Caro Prof.,
Ho letto la “biografia di Giuseppe Peano” e mi limito a fornire alcune considerazioni in merito al periodo conclusivo della medesima: “… abolizione di voti ed esami di profitto… pura passione di apprendere…”
Mi limito, pare ovvio, perché di fronte a una Mente eccelsa come quella di Giuseppe Peano, tutta immersa nella ricerca personale attraverso la quale il grande Cuneese affrontò e sviluppò teorie e concetti complessi, come quelli che rispondono ad esoteriche definizioni di “Calcolo Infinitesimale, equazioni differenziali, logica simbolica, linguistica internazionale, teoria dei numeri e sui postulati della congruenza”, non resta che inchinarsi.
Vengo al sodo:
Abolizione di voti ed esami di profitto. Si potrebbe tentare di immaginare una scuola senza voti né prove intermedie? Qualcosa di rivoluzionario, non c’è che dire. Ma, vediamo, chi finirebbe per sentirsi provocato nell’immediato da un cambiamento così repentino e radicale dell’assetto didattico? Senza dubbio chi ha parte attiva nel processo di acculturamento scolastico: insegnanti, alunni, ma anche genitori e il mondo dell’imprenditoria produttiva.
I docenti, oggi come oggi, sono chiamati a servirsi di sistemi di valutazione ai quali si vuole conferire affidabilità, validità e attendibilità sempre più solide, per il semplice motivo che hanno essi stessi bisogno di uno strumento che consenta loro di leggere i percorsi che stanno effettuando con i propri studenti, di individuare pregi e difetti dei modi di lavorare e delle metodologie impiegate in quei percorsi, di capire cos’è che va bene e cos’è che non va, di selezionare vie alternative per aggiustare la rotta là dove sia stata ravvisata una deviazione indesiderata oppure là dove si frappongano gravi ostacoli al progresso degli alunni, di tutti gli alunni e di ciascuno di loro. La cultura della valutazione, l’abbiamo capito neppure da tanto tempo, è una componente importante all’interno della professionalità docente e proprio per questo si stanno facendo sforzi, non ancora al meglio e non del tutto organici in merito, verso il perfezionamento di tale aspetto nel ventaglio delle competenze necessarie allo svolgimento della funzione docente. Eliminiamo voti ed esami. Che resta? A quali criteri ci appigliamo per poter dire “bene” o il suo contrario a una parte del lavoro che abbiamo realizzato? Ci affidiamo ad un giudizio d’insieme, all’intuizione, alla saggezza individuale? E dove si va a cacciare la collegialità? In un modo o nell’altro, al termine dell’anno scolastico dovremo pur emettere un giudizio per il passaggio o per l’esclusione alla classe successiva; la bilancia penderà dalla parte di chi gode di maggiore ascendente, di maggiore carisma, di chi sa fare e fa la voce grossa? Se cambiamento è bene che ci sia, esso non dovrebbe giocarsi sulla eliminazione di voti e di esami, io credo, ma piuttosto dovrebbe interessare una visione più ampia e fedele del concetto di valutazione, raggiungibile attraverso lo studio, la formazione, la ricerca attorno ad un significato molto concreto e condiviso da attribuire sia alla valutazione in sé sia ai modi più efficaci per attuarla.
Gli studenti, per parte loro, chissà, ne farebbero volentieri a meno, forse ne sarebbero felici. E non credo molto in quel che si sente spesso dire sul valore educativo delle prove di esame, per il solo fatto che comunque, prima o poi, ognuno dei nostri studenti sarà sottoposto a qualche prova; la vita è piena di prove. Ci credo sino ad un certo punto dal momento che, sì, è vero, i ragazzi sotto esame vivono momenti di profonda tensione, ma si tratta di qualcosa che assomiglia piuttosto a una corsa obbligatoria sulle ceneri ardenti, superata la quale, i ragazzi, così penso, saranno più propensi a guardarsi indietro esclamando, sulla scorta di una ben nota saggezza popolare, “passata la festa, gabbato lo santo!” – Mi rammento i giorni in cui, con i ragazzi della Media, sviluppavo una serie di percorsi metacognitivi con la metodologia del “CoRT Thinking” (Edward de Bono); all’inizio, in occasione della presentazione dell’iniziativa alla classe, dicevo: “Nessun voto, nessuna verifica, nessuna valutazione in questo lavoro che andremo a fare insieme”. Quelli erano addirittura esultanti, facevano festa quando arrivava l’ora del “CoRT Thinking”. Ma, signori miei, arriva anche l’ora di dire: “Vediamo se sei in grado di proseguire sulla tua strada…” – Io sono propenso a credere che, da un punto di vista psicologico, in fondo in fondo i ragazzi ci tengano a sentirsi dire se va tutto bene, se ce l’hanno fatta, se ce la possono fare, se possono coltivare prospettive di un certo tipo. Non solo ci tengono, lo richiedono, ne stanno in attesa, perché questo è anche un modo per “vedersi”, per “conoscersi”, cose che a quell’età hanno un’importanza enorme.
I genitori, ho anche detto, sì, perché i genitori, credo bene, hanno il sacrosanto diritto di essere documentati sui livelli di crescita culturale raggiunti dai propri figli. Perché non vadano proliferando casi come quello dell’insegnante che, parlando di un alunno in particolare con i colleghi e sfoggiando un sorriso smorzato che tutto dice, esclama: “Una frana! Su tutti i fronti!” e ai genitori, mutata l’espressione del viso in materna – o paterna – preoccupazione: “È un ragazzo intelligente… potrebbe fare… se solo si applicasse di più…!” – I genitori devono sapere la verità, senza soluzione di continuità, senza mezzi termini, quelli che la vogliono sentire e quelli che non la vogliono, in ogni caso. E hanno bisogno di leggere dei dati, i voti, i giudizi, scritti su un documento ufficiale, e hanno bisogno di mettere a confronto la propria personale valutazione, del come e del perché il figlio si comporta come si comporta a scuola, con la valutazione espressa da persone competenti quali sono gli insegnanti. Tutto questo perché occorre stabilire e mantenere un filone di continuità tra scuola e famiglia, perché c’è bisogno urgente di collaborazione, di condivisione di intese educative, di sinergia di sforzi.
Ma poi, pare giunga quasi inopportuno, il mondo dell’imprenditoria. Perché? Perché, sembra superfluo doverlo dire, il mondo del lavoro non fa beneficenza, non occupa i giovani perché sono belli e cercano un impiego, ma guarda con particolare attenzione alle scale dei valori i quali, nello specifico, sono quelli che garantiscono successo sicuro alla catena produttiva e di mercato. L’ottica del mercato non proprio e non sempre coincide con quella della scuola: qui sei bravo se hai appreso una certa quantità di contenuti e se ti sei appropriato di alcune fondamentali capacità; là sei bravo se sai fare dollari, se sai proporti come un elemento propulsivo di quel terribile quanto anonimo sistema che premia chi dimostra di adeguarsi alla logica del vendere di più e a più persone.
Secondo Giuseppe Peano la ragione dei voti e degli esami di profitto, nella scuola, è qualcosa che finirebbe per disamorare gli allievi allo studio. – Io non ho avuto la fortuna di conoscere l’illustre Cuneese: quand’egli scomparve io non ero ancora venuto al mondo. Sto pensando, se Giuseppe Peano tornasse, per un qualche inatteso prodigio, improvvisamente qui fra noi, in questo momento, e contemplasse il caos che regna nella gran selva degli ambiti gestiti dall’uomo del terzo millennio, chissà se vorrebbe accordare ancora lo stesso valore alle proprie affermazioni, quelle appunto sulle quali vado discorrendo. È più probabile che andrebbe ad appropriarsi dell’esclamazione storica coniata dall’Asso del pedale: “È tutto sbagliato, è tutto da rifare!”. Sarebbe sufficiente che puntasse gli occhi su alcuni aspetti della personalità di cui si vestono i nostri giovani. Mi spiego meglio e vado a formulare qualche esempio.
Muoviamoci all’interno dei costumi linguistici, per dare tangibilità all’idea, e vediamo come il modo di comunicare verbalmente si sia affidato, in occasioni e tempi diversi, all’affiorare di locuzioni sostantivali e/o avverbiali di facile adozione. Alcun tempo fa si ricorreva all’espressione “un attimino” per indicare un po’ di qualcosa in genere, poi si è passati, cosa che si avvera ai giorni nostri, alla ripetizione frequente del termine “sicuramente”. Ora, se riflettiamo un po’, la prima locuzione cui ho accennato dava spazio, come dire, alla possibilità di prendere tempo, come per volersi accertare, come per minimizzare, come per creare una fascia di demarcazione, qualcosa di analogo a un distanziale fra ciò che si andava affermando e ciò che di quell’affermazione sarebbe stato recepito dagli interlocutori; lasciava comunque ampia facoltà di variare il peso che il significato dell’affermazione recava con sé. Poi si è passati all’inserimento nel discorso dell’intercalare “sicuramente”: lo si sente proferire a iosa, con esasperazione persino. E l’uso insistente di tale locuzione dissimula abilmente l’esigenza di pronunciarsi senza il timore di essere contraddetti, quasi un collocare il proprio linguaggio in una posizione inattaccabile, munita di cerchie concentriche di bastioni inespugnabili: un estremo bisogno di sicurezza che tradisce, in forma più realistica, una diffusa insicurezza di fondo. – Ma andiamo oltre.
Ai tempi di Peano, ma anche ai nostri, sino a una certa epoca, andava d’uso servirsi della parola “vincere” per indicare la conquista di un primo posto in una competizione. Vince chi arriva primo al Tour, vince chi detiene il biglietto fortunato della lotteria di Capodanno, vince chi espone maggior dovizia di elementi a favore di una tesi all’interno di una disputa e via di questo passo. Vince uno solo, a coronamento di una collana di grandi sacrifici, per abilità personale insolita, per il colmo di un impudente colpo di fortuna… Gli altri perdono. Per di più vincono i forti, i grandi; i bambini sono quasi sempre perdenti. – Oggi no, si può vincere in molti e la ricetta è una sola: avere tanti soldi. In ogni settore della vita pubblica o privata, se hai una buona scorta di denaro a disposizione sei un vincente, le porte si apriranno con estrema docilità per te, tutto è vendibile, tutto a portata di portafoglio. La nostra “benemerita” società consumistica, menando subdolamente al guinzaglio il mostro televisivo nei tempi e negli spazi più opportuni, va perpetrando un continuo lavaggio dei cervelli già a carico dei bambini in tenera età, li sfrutta, li circuisce, li abbindola, li ipnotizza, li violenta psicologicamente, li costringe a pensare attraverso moduli razionali ed emozionali che a loro non appartengono.
Avevo accennato al termine “vincere”. Pare cosa da poco, ma andiamone a esaminare i significati reconditi che, in una matrice socio-culturale artificiosa, penetrano nella psiche dei bambini e ne pervadono finanche la struttura. E la cosa da poco sta in questo: l’ovetto pasquale. Che c’entra, ora, l’ovetto pasquale? C’entra perché noi dell’era arcaica, da bambini, si diceva: “Cos’hai trovato nell’uovo?”. Ora si dice: “Cos’hai vinto?”. Parrebbe una cosa del tutto innocua, ma, se vogliamo cominciare da qui, dal valore dei termini verbali come significanti che veicolano significati, nessuno può negare che corre una bella differenza fra pensare attraverso la parola “trovare” e pensare attraverso la parola “vincere”. La prima presuppone un’azione che fornisce un risultato consequenziale a una scelta determinata e circoscrive un insieme di attese coltivate con una certa naturalezza e affidate al volgere più o meno benevolo della sorte. La seconda, per altro verso, pone il soggetto protagonista in alto su un podio ai piedi del quale stanno tutti gli altri per il semplice fatto che, se uno ha vinto, tutti gli altri hanno perso; a meno che la storia dell’etimologia non m’inganni. Esagerato! – mi si dirà – esagerato! Risponderei, se la moda imponesse semplicemente l’uso di un termine piuttosto che di un altro, come accade per i capi di abbigliamento. Ma la moda delle parole possiede un potere in più, quello che le deriva dall’essere le forme del linguaggio intimamente connesse con l’elaborazione del pensiero. E, se nessuno se ne dà per certo, è perché sto parlando di una dinamica che agisce con molta astuzia a livello inconscio, in modo strisciante e convincente. Lo sanno bene certi dotti in psicolinguistica asserviti anima e corpo alla reclamistica commerciale! – Morale conclusiva: tu compra e io ti dico che hai vinto; se vinci sarai sempre il primo, il migliore; per vincere devi comprare; per comprare devi avere soldi, quelli sono la leva per farti benedire come vincitore.
Dedicarsi per la pura passione di apprendere. Ma che significa “avere una passione”? Fai un giretto nei supermercati e soffermati ad osservare le madri, o le nonne o i nonni, con i bambini. “Vuoi questo, vuoi quello? Prendilo, è buono, sai…” Si ha l’impressione, neppure tanto vaga, che si voglia essere assicurati del fatto che il bambino ha bisogno di noi, che noi siamo gli artefici del soddisfacimento di un bisogno, quand’anche si tratti – ed è il caso più ricorrente – di un bisogno indotto, e che il tramite per ottenere tale soddisfazione sia l’acquisto e il dono di un oggetto per lo più stupido e banale. E, poi, guai al mondo se un bambino si mette a piangere; una tempesta di offerte e promesse si scatenerà per placare quella disperata protesta. Ma benedetta quella madre che così si era rivolta al suo bambino: “Puoi piangere fin che vuoi, tanto non te lo compro!” – Magia! Le lacrime ingoiate sull’istante, il pianto svanito come per incanto. – Non così la cultura del secolo: assecondare, assecondare, e ancora assecondare, perché tuo figlio non si senta “diverso”; poi rispettare le sacre scadenze: a quattordici anni il motorino, subito, non un giorno di attesa, a diciotto l’auto, e tanti soldi in tasca, ecco trovata la formula della felicità…
Allora, sono entrato in questa fase della mia riflessione non a caso, quando prima stavo accennando a qualcosa che si ricollega alla crescita culturale, a qualcosa che deve essere oggetto di conquista, che richiede rinunce parziali, sforzo, fatica. È a questo che stiamo abituando i nostri figli, oppure abbiamo scelto di illuderli regalando loro il massimo degli inganni?
Arrivo al punto. Non sto, ripeto, proponendo una ricetta né un viaggio miracoloso e neppure mi illudo che esistano bacchette magiche per guidare i nostri studenti ad “innamorarsi” delle attività che loro andiamo proponendo nella scuola. Ma esistono modi di atteggiarsi, di porsi in ascolto, di mostrare interesse e cura, di rendere gli scolari protagonisti della loro stessa crescita culturale; ci sono modi di “contagiare” se noi siamo così fortunati da essere investiti da passioni contagiose. Senza arrivare alle scene parossistiche da “L’attimo fuggente”, abbiamo a disposizione strategie e percorsi capaci di risvegliare curiosità, interesse, entusiasmo, soltanto che lo vogliamo. E senza buttare a mare valutazioni, voti, prove di esame e quant’altro possa servire a rendere decifrabile una realtà che tende a farsi sempre più complessa.
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