La prigionia fu un’esperienza terribile nella seconda Guerra mondiale, soprattutto per chi cadeva nelle mani dei Francesi ossia dei Senegalesi, Sudanesi, Tunisini, Algerini, Marocchini: era il principio di una nuova guerra. Non si erano mai viste tante malattie come nei campi di prigionia francesi, in particolare la malaria. Mancavano del tutto le vitamine. I prigionieri furono costretti ad affrontare una marcia di centinaia di chilometri, circa 600, da Pont-di-Fahs in Tunisia a Costantina in Algeria, che era il campo di smistamento. La marcia iniziò l’8 giugno 1943 e si protrasse fino al 27 giugno. Anche il trasferimento in treno fu assai doloroso: viaggio su vagoni piombati, dalle 20 alle 40 persone in ogni carro, senza scorta d’acqua. Per rancio un po’ di pane, due pomodori, due cipolle, due acciughe salate. Difficoltà insormontabili per i bisogni corporali e la lotta contro cimici e pidocchi. L’ideale era cadere nelle mani degli Americani, poi degli Inglesi. Ognuno dei prigionieri combatteva la propria guerra privata per la sopravvivenza. Nei campi recintati da filo spinato venivano reclusi in quadrati di 50 per 50, in 400 o più persone. Avevano inizio penosi baratti: qualsiasi cosa per un pezzo di pane.
Nell’agosto-settembre 1943 i prigionieri avevano raggiunto il campo di Djelfa, 400 chilometri sud di Algeri, alle porte del Sahara, dopo aver camminato per undici giorni.
Campo di Palat. Siamo nel giugno 1944. Il sergente maggiore Mario Cuginati aveva cercato di perorare la causa dei prigionieri, ma si vide inflitti dieci mesi di carcere. Le punizioni venivano comminate anche per motivi di poco valore. Era anche facile il verificarsi di assassini veri e propri. Una delle punizioni più terribili era il “tombeau”, in uso frequente nella Legione straniera, per cui si costrigeva sotto una tenda e al sole cocente il poveretto senza acqua, lasciandolo soffrire fino alla pazzia. A Palat era d’uso la “pelote” ossia il supplizio del procedere con uno zaino carico di pietre sulla schiena avanzando sulle ginocchia, sul ventre, a quattro zampe. Qui i prigionieri erano ricorsi all’arma dello sciopero: riuscirono a ottenere migliorie per acqua, cibo, libertà. La stessa cosa successe all’Arsenale di Algeri: il miglioramento del rancio fu concesso, ma diciotto dei dimostranti si presero otto mesi di carcere.
Il campo dei prigionieri di guerra italiani, a Mechra-Benabbou, in pieno deserto marocchino, distruggeva gli uomini psichicamente. Gli ammalati erano destinati in capanne rudimentali fatte di canne e potevano fruire giornalmente di due litri di acqua di fiume. Non esistevano rimedi contro l’invasione di mosche e di germi vari. Proliferavano i casi di tifo e di tifo petecchiale. In questo campo funzionava uno spaccio, ma un litro di latte veniva venduto a trenta franchi, mentre i prigionieri percepivano dieci franchi al mese.
Nel Campo di Casablanca le situazioni igienico sanitarie versavano in condizioni disastrose. Il 90% dei prigionieri contraeva la malaria, la dissenteria bacillare e gastroenteriti estremamente gravi. Gli scorpioni erano veicolo di pericolose malattie.
Dal campo americano N° 150 a quello francese N° 192, per opera dei cappellani militari italiani, ci fu una prima spedizione di tabacco, sapone, lamette, dentifrici. I Tedeschi ricevevano pacchi dono ben confezionati dalle famiglie in patria.
Dal Texas ai campi indiani. Hereford conteneva prigionieri italiani catturati in Sicilia e in Tunisia. Si trovava nel Texas, come una piccola città di baracche. Qui il campo era diviso in due: ufficiali e soldati di truppa. Tra gli ufficiali vigeva una netta distinzione fra quelli di complemento e quelli effettivi di carriera. Dopo l’8 settembre 1943 venne coniato un nuovo modo di dire relativo ai prigionieri italiani: to badogliate ossia tradire. Il problema che assillava tutti era quello della noia.
Verso la fine di maggio 1943, a Casablanca in Marocco, arrivò un treno zeppo di Italiani che furono consegnati agli Americani. Nei pressi di Casablanca una nave carica di prigionieri italiani era stata affondata insieme a tutti gli uomini.
Il 21 aprile 1944 gli Americani stamparono un manifesto che interessava in particolare gli ufficiali della quarta compagnia, dichiaratamente fascisti. Veniva minacciata la Cajenna per chi non avesse firmato la dichiarazione ossia per i non cooperatori degli Americani. Una baracca di ufficiali italiani di complemento era formata da numerosi intellettuali, giovani vivaci e intelligenti. Allorché gli Americani richiesero loro una dichiarazione di lealtà al governo degli Stati Uniti ossia l’I promise, rifiutarono, sostenendo di non essere fascisti, ma nemmeno buffoni. Gli Americani ricorsero all’arma della fame per convincerli. La loro baracca, chiamata anche “baracca rossa”, raccoglieva gli ufficiali portanti la sigla P.W. che diede loro la denominazione di “povieri”: tutti rifiutarono la dichiarazione di lealtà; non parteggiavano per i fascisti, ma nemmeno accettavano di collaborare con gli Americani.
Prigionieri italiani in India. In genere i prigionieri in India erano Italiani; pochi i Tedeschi e quasi nessun Giapponese: questi preferivano darsi la morte anziché farsi catturare. Di Italiani se ne contavano circa 100 mila. Tra i mesi di novembre-dicembre 1940 e gennaio 1941 la Decima Armata, quasi per intero, era stata catturata in Cirenaica in seguito alla disastrosa ritirata da Sidi el Barrani. Un’altra grande massa di prigionieri fu catturata a Tobruk; a essa si unirono i superstiti delle navi italiane affondate: l’incrociatore Colleoni, i cacciatorpediniere Espero e Artigliere; dei sommergibili affondati nel Mediterraneo e nel Golfo Persico: il Berillo, il Rubino, il Galvani e l’Uebi Scebeli; e dei tre incrociatori distrutti nella battaglia di Capo Matapan: il Pola, lo Zara, il Fiume. La triste prigionia per gli Italiani dell’Africa Settentrionale iniziava nei pressi di Ismailia, Località Geneifa, non lontano dai Laghi Amari del Canale di Suez. I prigionieri partivano con navi che avevano portato rifornimenti alle truppe inglesi del deserto e tornavano in India. Ad alcune centinaia di chilometri da Bombay sorgeva il campo di Ahmednagar con due zone di prigionia, per militari e per civili, dove la vita era persino confortevole. Il periodo vero e proprio di detenzione iniziò a Ramgarh, nella regione di Bhar, al confine con il Bengala. Il campo presentava una serie di tende già fissate. La vista era contenuta fra la barriera costituita dalla giungla da una parte e le montagne dall’altra. I detenuti potevano leggere due quotidiani inglesi: il Times of India e lo State Man che arrivavano con pagine mancanti. Sopravvenne l’idea di pubblicare un giornaletto da parte degli Italiani. Il primo che uscì a Ramgarh era titolato Losanga blue un altro Croce del sud. Era prevista una paga settimanale per i prigionieri, da cui sorse un piccolo commercio. Oltre a Ramgarh furono aperti altri campi a Bhopal nel centro e a Bangalore nello stato di Mysore. Fra i prigionieri, i generali godevano di una residenza riservata.
I problemi sopraggiunsero nel mese di marzo 1941 con oltre 50 gradi all’ombra e l’elevato tasso di umidità. Gli insetti erano veicoli di malattie endemiche con casi di colera, di beri-beri e con le prime vittime. Subentrò un periodo di grande siccità: mancando l’acqua, occorreva prelevarla dal fiume Damoda, ma era acqua di colore marrone-rossiccio.
Gli Inglesi decisero di trasferire l’intero campo di Ramgarh da oriente a occidente, per un viaggio durato 120 ore, fino al campo di Yol, nella valle del Kangra, sulle pendici del Nondrani del complesso himalaiano. Con la stagione fredda le nevicate erano così forti da costringere a spalare i tetti delle baracche perché non sfondassero. Yol, dove vissero per mesi molte migliaia di Italiani, era una città di reticolati, suddivisa in quattro campi. Ogni campo era formato da 16 baracche e ogni baracca comprendeva 5 stanze per 6 prigionieri cadauna. A Yol, fra gli altri, arrivarono il corrispondente di guerra Nino Nutrizio, naufrago dell’incrociatore Pola, il colonnello Castagna, leggendario comandante di Giarabub, il capitano di fregata Pugliese, comandante dell’incrociatore San Giorgio autoaffondato nel porto di Tobruch. A Yol si organizzarono squadre di calcio e di basket, teatrini, compagnie filodrammatiche e persino una università degli studi. Si formarono biblioteche con centinaia di volumi inviati dalla Croce Rossa Italiana. Con le letture si svilupparono le idee, sorsero i primi dubbi e si intavolarono le prime discussioni. In alcuni casi si organizzarono tentativi di fuga, spesso con tragico esito.
Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 fu abolito il saluto romano e introdotto l’uso del “lei”. Si cercò di raccogliere le adesioni al governo di Badoglio e si accesero le prime discussioni. Quando giunse il giorno del rimpatrio, l’arrivo a Napoli fu triste e deludente.
Le donne nei lager: Birkenau. Birkenau era un lager femminile, posto a due chilometri da Auschwitz in Polonia. Le più penalizzate erano le contadine, prese per caso e per nessun serio motivo. Nell’autunno del 1943 e nella prima metà del 1944 a Birkenau si trovavano 6-7 mila Polacche. Il 5 ottobre 1943 le deportate per Birkenau provenivano da Pawak, una prigione di Varsavia, per un viaggio su vagoni merci: 120 donne per ogni vagone, fra oscurità, afa, impossibilità di muoversi, con gli sportelli piombati e un’unica fessura più stretta di un dito. A Birkenau le donne per prima cosa venivano marchiate con un numero indelebile sull’avambraccio sinistro. Poi il bagno o “sauna”, quindi la rasatura, le docce, spinte nude e a scudisciate. Infine ricevevano una camicia, un paio di mutande, un vestito, calze e scarpe. Gli indumenti erano malconci, provenienti da chissà chi, con tracce di pidocchi, di pulci, di sangue e di pus. Per la ristorazione una scodella di brodaglia densa e opaca, con torsoli e gambe di verdura. La capo-baracca era una Polacca, dura e violenta. Birkenau non aveva alcun collegamento con il campo maschile di Auschwitz.
Birkenau era stata fondata alla fine del 1941, dove prima sorgeva un campo di concentramento per prigionieri russi condannati dai Tedeschi a morire di fame, con la distribuzione pro capite di tre patate crude al giorno. Furono i Russi che accettarono di collaborare con i Tedeschi a coprire il ruolo di sentinelle al lager femminile e a informarle della fine drammatica dei loro compagni.
A Birkenau le condizioni di vita erano esasperanti: fetore di cadaveri, puzza delle cloache e dei campi bruciati. I cadaveri venivano ammassati in cataste e arsi all’aperto. Non esistevano brande, ma vani sovrapposti, i materassi di carta. Le prigioniere dormivano in 10-15 nello spazio di 4 metri cubi. Niente luci, ma scorrerie di topi. Le latrine erano buche puzzolenti. Mancava l’acqua. Nell’estate 1942 le donne potevano lavarsi solo ogni 5-6 settimane. Eventuali bambini neonati venivano soppressi. Tutte le donne dovevano lavorare, sotto la frusta. Quelle che non resistevano venivano selezionate con prove di corsa e destinate ai forni crematori. A Birkenau operava un vicecomandante, Tauber, un vero mostro: si vantava di aver ucciso con le proprie mani decine di donne. Nel gennaio 1943 infierì su due giovinette che avevano progettato una fuga, fino a sventrarle.
Le Ebree provenienti dalla Grecia, dalla Macedonia, dalla Bulgaria e dalla Romania, chiamate “Salonicche”, erano le più disprezzate, malmenate, torturate, assassinate. Due prigioniere avevano scoperto un osso di bue; una lo posò su una pietra, lo spaccò, lo frantumò, lo ridusse in polvere, se ne cacciò una manciata in bocca e cominciò a masticare avidamente.
L’alloggio del personale era confortevole. Ogni stanzetta aveva una “serva”. Nei lager tutti rubavano, a iniziare di che stava più in alto nella gerarchia, ma alle prigioniere restavano soltanto un poco di rape, di marmellata, di pane, ossia pochissimo. Si rubava tutto ciò che si poteva, soprattutto i generi di prima necessità.
Le prigioniere soffrivano per la fame, il freddo, il prurito da parassitosi, la sporcizia. Le latrine erano un posto di lotta per avere il posto: l’ultimo lembo di dignità moriva tra quella melma di escrementi e di fango. Erano esseri umani sottoposti a continui soprusi fisici e morali, votati alla disumanizzazione che finiva per minare anche il senso di solidarietà fra le detenute. Per sopravvivere la legge era quella di non guardare in faccia nessuno. Erano chiamate “Musulmane” le donne che avevano raggiunto atteggiamenti bestiali nella più assoluta indifferenza per qualsivoglia situazione, completamente disumanizzate. La via che portava alla disumanizzazione aveva inizio con la distruzione del pudore. Le donne dovevano rimanere nude, per ore, nelle sfilate per la “sauna”, nelle attese per le visite mediche e per gli spidocchiamenti. In quei frangenti venivano scelte le più giovani e carine per la casa di prostituzione. Si offrivano volontarie specialmente le Tedesche e le Ucraine e persino ragazze giovani e colte, pur di evitare i pidocchi, i topi, la sporcizia e la vita infernale del campo. Fra le detenute ebraiche, in specie quelle provenienti dall’Italia e dalla Grecia, la mortalità era particolarmente alta. Le Tedesche erano le più arroganti, ladre e perverse. Le Russe erano generalmente di giovane età; erano capaci di accettare gli orrori in cui erano state gettate; erano attratte dal fascino della ricerca di Dio. Le Ucraine erano le più forti, selvagge, animalesche; pensavano solo a saziare la fame, si vendevano per un tozzo di pane. Le Jugoslave si distinguevano per fierezza e dignità; difendevano la propria ideologia senza intavolare scenate. Le Francesi erano le più insofferenti alle condizioni di vita in prigionia.
A Birkenau scoppiò il tifo, seguito dalla dissenteria, dalla pellagra, dalla scabbia, da stati di avitaminosi, di paralisi nervosa e persino di pazzia. Per il tifo morivano trecento persone al giorno. Anche Tauber, il mostro-aguzzino, fu colpito dal tifo, ma riuscì a cavarsela. Il primo sintomo del tifo petecchiale era un forte male di testa. Nel lager funzionava una clinica, il “Rewir”, dove vigeva una selezione per sbarazzarsi delle degenti. Era un cosiddetto “primario” che decretava le condanne: venivano liquidate le degenti che, a un ordine di scendere dal letto, non ce la facevano a tenersi ritte sulle gambe. L’aspetto più diabolico era quello delle ammalate condannate a morire, che avevano con sé un neonato che veniva ucciso sotto gli occhi della madre.
Nei campi di sterminio. Nella prima fase del conflitto armato i politici nei campi di concentramento erano la minoranza. La maggioranza era costituita da delinquenti comuni, uomini feroci e cinici che avevano sfidato le leggi morali. Il numero dei politici aumenterà soltanto nella seconda parte del 1944. Inizialmente i campi tedeschi erano sorti per i Tedeschi soltanto. I primi campi di concentramento erano stati creati a casaccio dai nazisti, in particolare dai comandanti delle SA. Di tutti quei primi campi ne rimasero soltanto due: Oranienburg nei pressi di Berlino e Dachau, vicino a Monaco. Dachau e, successivamente, Mauthausen, erano stati voluti da Himmler, mentre Hitler era contrario all’idea dei campi. Il 10 aprile 1939 i campi di concentramento già ospitavano oltre 279 mila persone. Il 17 luglio 1937 venne edificato il nuovo campo di Buchenwald al quale seguirono i campi di: Flossenburg, Grossrosen, Ravensbrück. Tra il 1940 e il 1942 sorsero altri campi: Lublino, Auschwitz, Therensienstad, Strutthof, Herzogenburg e, l’anno successivo: Plaszo in Polonia, Kaiserswald in Lettonia, Bergen-Belsen in Germania. Nel 1938 i campi erano già affollati da Ebrei tedeschi e verso la fine del 1939 vi giunsero i Polacchi che venivano adibiti ai lavori di campagna: la maggioranza era costituita da contadini, piccoli artigiani, commercianti, piccoli proprietari.
Heydrich era il primo collaboratore di Himmler. La sua idea dominante era quella dell’annientamento della presenza degli Ebrei, collocandoli fuori dalla Germania, a Lublino e nel Madagascar. Lublino si trovava presso la frontiera tra la Vistola e il San e avrebbe dovuto ospitare gli Israeliti. Uno dei primi afflussi in Lublino fu quello del 12 marzo 1940: erano 160 Ebrei di Schneitemuehl. Dei 1.200 deportati da Stettino, 72 persero la vita per il freddo, fino anche a 40 sotto zero, nel corso del viaggio durato quindici giorni. Una enorme folla di Ebrei fu sottoposta al “trattamento speciale” ossia alla eliminazione: i primi furono i 20 mila del ghetto di Lodz. Per primi furono gli Ebrei della Germania, poi della Serbia dove non ci fu una vera e propria deportazione, ma un massacro sul posto. Poi la Croazia e la Grecia dove grazie ai generali italiani non vi furono deportazioni. In Macedonia quasi mezzo milione di Ebrei furono concentrati a Salonicco con destinazione Auschwitz per un viaggio di 1500 chilometri in vagoni piombati. Tra il 15 marzo e il 9 maggio 1943 sedici convogli trasferirono masse di persone dall’Europa sud-orientale sotto la direzione di Eichmann. Poi la Slovacchia e l’Ungheria dove la grande deportazione iniziò alla fine di marzo 1944. Gli Ebrei ungheresi arrivavano ad Auschwitz nel numero di 12-14 mila al giorno. Le camere a gas lavoravano senza sosta.
In Romania il maresciallo Antonescu non aveva in simpatia gli Ebrei, ma non intendeva sterminarli. Non ci furono grandi deportazioni, ma massacri sul territorio rumeno. In Bulgaria il 23 febbraio 1942 venne firmato un protocollo che prevedeva di cedere alla Germania 20 mila Ebrei, ma per via della pressione popolare i convogli non partirono. In Polonia pullulavano i ghetti: Varsavia, Belzec, Lublino, Leopoli, Mielec. Si ebbero anche rivolte di Ebrei che si opponevano al trattamento atteso. Nel ghetto di Zamosc, l’11 agosto 1942, i Tedeschi intervennero con la violenza, scaraventando nel vuoto addirittura i bambini dal secondo o dal terzo piano per evitarne la deportazione.
Nel gennaio 1943 il ghetto di Varsavia conteneva 60 mila persone. Fu il maggiore generale della Polizia, Stropp, a sferrare l’attacco contro i ghettizzati il 19 aprile 1943, azione che durò fino al 16 maggio. Per sfuggire alla morte non c’era altro rimedio che il suicidio.
Immagine di Copertina tratta da Britannica.