Il mistero della vita

a) Un mondo senza confini

Il n° 4/2016 della Rivista ASTRONOMIA riporta un interessante articolo di Franco Foresta Martin sul dispiegarsi della vita nell’Universo che ci circonda. Accompagna, in questo percorso, il pensiero lungo alcune disquisizioni che trattano del creazionismo, della generazione spontanea, del materialismo “sempre stato e sempre sarà” e della teoria risalente all’esistenza di un “brodo primordiale” rimestato da tutta una ridda di reazioni chimiche e fisiche.

Più avanti l’autore dell’articolo fa il punto sul concetto di panspermia (ogni cosa nasce da un seme) dovuto a un’ipotesi formulata ai primi del ’900 da Svante A. Arrhenius, premio Nobel per la chimica nel 1903. Arrhenius, tuttavia, non trattò il problema dell’origine della vita nell’Universo, dedicandosi esclusivamente al modo in cui la vita ebbe a propagarsi. Il suo punto di vista era più affine a una visione generale materialistica fondata sull’essere eterno della materia e della vita che in essa e per essa prende forma e si sviluppa. Non si poneva quindi la questione dell’inizio né della fine, tanto meno quella del fine o scopo di tutto quello che accade sotto la nostra conoscenza.

Per me, personalmente, il concetto di principio e l’analisi naufragante di un “perché” sono invece fondamentali: mi riesce difficile, impossibile prefigurarmi un Universo che sia sempre stato, si trasformi solamente e che non avrà alcun approdo, quindi neppure una finalità. Ma con tutto ciò non riesco a ricondurre la mia mente al principio, oltre o prima del quale non c’è che il NULLA ossia tutto ciò che non c’è. Posso tentare una spiegazione a questa insormontabile difficoltà? Mi ci proverò con uno dei paradossi di Zenone.

Era costui, Zenone di Elea (nato attorno al 490 a.C.), un noto filosofo greco impegnato nella dimostrazione dell’illusorietà legata alla nostra percezione del movimento e della molteplicità nel mondo fisico. Non mi addentro nella questione “moto-quiete” sviscerata da Zenone, ma ne traggo opportunità per pensare: la freccia scagliata da un arco percorre un determinato tratto di spazio X. Quando arriva alla metà della sua corsa (X/2) avrà ancora da percorrere l’altra metà (X/2b). Superata questa, supererà la metà dello spazio rimanente (X/4) e le resterà ancora dinanzi l’altra parte (X/4b). Avanti così, sempre la metà dello spazio da coprire, senza fine perché non si avrà mai un momento in cui si possa affermare, avendo superato la metà di quell’ultimo infinitesimale tratto, di non avere la metà complementare da affrontare. Conclusione: la freccia non arriverà mai. E, aggiungo con le mie elucubrazioni oscure, se non arriverà ciò sta a significare che neppure sia mai partita. Tutto si riduce a una nostra illusione perché siamo noi, in quanto esseri viventi, coscienti e consapevoli, a costruire una realtà che poi valutiamo e crediamo di ri-conoscere sul piano della condivisione.

Quelli formulati da Zenone di Elea non sono i soli paradossi che ci spingono ai margini della logica e, vorrei dire, del buon senso comune. Pensiamo all’infinitamente grande: dalle ultime stime supposte si danno 13 miliardi e 831 milioni di anni-luce per arrivare ai limiti dell’Universo. Ma quali limiti? Pensiamo all’infinitamente piccolo, siamo pervenuti al quark, ai gluoni, ai leptoni a furia di scindere le particelle della materia. E poi? Tagliamo ancora a metà, e a metà di quel che resta e così via di seguito. Avremo sempre una metà residua da dividere in due o più parti. Fino a quando? Fino a quando, forse, ci avvedremo che infinitamente grande e infinitamente piccolo coincidono? Pensiamo al Big-bang: l’inizio dello spazio e del tempo. Prima non c’erano, e non è neppure possibile parlare di un “prima” perché questo avverbio è legato indissolubilmente alla nozione di tempo. C’era soltanto energia, invisibile, impalpabile, incommensurabile, incoglibile (ma che cos’è quest’energia?). A un certo punto, il Big-bang. Poco, ma veramente pochissimo tempo dopo, emerse nel suo corso quel periodo di tempo iniziale (il Tempo era appena nato) denominato Tempo di Planck corrispondente a una frazione di minuto secondo con 1 al numeratore e al denominatore 1 seguito da 43 zeri; prima ancora, soltanto quella che venne chiamata singolarità, in cui neppure le equazioni di Einstein resistono, un’età dell’Universo inferiore ancora all’Era di Planck, allorché l’Universo, a quanto afferma Stephan William Hawking, si trovava nelle condizioni fisiche di un buco nero. Un’architettura da capogiro, che ha generato mondi ed esseri viventi sino a noi. Pensiamo, ancora, alla materia, così simile nella disposizione di stelle e galassie su scala cosmica come nella configurazione di elettroni e nuclei su scala quantica: dappertutto un vuoto pauroso dominato da sprazzi di antimateria e materia, dove quest’ultima ha per il momento la prevalenza globale sulla prima. Un vuoto abissale che decreterebbe possibile infilare un dito in un’incudine o attraversare un muro blindato con la nostra persona. Eppure, anche qui, un paradosso: la materia, a noi, si presenta piena e compatta. Colpa della vorticosa velocità degli elettroni (oltre 900 km al minuto secondo) o dei protoni e neutroni all’interno del nucleo (60 mila km al minuto secondo) che si trovano contemporaneamente in un luogo e dappertutto? Colpa della limitazione della nostra mente che non ci consente di stabilire e cogliere le due realtà insieme?

Dunque, alle frontiere speculative e scientifiche cui oggi siamo addivenuti, non ci resta che cedere e lasciare in parte la nostra presunzione di certezza. Concludo tornando d’un balzo alla panspermia. Un primo rappresentante della vita, vuoi un’ameba unicellulare, vuoi un quanto di energia, vuoi un atto di volontà (Arthur Schopenhauer), fino a quando, nel concetto primario di tempo-spazio cui siamo avvezzi, si possono riportare indietro? Non sarà che tutto si riconduce a una regressione all’infinito, senza un principio e senza una fine e che principio e fine coincidano in un più misterioso concetto di finalità?

Non la certezza già mi sospinge a ricercare, ma lo stesso sforzo e tentativo prodotti nella ricerca, perché la curiosità è tanta e qualcosa di indefinibile mi attira a procedere sul filo di sempre nuove ipotesi. Mi piace allora riportare un’affermazione di Steven Weinberg (1977): “Lo sforzo di capire l’Universo è tra le pochissime cose che innalzano la vita umana al di sopra del livello di una farsa, conferendole un po’ della dignità di una tragedia”.

b) La Terra delle Promesse

Dal sistema degli infiniti discendo molti gradini e cerco di tuffarmi nella realtà quotidiana di un mondo che non ha meno misteri di quanti ne abbia il Cielo che ci sovrasta.

Dalla cronaca di qualche tempo fa. Qualcosa cambia? Le voci che si stanno diffondendo all’orizzonte della politica nazionale sembrerebbero darne qualche timido accenno. Almeno da quanto diffuso dalle agenzie di informazione il 25 gennaio. Si dice, oggi, che nell’inchiesta Mafia Capitale è emerso un sistema di complicità tra politica e criminalità, ampiamente strutturato, capillare e invasivo. È un’ampia parte del Paese a vivere nella illegalità e della illegalità, sul filo della corruzione che riguarda ormai tutti i settori della società. A contrastare questa tendenza sarebbe necessaria una rivoluzione culturale. In casa nostra la ’ndrangheta, coinvolta nel traffico di droga, è in possesso di armi micidiali, mentre su tutto il territorio la corruzione pubblica e privata assume il ruolo di moltiplicatore dei fenomeni criminali, operando da collante tra un’imprenditoria spregiudicata e violenta, una certa Amministrazione impregnata di familismo e il crescente sottobosco di una mala politica priva di ogni riferimento valoriale. Viviamo tutti una realtà asfissiante, un’“area grigia” che fa strame del bene comune, genera disaffezione e disperazione dei meritevoli, promuove l’inconcludenza dell’antipolitica e fa risorgere personaggi condannati per reati che hanno continuato a commettere.

Saranno ancora soltanto parole, belle terribili parole, sacrosante forti parole, ma tali e quali a un paio di gambe che non vanno da alcuna parte se non guidate da una testa corroborata da sana ferrea volontà, se non supportate da un paio di braccia ferme e risolute nel tenere il timone del nostro naviglio scaraventato ormai in torbidi flutti?

Soltanto all’ultimo momento ci rendiamo conto, e ce ne facciamo una ragione, che le acque in cui navighiamo, “perigliose e guate”, ci portano rapidamente alla deriva? Eppure i sintomi del male affliggono la nostra società da tempo e hanno avuto modo di incancrenirsi entro i suoi tessuti più vitali. Se è così, se proprio siamo come soffocati da un sistema finemente architettato di complicità tra politica e criminalità, allora a chi e a che cosa possiamo credere ancora? E ai nostri figli, ai nostri studenti, quali fiabe andremo vieppiù raccontando? O, per non essere tacciati di sobillamento, saremo costretti a tacere? Complici di una omertà autogenerativa?

Odo parlare di illegalità, di corruzione dilagante, di rivoluzione culturale. Magari una rivoluzione culturale! Ma questo significherebbe svuotare la tovaglia, scuoterla ben bene, mondarla delle macchie che la deturpano e ricominciare a imbandire il tavolo con vivande salutari. Purtroppo, contrapposto al termine “cultura” va rafforzandosi con sprezzante protervia un concetto ben più determinato e risolutivo, quello della violenza immediata, della ragione del più forte imposta con l’uso delle armi, del terrore.

Armi, dunque, pronte a eliminare per avidità di conquista, più droga fonte di ingenti guadagni, più una corruzione vincente capace di prolungare i propri tentacoli veleniferi con passo blando e silenzioso per aprirsi le strade del malaffare, più collusione con chi ha le mani sugli strumenti della decisionalità, più la caduta di motivazioni e di speranze nella gente comune, non ultime le difficoltà esistenziali che spingono allo sbando intere famiglie e molte altre a precipitare in uno stato cronico di disperazione. Altro che rivoluzione culturale!

Quel che più può impressionare è il connubio fra due termini di per sé estremamente temibili: complicità e sistema. La complicità non può evitare di trascinare significati capaci di suscitare cupe apprensioni. Perché siamo potuti arrivare a tale e tanta collusione fra criminalità e politica? Forse che la politica, quel complesso di attività e di provvedimenti con cui si governa uno Stato, non è in se stessa un’espressione del vivere civile, investita di profonda onorabilità? Come può essere accaduto che questa Politica – chiamiamola pure così, con la P maiuscola perché vorremmo considerarla sempre degna del nostro maggiore rispetto e della nostra più elevata considerazione – sia decaduta sino a perdersi in una conclamata complicità con la criminalità? In più, come s’è concesso che tale complicità sia potuta assurgere a sistema? Sappiamo quanto un sistema sia difficile assai da smontare, a meno che si taglino alla radice le fonti con le quali si alimenta. Siamo alle prese con un morbo grave ma suscettibile di terapia oppure si tratta di un fatto genetico, di un fenomeno storico involutivo di endemico malessere?

Al punto in cui ci veniamo a trovare non si vedrebbe altra panacea se non una fondamentale rigenerazione, una vera e propria palingenesi cosmica. Ben dice Arthur Schopenhauer quando sostiene che è inutile, anzi, controproducente presentare ai giovani la virtù e la rettitudine come se di esse si potesse gloriare il mondo, nel tentativo di promuovere la loro moralità. Per non deluderli e disilluderli sarebbe molto meglio dire loro a chiare lettere, se già non se ne fossero fatta un’idea precisa, che il mondo sta camminando su una cattiva strada, che le persone non sono come sarebbe auspicabile, accompagnando queste rivelazioni veritiere con un’esortazione: “Non lasciarti travolgere dai venti malvagi che ti percuotono e adoprati per essere tu migliore”.

Ottimo suggerimento, ma privo comunque di un necessario substrato di certezze o almeno di fondate speranze nel senso che l’onestà voluta, cercata e praticata da ciascuno trovi le condizioni per rispecchiarsi in termini di garanzia comportamentale in quel che tutti gli altri si apprestano a fare, in sincronia e unità d’intenti. Altrimenti torneranno, quei pochi, armati di fede, che hanno voluto credere e sperare, a essere inchiodati in croce, coperti di giudizi infamanti.

Si dice oggi: l’Italia della Terra dei Fuochi. Dal 1991 al 2013, per ben 22 anni senza soluzione di continuità, nella Bella Italia tra Napoli e Caserta sono stata scaricate sostanza tossiche per la raccapricciante cifra di dieci milioni di tonnellate. Sarebbero 443 le aziende che si liberano degli scarti di produzione. Per Legambiente si è trattato di colonne di oltre 410 mila camion che dal centro-nord puntavano verso sud trasportando scorie della metallurgia termica dell’alluminio, polveri di abbattimento fumi, reflui liquidi contaminati da metalli pesanti, amianto, rifiuti petrolchimici. Il traffico dei rifiuti, si afferma, sarebbe gestito dalla criminalità, grazie anche – sostiene Legambiente – all’inerzia delle istituzioni, alla ‘disattenzione’ di chi è preposto ai controlli, e a una fitta rete di collusioni e omertà che concorrerebbero a rendere addirittura invisibile quella colonna di decine di migliaia di tir. Però, sto pensando, ventidue anni, e nessuno proprio se n’è mai accorto? Sono occorsi 22 anni per rendersi conto che quei roghi non erano fuochi fatui? Proprio non si è riusciti, o non si è voluto tentare di riuscirci, a evitare lo smaltimento abusivo di dieci milioni di tonnellate di veleni? Occhi per vedere non c’erano? Oppure rientra tutto nella normalità quotidiana, quella normalità per la quale dopo anni e anni ci si avvedeva di miliardarie ville abusive, quasi queste fossero sorte dalla sera alla mattina come fanno i funghi? Ma che sta succedendo?

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