La camera a gas fu un’invenzione americana, ma chi la utilizzò in Germania fu il tenente delle SS Becker. La prima camera a gas, Treblinka o Auschwitz, entrò in funzione il 7 agosto con il primo treno che da Leopoli portava 6 mila persone. Le donne venivano tosate: i loro capelli venivano destinati ai sottomarini per costruire bombe a scoppio ritardato.
Erano campi di distruzione: Auschwitz, Treblinka (700 mila morti), Birkenau. Quelli cosiddetti normali erano: Buchemwald, Neuengamme, Sachsenhausen, Dachau. La morte arrivava mediamente dopo una detenzione di 3 o 4 settimane. Auschwitz, comandato da Rudolf Hoess, e Treblinka dove nel giro di sei mesi erano state soppresse 80 mila persone con precedenza agli Ebrei del ghetto di Varsavia, erano campi di sterminio degli Ebrei. Per salvarsi dalla morte gli Ebrei maschi dovevano superare quattro prove. Neue Bremm, vicino a Sarrenbrück, fu il campo di sterminio degli Ariani. Hoess non era u sanguinario, ma un funzionario addetto all’organizzazione, alle dipendenze di Eichmann.
Il campo di Chelmno (300 mila morti), nei pressi di Lodz, era stato messo in funzione nel dicembre 1941 con mille esecuzioni al giorno. A Belzec (600 mila morti) ne morivano 15 mila al giorno nel 1942. Altri campi della morte: Sobibor (250 mila morti), Birkenek vicino a Riga, poi nei pressi di Kosno, di Piaski, di Leopoli. Nel campo di Maidanek i detenuti venivano sfruttati sul lavoro sino al limite e alla morte. Ad Auschwitz si trovò una soluzione chimica uccidendo con il “Ciclone B” ossia acido prussico in cristalli che veniva fatto cadere nella camera della morte: agiva dai tre ai quindici minuti.
La fame e le violenze bestiali tormentavano i detenuti. Dopo la distribuzione del rancio si formavano gruppi veri e propri di assalto, da 12 a 20 uomini che si gettavano addosso ai più deboli per sottrarre loro il cibo. Vi furono anche casi di antropofagia. Le SS non si curavano di ciò che accadeva nel campo, si limitavano a gestire l’organizzazione e la disciplina del lavoro con funzioni di sorveglianza e di direzione, decidevano e passavano ordini. Da Berlino pervenivano casse di sigarette e camion di cibarie, ma ai prigionieri veniva sottratto tutto. Proliferava il traffico con i borghesi: pacchi destinati ai prigionieri venivano dirottati all’industria privata in cambio di alcool.
L’organizzazione interna prevedeva che il campo funzionasse da solo. Esisteva una gerarchia con la figura dei kapò dal comportamento sadico, mostruoso: pur di sopravvivere non esitavano a infierire sui loro compagni di destino. Vigeva poi il Sonderkommando, un’organizzazione di lavoro composta da prigionieri che, in cambio di prestazioni, avevano salva la vita. Dopo tre o quattro mesi questi operatori finivano anch’essi nelle camere a gas, come accadeva per le SS, in modo che fossero cancellate completamente le tracce dei misfatti. Il campo si articolava in tre settori: quello dell’anziano del campo al quale obbedivano i capi baracca; poi quello dei capi camerata e degli incaricati della pulizia; infine il settore che si occupava del lavoro. Le infrastrutture erano costituite dall’ospedale e dall’approvvigionamento. Accadde anche che il kapò delle cucine e gli addetti al crematorio si accordassero per vendere le provviste di carne ai borghesi esterni e di cucinare carne umana per i detenuti.
600 Mila militari italiani furono deportati in Germania fra il 10 e il 30 settembre 1943 in un’ottantina di lager. Alla data dell’8 settembre Rommel aveva la giurisdizione del Nord Italia, mentre il Centro-Sud era affidato al feldmaresciallo Kesselring. Rommel si differenziava per catturare i militari e spedirli in Germania, destinazione per lo più in Polonia. Soltanto il 2% circa aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana.
Era stato istituito un Servizio Assistenza Internati. Si dice che Mussolini avesse stanziato miliardi per la spedizione di pacchi, ma grandi spedizioni nei lager non si verificarono: in 18 mesi di detenzione soltanto due spedizioni. Nel luglio 1944 Mussolini raggiunse Hitler a Rastenburg per ottenere un miglioramento per gli internati, destinandoli ai lavori agricoli, ma i Tedeschi preferivano far lavorare gli internati all’interno dei campi. Il rancio si limitava a un litro di acqua con pochi grammi di grasso e con rape. Il pane era ridotto alla quantità di 270-300 grammi. Poi 20-25 grammi di margarina e raramente marmellata o miele sintetici. L’attività commerciale proliferava nei campi, in forma di baratto. Il 4 novembre 1944, con i pezzi della bicicletta di una guardia tedesca, i detenuti riuscirono a costruire una radio clandestina, “Caterina”.
Fullen era un campo-ospedale di 14 baracche. Vi morivano oltre 90 prigionieri ricoverati su 100. Quando moriva uno, per avere la sua razione, lo sorreggevano come fosse ancora vivo. Il campo di Torgau conteneva mille detenuti, cresciuti di numero fino a 7.300. Comprendeva anche Tedeschi, soprattutto quelli che avevano attentato a Hitler il 20 luglio 1944. I condannati a morte venivano fucilati da ragazzi dai 15 ai 18 anni. Wietzendorf era una cittadina compresa nel triangolo Amburgo-Brema-Hannover. Nelle prossimità sorgeva il campo per ufficiali 83: nell’autunno 1943 vi giunsero gli Italiani. Il comandante era il colonnello Testa, famoso per la sua richiesta di disciplina e dignità ai detenuti. Vi funzionava anche una radiolina da campo. Nel Lager 327 di Neribka, nei pressi di Przemysl nella Polonia sud-orientale, pervenne il 30 settembre 1943 il primo convoglio di ufficiali italiani. Nel Lager 333I, comandato dal colonnello Pozzoy, in pochi mesi erano morti 70 mila Russi per tifo petecchiale.
I generali fatti prigionieri erano in numero di 205. Partirono da Mantova su un treno di prima classe per Monaco. Vi stavano due generali per ogni scompartimento. I colonnelli, anche in prima classe, erano in sei per ogni scompartimento. Poi, nei vagoni di coda, gli ufficiali inferiori. La destinazione era Schokken, in Polonia. I generali furono raccolti nel lager 64/Z. Ai generali fu posta l’alternativa di adesione alla Repubblica Sociale Italiana: uno su cento aderì. Schokken fu presa d’assalto dalla Gestapo per rappresaglia contro gli ammiragli Campioni, Mascherpa, i generali Voli, Giangreco, Grimaldi e Spicacci. Il 22 maggio 1944 furono giustiziati Campioni e Mascherpa, giudicati colpevoli di aver consegnato la flotta agli Inglesi. L’ammiraglio Campioni e il contrammiraglio Mascherpa saranno insigniti di Medaglia d’Oro alla Memoria.
Anche in Unione Sovietica sorsero campi di concentramento. Nel 1944 molte centinaia di ragazze giunsero al campo di lavoro forzato di Kolyma in Siberia nord-orientale. Non c’era bisogno di eliminare i prigionieri; lo faceva la temperatura rigida. A centinaia si contavano i decessi, con il pericolo costante dell’epidemia. Peggio della fame era la sete. Una colonna di detenuti, fra i quali anche mutilati, giunse a Sumikha nella Siberia meridionale. Dovevano sottoporsi al bagno e a una depilazione selvaggia, con particolare attenzione per i casi di scabbia e di tifo petecchiale. La sveglia del mattino era alle ore 3,30; per colazione una zuppa con qualche chicco di grano o miglio e 300 grammi di pane. Poi la rivista sotto gli occhi del comandante di battaglione. Alle 6 si andava al lavoro dopo 4 o 5 chilometri a piedi. Alle 7 iniziava il lavoro, come minimo per dieci ore giornaliere. Ognuno doveva produrre 6 metri cubi di legna, pena bastonature e riduzioni del vitto. Alle 18 si tornava al campo, le spalle caricate con tronchi.
Nel viaggio da Patrasso al campo di concentramento di Calamata, in Grecia, viaggiavano 60 uomini per vagone. A Calamata non vi era disciplina. Si mangiava non male: patate, lenticchie, cavolfiori, pasta, fagioli, riso, ceci; qualche volta olive e saracche. Era richiesta ossessivamente la puntualità.
Il viaggio proseguì da Calamata in Grecia a Mandera nell’Africa Orientale. Mandera era un villaggio di pastori nomadi nei confini del deserto del Somaliland, tra la catena dei monti Argan e il mare di Berbera. Era un campo di concentramento soprattutto per donne e bambini che potevano disporre di cucine, lavatoi, docce, fontanelle, servizi igienici e attrezzature ospedaliere. Si componeva di sette file doppie di casette con dodici vani per ogni fila, capaci di ospitare 500 persone. Ai primi di febbraio del 1942 arrivò una fila di automezzi con donne e bambini: 16 donne per ogni camionetta. A Mandera operavano tre Crocerossine e due dottoresse fra le prigioniere, poi suore e medici. Il momento più insopportabile era quello della disinfestazione allorché le donne dovevano spogliarsi completamente. A Diredaua si verificò uno sterminio di bambini uccisi dal morbillo.
Infiltrati nei convogli delle donne e dei vecchi partivano uomini ben prestanti, con documenti falsi.
Verso la fine di aprile e i primi di maggio 1945 furono i Tedeschi e i fascisti ad arrendersi.
Nel campo di Coltano si trovavano giovani dai 17 ai 30 anni della Decima Mas. Paracadutisti della Folgore, Bersaglieri, Alpini e altri presi con le armi in pugno.
Di tutti i casi di prigionia la meno acerba fu quella dei soldati italiani e tedeschi presi in Africa e inviati nel Sud Africa dove furono accolti senza rancore.
Alcuni accenni dal lavoro di Attila Trombetti, Prigioniero di guerra, Lorenzo Fornaca Editore, Saluzzo (Cuneo) Aprile 2009.
La ritirata. 17 gennaio 1943.
“…la neve è soffice, la pesante slitta ricavata dai tronchi d’albero sprofonda in essa e così le nostre gambe, che vi rimangono coperte fin sopra le ginocchia. Il vento gelido fa turbinare attorno a noi la neve, che ci penetra ovunque. La visibilità è molto ridotta, il freddo è insopportabile… Non tutti hanno ancora le forze per resistere a queste immani fatiche. Molti, sfiniti e congelati, si lasciano andare sulla neve con gli occhi sbarrati, senza però vedere forse più nulla. Rifiutano ogni aiuto con la stoica decisione di attendere la fine, coperti di una bianca coltre di neve”.
“Era uno degli alpini che con me, per ultimi, hanno lasciato il caposaldo, uno spezzino della classe 1920-21, piccolo di statura, ricciuto nei capelli. Ad un certo momento, mentre mi ero avvicinato a lui che rimaneva indietro per aiutarlo, sollecitarlo ad allungare il passo per quanto gli fosse stato possibile, mi guarda e mi dice: Trombetti, non ce la faccio più, non sento più i piedi”.
La cattura.
“Man mano che siamo perquisiti veniamo incolonnati per otto, ci viene consegnata una scatola di carne ogni otto uomini ed un pane da due chilogrammi ogni dodici di noi. Questa è la prima razione di viveri che riceviamo da quando siamo giunti a Rossosch”.
“In linea non sapevamo spiegarci dove andassero a finire i viveri, specie quelli di conforto”. In realtà quei viveri venivano fatti oggetto di commercio con i civili da chi vi aveva le mani sopra.
“Una mattina… viene data la sveglia con una raffica di parabellum”. Alcuni vennero colpiti, altri cercarono con la disperazione di uscire dal capannone: due morti e un ferito che venne finito con un colpo alla testa. La fame poteva portare anche a casi di cannibalismo: “…ho visto cuocere parte del polpaccio di uno dei cadaveri in una gamella… Dal vitto che abbiamo avuto sino ad ora è chiara la loro idea di voler assottigliare il più possibile il nostro numero. Siamo ridotti in pessimo stato, alcuni sono scheletri viventi”.
I vagoni della morte.
“La puzza, il fetore, il tanfo delle piaghe cancrenose e quello dei rifiuti dei nostri corpi si fondono ed invadono tutto, ne siamo impregnati… Non ci danno acqua. Ho provato a bere la mia stessa orina… i meno fortunati si accontentano dei ghiaccioli che si formano fuori del vagone, con le nostre urine che, scorrendo fino all’esterno, trascinano liquami di feci”. I prigionieri erano invasi dai pidocchi, si ammalavano di dissenteria. Chi cercava qualche ghiacciolo all’esterno veniva fatto spogliare e rinchiuso nel vagone dei cadaveri, dove sarebbe morto di congelamento. “…quando nel vagone eravamo in tanti, per alcune notti ho dormito appoggiato su cadaveri che avevo vicino… chiusi in questi carri bestiame, trattati come animali destinati al macello, con la differenza che la nostra macellazione ha luogo giornalmente, nei carri stessi… più nessuno bada al vicino, al compagno di sventura che gli agonizza a fianco. Più nessuno chiede aiuto. La sola invocazione è quella per la mamma lontana”.
Verso il lazzaretto.
Le guardie russe ordinavano di ammucchiare i moribondi con i morti. Alcuni non riuscivano neppure ad affrontare lo spostamento su slitta per trenta o più chilometri ossia sino al lazzaretto. Quasi tutti erano tormentati da forte febbre, vittime del tifo petecchiale. Si arrivava anche a dodici morti al giorno. Un giovane italiano, affetto da tifo e da dissenteria, era stato colpito sotto l’ascella da un proiettile. Non potendo nutrirsi perse la vita per sfinimento. “Siamo arrivati in questo lazzaretto circa cinquecento…quando siamo partiti da Rossosch nel mese di febbraio eravamo circa quattromila uomini”.
Alcuni accenni dal lavoro di Elena Morea e Annalia Orangi, Prisoner of War, Elena Morea Editore, Torino maggio 2003. Il libro parla della prigionia del padre di Elena Morea e il canovaccio si svolge in un contesto di Ufficiali prigionieri di guerra, il cui trattamento godette per la maggiore di evidenti privilegi rispetto a quanto era riservato ai militari semplici.
Siamo nell’Himalaya, fra l’Afghanistan e il Tibet, nel campo di concentramento inglese Yol. Nel 1942 annoverava circa 10 mila ufficiali italiani prigionieri di guerra, trattenuti per cinque anni. Il contingente di prigionieri catturati in Africa nord-orientale si imbarcò ad Alessandria. Erano in ottocento su una nave da carico olandese. Dormivano ammucchiati sul pavimento, con una sola coperta pro capite. Il viaggio tormentoso durò diciotto giorni, verso il Canale di Suez, il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. Giunti a Bombay, furono costretti a marciare per oltre tre ore, qualcosa come quindici chilometri per le vie della città, per essere beffeggiati dai residenti. La tappa successiva fu Ramgarh, regione di Bihar nel Bengala. Trovarono sistemazione in un campo formato da piccole tende a quattro posti. Il campo era circondato da una doppia serie di filo spinato. Qui, dove la temperatura ambientale superava anche i 50 gradi, furono trattenuti per oltre un anno. Il calore eccessivo provocava spesso insolazioni e colpi di calore, soprattutto durante la “conta” delle otto antimeridiane che costringeva, due volte al giorno, a trascorrere ore sotto il sole nell’assoluta immobilità. Se qualche prigioniero avesse tentato la fuga, sarebbero rimasti in piedi e immobili molto più tempo, per successive conte.
Il 2 marzo 1942 fu il momento del trasferimento a Yol. Dovettero attraversare in treno tutta l’India fino a Lahore. Poi, con altro mezzo ferroviario, per altri quattro giorni al villaggio di Negrote, situato a 1300 metri di altitudine. Infine il resto del viaggio in autocarri, destinazione Yol, sull’Himalaya, nel Punjab. Qui vennero formati quattro campi per ufficiali, uno per gli ufficiali superiori e uno per la truppa.
Verso la fine della guerra i prigionieri ricevevano dagli Inglesi razioni limitatissime di viveri poiché numerose navi che trasportavano generi alimentari dall’Australia venivano affondate dagli U-Boote tedeschi. Ad affollare la mente dei prigionieri premeva continuamente il pensiero di poter fuggire, ma Ramgarh si trovava circondata da una foresta impenetrabile e popolata da belve feroci. I prigionieri studiarono numerose soluzioni per fuggire dal campo. Una era lo scavo di cunicoli sotterranei, che non si dimostrò efficace. Ripresi, i prigionieri erano costretti a scontare una punizione di ventotto giorni di cella. Per di più gli Inglesi offrivano la ricompensa di dieci rupie a chi collaborava alla cattura dei fuggiaschi, una somma ambita perché corrispondeva al guadagno di un anno. Si mirava a aggiungere il Tibet, ma a nulla valsero i pochi tentativi effettuati. Si pensò addirittura di imitare Icaro, prendendo il volo. Succedeva che erano state adocchiate numerose cornacchie che si gettavano sui resti delle cucine. Un rapido calcolo suggerì che sarebbero occorse 240 cornacchie per sollevare un uomo oltre i reticolati. Ne seguì una caccia spietata e le cornacchie catturate venivano custodite in piccole gabbie, ma il loro forte gracchiare insospettì i guardiani e il progetto andò alla deriva. Si arrivò persino a cacciarsi nei contenitori dei rifiuti, ma chi ci provò finì in discarica e con 28 giorni di prigione. Fu il tenente del Genio Navale Elio Toschi che, procuratosi una divisa da ispettore ferroviario, usò il treno con la speranza di raggiungere Goa, ma inutilmente, finì anche lui catturato.
Sul piano della collaborazione fra gli avversari si dava a intendere un fortissimo odio da parte degli ufficiali indiani nei confronti degli Inglesi.
L’attimo atteso con trepidazione dai prigionieri era quello della consegna di lettere e di pacchi partiti dall’Italia. Occorrevano almeno sei mesi dalla partenza all’arrivo. Ai prigionieri era concesso di scrivere una lettera al mese e una cartolina due volte al mese per comunicare il proprio stato di salute. Ci voleva dunque un anno prima di ricevere risposta e pertanto, per mantenere gli argomenti in memoria, si faceva sempre una seconda copia delle missive inviate.
Il 21 ottobre 1943 cadeva l’anniversario della Marcia su Roma. Molti prigionieri inneggiavano all’amor di Patria, in particole chi era camicia nera. Si arrivò anche a raggiungere i reticolati in zona vietata. Guardiani armati invitarono i prigionieri ad allontanarsi; al rifiuto di questi, iniziarono a sparare uccidendo due ufficiali e ferendone tre. La notizia delle incursioni su Napoli con sacrificio di civili toccò a tal punto il senso profondo di affettività dei prigionieri napoletani che alcuni si tolsero la vita impiccandosi. Il fenomeno continuò per un intero mese.
Immagine di Copertina: Cartello della stazione della frazione di Treblinka esposto nel Museo Storico Yad Vashem di Gerusalemme.