.450 Portatrici.

Un giorno, era il 15 febbraio del 1916, uno di questi gruppi si mosse di buon’ora da Timau, a valle del Passo di Monte Croce Carnico. Le Portatrici che lo componevano s’incamminarono, curve sotto i pesi opprimenti delle gerle, lungo una vallata che, in direzione est, ancor oggi si spinge verso la Casera Malpasso. Poco a monte di questa località, alla Roccia del Malpasso quota 1619, si fermarono qualche attimo per riprendere forze.
Una di quelle Portatrici era Maria Plozner Mentil di Timau (nella foto). Fu proprio in quel fatidico istante che venne colpita da un proiettile mortale, forse partito da qualche angolo ben occultato della soprastante linea frontaliera. Trasportata morente a valle, abbandonò di lì a poco la propria vita lasciando quattro bambini in tenera età e il marito combattente sul Carso. La sua Salma fu tumulata nel Tempio Ossario di Timau, unica sepoltura femminile fra le 1.764 Croci colà annoverate. Alla sua Memoria fu conferita, il 29 aprile 1997, la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Trascorsero gli anni e il sacrificio dell’eroina Portatrice Carnica Maria Plozner Mentil fu onorato, l’8 settembre 2012, con l’inaugurazione di una targa affissa alla Roccia del Malpasso, nel punto stesso in cui la Timavese cadde nell’adempimento del proprio dovere di Italiana.
A memoria perenne del valore patriottico portato in alto dalle Portatrici Carniche, tutte decorate con l’alta Onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto, fu eretto in Timau, per volontà e iniziativa del Cav. Lindo Unfer, direttore del Museo “La Zona Carnia nella Grande Guerra”, un significativo monumento raffigurante, in primo piano, il sacrificio di Maria Plozner Mentil. A questa coraggiosa donna carnica fu intitolata la Caserma di Paluzza, a valle di Timau, l’unica Caserma che, in Italia, reca un nome al femminile, oggi purtroppo, cadente sulle proprie fondamenta, rasa al suolo quasi integralmente.