La lunga storia dell’umanità ha assistito al susseguirsi di cicli in continua evoluzione, che hanno contemplato il passaggio dall’Homo erectus all’Homo abilis, all’Homo sapiens sapiens e, oggi, all’Homo technologicus se così è possibile darne una definizione. Una storia fatta di progressi, di scoperte, di applicazioni edificanti, segnata tuttavia anche da ripetuti e via via più aspri conflitti, la storia dell’essere vivente che fra tutte le invenzioni di cui è stato artefice è arrivato a creare una delle situazioni più devastanti ossia lo stato di guerra. Uomo conflittuale dunque, sempre, e portatore di distruzione.

Chi oggi può osare ancora parlare di guerra, chi può porsi a favore di una parola come “guerra”, dopo tutto ciò che la storia umana ha insegnato e continua a insegnare? Certuni affermano che le guerre hanno impresso una svolta decisiva allo sviluppo delle società, hanno cambiato il mondo, hanno rinnovato il modo di pensare, hanno fatto trionfare il diritto dei popoli alla libertà. Sì, ma per creare progresso, se lo vogliamo ammettere, prima hanno portato lutti e miserie. Mi sento, inoltre, di poter attribuire una veste di legalità soltanto alle guerre difensive, legittime e sacre nel porsi l’uomo a baluardo contro i nemici dei valori, della cultura, del territorio del proprio raggruppamento umano.
Scorro la storia della nostra Nazione, dalla fine dell’epoca risorgimentale, 1866 – Terza Guerra dell’Indipendenza Italiana – e punto lo sguardo su quanto avvenne all’interno e fuori dei nostri confini nazionali: 16 anni di relativa calma degli istinti guerreschi, seguiti da altri 33 di alleanza con le potenze austro-germaniche. Poi tutto venne stravolto. La deflagrazione del primo Conflitto Mondiale spinse il nostro Paese fuori dalla Triplice Alleanza. Fu il pretesto storico per dichiarare guerra all’Austria e, l’anno successivo, alla Germania, nostre alleate sin dal 1882.
Tralascio questo aspetto, che potrebbe configurarsi alla luce di un voltafaccia o di un tradimento come ebbe a esprimersi Francesco Giuseppe. Vado piuttosto al concreto e mi domando quanto ci costò la rivendicazione delle terre irredente. Noi eravamo allora, parlo dell’aprile 1915, di fronte a due alternative: seguire le pressioni degli interventisti, le blandizie dei grandi capitalisti costruttori d’armi e della politica assunta dall’Intesa (Francia, Inghilterra, Russia) nel cercare l’Italia come alleato contro l’imperialismo tedesco; oppure dichiararci neutrali, come fu la tendenza della nostra politica interna fino all’incipiente primavera del 1915. Prevalsero però le tendenze nazionalistiche e irredentistiche aperte disgraziatamente al manifestarsi della volontà di potenza che sarebbe tosto assurta a livelli di esasperazione. Fu così che demmo inizio a una guerra nonostante le posizioni avverse di gran parte della politica italiana.
Ricordo di sfuggita i prodromi di queste non nuove spinte aggressive emerse nel corso della storia del nostro Paese: le spedizioni in Africa Orientale del 1885 con l’occupazione di Massaua e il disastro di Dogali nel 1887, sino al trattato di Uccialli (2 maggio 1889) che sancì l’occupazione italiana dell’altopiano eritreo, e agli insuccessi dell’Amba Alagi e di Adua nel 1896. Nel nuovo secolo, poi, la guerra intimata alla Turchia nel 1911 per l’annessione della Libia. Dunque, ancora, guerre aggressive, di occupazione del suolo straniero. Per farsi un’idea sommaria di quanto sto scrivendo è sufficiente sfogliare l’elenco delle dichiarazioni di guerra dall’Italia ad altri Paesi nel corso del “Secolo breve”: il 28 settembre 1911 fu consegnato l’ultimatum alla Turchia per la Libia; nel 1915, il 23 maggio dichiarazione di guerra all’Austria, il 21 agosto alla Turchia, il 19 ottobre alla Bulgaria; nel 1916, il 27 agosto alla Germania; il 3 ottobre 1935 invasione dell’Etiopia; dal 7 al 12 aprile 1939 invasione dell’Albania; il 10 giugno 1940 alla Francia e all’Inghilterra: il 28 ottobre 1940 alla Grecia; agosto 1941 la Campagna per l’invasione della Russia: l’11 dicembre 1941 agli Stati Uniti d’America.

Si levarono molte voci, in particolare di filosofi e di moralisti, nel cercare le ragioni dell’avvento delle guerre: dalla “legge divina” attribuita ai conflitti armati, alla causa riposta nelle passioni umane; da una visione antropologica della guerra come necessità biologica favorevole al verificarsi di una decisiva selezione naturale, a un mezzo per ristabilire l’equilibrio demografico; da un evento quale conseguenza del dispotismo e dell’ambizione dei tiranni, da legarsi massimamente a spinte nazionalistiche, sino alla pressione esercitata da fattori economici. Pensiamola come si vuole, ma sta di fatto che noi, persone umane dotate di intelligenza al massimo grado di espressione, siamo gli unici viventi a dichiararci reciprocamente e intenzionalmente ostilità mortali di massa.
Restiamo ora più vicino alla nostra realtà e vediamo di capire quali siano le dinamiche perverse capaci di insinuare nella cultura di un popolo di navigatori, poeti, artisti e scienziati, fedeli per lo più sul piano delle convinzioni religiose a uno sfuggente quanto contraddittorio Dio degli Eserciti, la propensione ad aggredire a mano armata.
C’è una tappa, un evidente punto di raccordo o di svolta che indusse i nostri avi a precipitare nel baratro della guerra nell’intervallo storico che separò i due conflitti mondiali: mi riferisco alla promulgazione delle Leggi razziali in Italia. L’undici novembre del 1938 appariva a titoli cubitali, sulla prima pagina del Corriere della Sera, il titolo “Leggi per la difesa della razza”, con l’approvazione del Consiglio dei Ministri. Fu una svolta demenziale perché, se nel dichiarare guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915 potevamo avanzare comprensibili rivendicazioni territoriali per dare compimento all’Unità d’Italia, trascorsi altri 23 anni la decisione delirante di promulgare tale sorta di Leggi ebbe e ha tutto dell’assurdo, del belluino, del demoniaco senza sconti né esclusioni. Ma come fu possibile che il nostro popolo, di fiera tradizione umanistica e cristiana, si assoggettasse a una decisione di tal fatta? È a questo punto che mi soffermo per analizzare più da vicino, se ci riuscirò almeno un po’, che cosa possa essere accaduta e che cosa accada, oggi e da sempre, allorquando si dà la stura a decisioni terribilmente lesive del senso umano e della dignità intrinseca alla definizione di persona umana.
Tutto venne a generarsi, in Italia, attorno alla figura di un uomo che riuscì a imporsi, a emergere dalla massa e a stabilire le sorti del proprio popolo per almeno un ventennio. Succede qualcosa, in casi come quelli in cui sto per addentrarmi, che penetra in una corrente sempre più impetuosa sulla quale la maggioranza degli attori, a un certo punto del suo percorso, non riesce più a esercitare un controllo, sia pure con la minima speranza di efficacia. Come contraltare, in quel periodo storico era emerso un altro personaggio che aveva di mira la conquista del mondo intero. Megalomania, sete di potere, aspirazione alla supremazia assoluta furono atteggiamenti e pose attuati da questi due protagonisti dei destini mondiali per prevalere sulla ribalta degli interessi nazionali in dimensione planetaria. Ma per arrivare a questo livello occorreva la sinergia di due componenti irrinunciabili: la prestazione personale del “primo uomo” e il consenso del pubblico.
Partiamo dalla prima, la prestanza personale ossia la capacità di convincere, di esaltare, di promettere, di glorificare. Questi personaggi ai quali alludo ci riuscirono, innanzitutto appoggiandosi a chi deteneva il potere capitalistico lasciando trasparire che i grossi produttori di armi avrebbero tratto altissimi profitti con l’entrata in guerra di una nazione proiettata verso la realizzazione della propria grandezza. Così fecero assumendo atteggiamenti posturali esaltanti, ricorrendo all’uso della voce grossa, alla stipulazione di accordi in cerchi ristretti che avrebbero sostenuto una propaganda spietata grazie all’elargizione di fondi cospicui.

C’era, poi, da convincere le folle, perché da queste sarebbero stati forniti a centinaia di migliaia gli strumenti umani da mandare oltre il fronte, ossia combattenti convinti della missione a cui sarebbero stati chiamati. E qui, per convincere, fu necessario ricorrere all’uso di due mezzi: l’ordine e la costrizione. Per creare ordine è necessario un apparato di potere capace di sostenersi nelle proprie prerogative di comando. Un uomo solo, che alzi pure la voce, che si dia a smaniare, ad agitarsi, a incitare, a promettere, a esaltare, fin tanto che rimane solo non otterrà alcunché dal proprio uditorio, al massimo sarà considerato un po’ matto e ignorato dai più. Ma attorno a lui si affacceranno, per una sorta di attrazione gravitazionale, alcune persone che potrebbero andare congetturando: “Costui fa scena, è vero, ma se gli dessimo un po’ corda, forse che non potremmo trarne vantaggi noi stessi?”. E così si forma una costellazione di figure che covano la medesima ambizione: il potere. Dando il consenso al personaggio centrale con il ruolo di primo protagonista, se ne rafforza il carisma e si attrae il consenso di altri, di quelli che contano. Il protagonista, per parte sua, si sente protetto e appoggiato da una cerchia di fedeli i quali, portandone in alto le qualità di “duce”, di “condottiero”, ottengono dal medesimo, investito della massima autorità e reso sempre più forte, protezione e garanzia per avanzamenti rapidi e sicuri di carriera.
Si viene infine a creare un dispositivo politico capace a poco a poco di autoalimentarsi sino a diventare inattaccabile. È a questo punto che l’ordine costituito va a suggellare la propria legge con l’imposizione che, nel confronto con i riottosi e i ribelli, finisce per assumere la forma di intimidazione e di violenza. Così accade, e il gioco è fatto. Puoi comandare quanto e come vuoi, sarai obbedito, per convinzione o per paura, ma in ogni modo avrai un esercito che marcerà ai tuoi piedi; non solo, ma al servizio della tua megalomania, della tua volontà di potenza e di massimo prestigio. Infatuazione, dunque, delle masse asservite al potere, anche se la visibilità del fenomeno si limita a una piazza gremita di gente esultante.
Da questa impostazione del pensiero in seno alla cultura di un popolo intero prendono vita i progetti più aberranti. Ma bisogna credere, o comunque fingere di credere, in ultima analisi obbedire, combattere, soffrire e morire.
Siamo sempre nell’ottica delle guerre aggressive e, per restare in tema, vediamone rapidamente la rassegna storica.
Ero arrivato alla Turchia, anni 1911-1913. Passano altri due anni e abbandoniamo la Triplice per dichiarare guerra all’Austria-Ungheria, fatto cenno poco sopra. Vi ritorno per esprimere una mia considerazione: se fra tutte le guerre aggressive in cui ci cimentammo questa poteva vantare un certo diritto di legittimità sul filo delle rivendicazioni territoriali che, a vedere dai confini naturali, avrebbero attribuito all’Italia Trento e Trieste, la controparte in costi ne avrebbe tuttavia sconsigliato preventivamente l’attuazione.

Innanzitutto i costi umani: più di settecentomila Caduti e una falange sterminata di feriti, malati, invalidi, mutilati, orfani, vedove, famiglie distrutte e ridotte in miseria, un Paese sprofondato nei debiti e nel grave problema della ricostruzione edilizia, del lavoro, dell’occupazione e della produzione per la sopravvivenza.
Limitiamoci a gettare un fugace sguardo, in termini puramente materiali, ai costi che una guerra deve sostenere. Prendendo come punto di paragone soltanto il primo Conflitto Mondiale che mobilitò quasi 70 milioni di uomini lasciandosi alle spalle nove milioni di morti, sei milioni di mutilati e feriti gravi, sette milioni di prigionieri, altri sette milioni di vittime civili con 345.000 bambini orfani fra tutte le Nazioni coinvolte, sappiamo, fra l’altro, che i colpi mortali sparati da tutte le artiglierie furono circa 40 milioni, alla cadenza di 22 colpi al minuto. Le spese per affrontare la macchina bellica furono enormi: complessivamente furono calcolati 650 miliardi di franchi-oro. Tenendo presente che un operaio poteva guadagnare con il proprio lavoro dalle 2 alle 2,50 Lire al giorno, sarebbe occorsa una somma pari allo stipendio annuo di un operaio, moltiplicato per 500 miliardi di volte (500 miliardi di anni) per coprire le spese di conduzione, senza contare quelle necessarie per le ricostruzioni e per il saldo dei debiti contratti.
Soltanto per l’Italia furono spesi tra i 94 e i 96 miliardi di Lire. Calcolando tutti insieme gli interventi dovuti alla ricostruzione, ai pagamenti delle pensioni e ai risarcimenti l’ammontare della cifra sale a 157 miliardi di Lire. Per andare più nello specifico, rapportata a oggi, la sola spesa di guerra di 94 miliardi di Lire equivarrebbe a 48.500.000 Euro ossia quasi 1.200.000 Euro mensili per tutta la durata del conflitto italo-austriaco. Una montagna di denaro, dunque, bruciata per costruire armi letali e distruttive, per alimentare un complesso di forze che lasciò al proprio seguito centinaia di migliaia di morti e una popolazione in preda alla disperazione. Denaro che si sarebbe potuto usare altrimenti, al di fuori della guerra, per la crescita del Paese in tempi di pace e per le necessità più urgenti della Nazione ancora adolescente. Denaro che neppure figurava in quantità sufficiente per affrontare gli oneri del conflitto, ma che fu spremuto dai sacrifici della popolazione sul fronte interno e attinto dai prestiti contratti con l’estero, soprattutto con gli Stati Uniti d’America e con la Gran Bretagna, prestiti il cui debito fu estinto con pesanti rateazioni perdurate fino al 1988 ossia per i successivi settant’anni. Denaro italiano infine, ma denaro non piovuto dal cielo, bensì frutto del lavoro e delle privazioni di tutto un popolo.
Non era purtroppo finita così, l’Italia doveva ancora dissanguare le proprie riserve finanziarie con la guerra d’Etiopia negli anni 1935-1937, affrontando un ulteriore onere di 40 miliardi di Lire per sostenere l’occupazione dell’Africa Orientale. Per un raffronto nella fattispecie diciamo che all’intorno di quegli anni, ossia nel 1932, il salario di un bracciante o di un operaio poteva arrivare alla cifra di 300 Lire mensili. Per quel che concerne il secondo Conflitto Mondiale lascio all’immaginazione lo spreco di denaro pubblico perpetrato dal regime politico in auge, sempre sulla pelle di chi era considerato contare di meno sulla scala sociale.

Si poteva evitare tutto ciò? Si poteva evitare di ridurre allo smacco finanziario una Nazione giovane con prioritarie necessità di crescita e di consolidamento sul piano delle politiche internazionali?
Ma poi, tornando rapidamente alle Leggi razziali del 1938, ricadiamo nella triste constatazione di un’Italia che spinge il proprio Esercito oltre frontiera per aggredire, occupare, annettere. La proclamazione dell’Impero, datata al 1936 in seguito alla sottomissione dell’Africa Orientale, fu conferma di uno spirito aggressivo proveniente da una cerchia di persone ristretta ma capace di infiammare le folle o almeno quella parte delle folle che sapeva manifestare il proprio consenso con grande fragore. L’anno 1940 fu di poi l’inizio funesto di una serie di decisioni deliranti che porteranno la Patria allo sfacelo: l’attacco all’Albania dal 1939 al 1943, alla Francia il 10 giugno 1940, l’aggressione alla Grecia a partire dal 28 ottobre 1940 e la folle avventura contro la Russia, prima con il CSIR (Corpo di spedizione italiano in Russia), poi con l’ARMIR (Armata italiana in Russia) dall’agosto 1942 al marzo 1943.
Possiamo considerare che in appena tre casi le nostre forze furono impiegate in posizione difensiva: nel maggio-giugno 1916 con la “Strafexpedition” scatenata dal Generale Conrad sugli Altipiani; nelle battaglie del Piave – Monte Grappa, anni 1917-1918, per arrestare l’avanzata austro-tedesca in seguito al disastro di Caporetto e, 25 anni più tardi, durante la ritirata dal Don. Da sottolineare che tutte queste battaglie difensive si erano venute a combattere all’interno e come triste epilogo di guerre di tentata invasione. E, se vogliamo, possiamo aggiungere il ripiegamento in difesa a un certo punto della Campagna di Grecia quando, ridotti a mal partito, fummo costretti ad accettare l’intervento risolutivo delle forze germaniche per poterci cavare d’impaccio.
La popolazione italiana, i nostri Combattenti e gli ufficiali soprattutto avevano scoperto nello smacco in terra greca una piena conferma ai dubbi che da tempo serpeggiavano nei confronti del nazionalismo esasperato e dell’infallibilità propugnata dal regime fascista, ma l’opinione pubblica ancora non fu scossa al punto da sentirsi di poter sovvertire l’ordine imperante.
Come poté accadere che tutto un popolo, per di più di affermata tradizione cattolico-cristiana, non si sollevasse contro quell’ennesimo tentativo di persecuzione su inermi? Eppure un uomo solo poté usare dello stragrande potere raggiunto in misura tale da riuscire a trarre dalla propria parte persino il sovrano che stava al vertice dei comandi di tutte le forze del Paese, sino anche a meritarsi dal pontefice l’appellativo di “uomo della Provvidenza”. Mi domando ancora: come fu possibile e come la responsabilità politica intera non fu messa in serio allarme dalla piega che stavano prendendo le cose o come, essendosene resa conto si piegò sino ad assecondare una linea politica palesemente destinata alla devastazione? Era lì, a quel punto, che le manie e le smanie del dittatore si sarebbero dovute scontrare con l’elemento razionale di tutto il popolo, soprattutto a livello di decisionalità politica. Eppure fu la spinta aggressiva ad avere, ancora, il sopravvento. Persino l’alleanza con i Tedeschi avrebbe dovuto indurre a riflettere. Noi pensavamo di combattere al fianco di un esercito formidabile, imbattibile, per uscirne con il vanto, pure per noi, di vittoriosi. Chissà in quanti avranno congetturato: i Tedeschi, vincitori al termine delle loro campagne di guerra, certo non avrebbero condiviso il bottino; per loro eravamo stati solo gregari di infimo ordine e, una volta assestato il colpo finale, avrebbero schiacciato pure la nostra Nazione sotto il loro giogo dominatore. La conferma di tale congettura sarebbe arrivata inevitabilmente dopo l’8 settembre 1943.

È il momento di entrare nel punto focale della disquisizione, mi porto allora ad analizzare brevemente i motivi che condussero al dilagare di tanta violenza e alla legittimazione di tanta insania.
Sappiamo quanto l’uomo sia incline a lasciare modellare le proprie strutture mentali dalla propaganda, in misura maggiore quanto più la propaganda alza il volume della voce ed enfatizza i fasti, quanto più si avvale di metodi coercitivi per convincere ad abbracciare l’ideologia che ne costituisce le premesse. In secondo luogo c’è da osservare la vera e più intima natura della coscienza umana, quella che, sin dalla nascita e addirittura prima della nascita dell’individuo, è fatalmente ossequiente a un comportamento prevalentemente aggressivo.
Devo proprio aprire una breve parentesi: studi di stampo psicoanalitico nel settore (Silvio Fanti, Agressivité) descrivono tale spinta, di tono spiccatamente egoistico se vogliamo, votata in modo prepotente alla sopravvivenza dell’individuo, già dalle precoci fasi della blastula e della morula, che mostrano un attaccamento pervicace (Silvio Fanti non esita a definirla “guerra uterina”, di netto comportamento cannibalesco) di quel minuscolo essere da poco concepito, quasi feroce, alle pareti uterine per trarne nutrimento. La voracità nella richiesta di cibo in tutti i piccoli delle specie animali la dice lunga sugli atteggiamenti aggressivi che informano il modo di essere degli individui in vista della loro affermazione come singoli. Valga l’esempio di quanto accade nei nidi di alcuni volatili con il generarsi di una selezione coatta, seguita all’espulsione violenta dei soggetti più deboli da parte dei più forti onde poter godere del massimo apporto nutritivo offerto dai genitori.
Ebbene, questa estrapolazione nei comportamenti delle varie specie potrebbe apparire fuori luogo al centro delle presenti considerazioni, sennonché giunge opportuna, in particolare nei riguardi della specie umana, quando moduli aggressivi di comportamento vengono proposti e imposti perché troveranno terreno fertile onde attecchire nelle coscienze di persone che nel profondo della sfera psico-emotiva ancora e sempre coltivano potenti aneliti ad aggredire.
Non ultima è da menzionare la cultura dell’epoca, quella delle guerre di invasione intendo. Ai tempi di cui sto trattando i giovani erano usi crescere in un clima educativo austero, portatore di valori indiscutibili, improntato alla dipendenza timorosa dall’autorità costituita, per nulla incline di per sé a elargire agi, facilitazioni, promesse di rapido e sicuro successo.
Detto questo, diciamo anche in quale situazione morale si trovassero i nostri soldati nel maggio 1915 e oltre: pochi di loro, sicuramente, erano convinti della superiorità delle forze armate italiane, pochi condividevano la vantata sacralità dell’entrata in guerra. Forse questi stati mentali potevano essere attribuiti ai quadri ufficiali per via della loro preparazione specifica al comando e alla responsabilità nelle azioni di guerra. La truppa, peraltro, era per la massima parte composta da contadini, una notevole percentuale analfabeti. Per i Combattenti la guerra era una terribile disgrazia che li strappava alle loro famiglie, li distoglieva dalle occupazioni consuete e dal lavoro quotidiano, che poneva un mostruoso interrogativo al valore della loro stessa esistenza. Non la volevano, dunque, la guerra, roba per generaloni e malati di naja. Il loro pensiero e i loro affetti erano rimasti fra le mura domestiche. E allora è a questi giovani che mi vado riferendo quando partecipo alle commemorazioni dei lutti di guerra, alle loro terribili sofferenze e angosce vissute sui campi di battaglia, alle vite stroncate insieme alle migliori speranze dei loro anni giovanili.

E non mi vengano a sciorinare sotto gli occhi le solite ipocrite formulazioni che vanno purtroppo di moda nel corso di certe celebrazioni storiche: “Sono morti compiendo il proprio dovere, per fare grande l’Italia, per dare a noi libertà e benessere, per la Patria”!
Il dovere, certo. Era un dovere imposto, del quale non avrebbero per lo più compreso il significato, se pur un significato percepibile ci fosse stato. Se non compivano il proprio dovere sino in fondo, se non si lanciavano impavidi contro una morte sicura, venivano falciati da piombo amico; non solo, ma anche soltanto qualora avessero osato contraddire ordini superiori demenziali o dimostrare atteggiamenti avversi alla condotta imposta dalla guerra.
Fare grande l’Italia: adottando politiche di sopraffazione contro altri popoli? Causando il massacro di tante vite umane per impadronirsi di un palmo di terreno? Fuori da queste logiche infernali erano i nostri soldati; la grande Italia poteva interessare il re e la sua casa regnante per la conquista di un prestigio storico che avesse consentito di trovare una posizione sicura e stabile negli equilibri delle potenze europee. La grande Italia poteva interessare una cerchia affermata di blasonati semplicemente innamorati della propria carriera e della propria posizione sociale, per sé e per la propria famiglia.
Infine la Patria, questo termine di cui oggi si parla poco, quasi con timore, con mal dissimulata reticenza. Io scorgo il significato della parola Patria in due versioni: quella che si incarnava nella casa reale e nella sua corte, anelante al potere e all’affermazione sulla scena delle politiche internazionali; e quella che prendeva sembianza nel modo di valutare la realtà in forma concreta e diretta: la Patria è la mia famiglia che sta in sofferente attesa del mio ritorno, la sposa, i figli, i vecchi; la Patria, terra dei Padri, è quella parte di mondo che mi ha visto nascere, che mi ha nutrito, che ora accudisco con impegno perché fonte di sicurezza per la mia famiglia, ossia il mio lavoro, i frutti del mio lavoro, i miei successi per migliorare lo stato attuale di vita; la Patria è la cultura che ha segnato il progresso della civiltà del mio Paese, l’insieme delle conquiste scientifiche e delle opere dell’ingegno umano di cui io stesso sono parte integrante. La Patria, infine, è questo manipolo sparuto di miei compagni partecipi della mia stessa sorte, consunti dai sacrifici e dalle sofferenze, privati di un futuro in cui sperare, usati come oggetti e come semplici numeri da gettare nel campo di fuoco.

Ora io penso che soltanto quella minoranza di soldati, quelli che erano stati educati al massimo rigore militare, combattevano e morivano per il re. Tutti gli altri, la stragrande maggioranza, quelli che riponevano il senso di Patria non nella nobiltà e nella borghesia guerrafondaia ma nei propri affetti più intimi, si battevano per portare a casa la pelle e per dare man forte ai compagni di trincea; combattevano e morivano maledicendo la guerra e i suoi fautori, in un estremo disperato grido di dolore rivolto come ultimo straziante richiamo ai familiari, prime fra tutti la madre e la sposa. Lo stesso urlo “Savoia!” che dovevano lanciare al momento dell’attacco non aveva, per i nostri soldati, una valenza molto diversa dall’hurrà del nemico: forse soltanto una scarica emotiva, un’onda sonora che faceva sentire ciascuno partecipe della sorte di tutti, che nella maggioranza dei casi era quella di gettarsi fra le braccia della morte.
Qui concludo, non senza precisare alcuni dettagli della mia posizione di pensiero. Sono Ufficiale di complemento dell’Esercito Italiano, in congedo dopo aver effettuato il servizio di Prima Nomina nella gloriosa Brigata Julia, figlio di Ufficiale combattente nelle due Guerre mondiali. Sono estremamente convinto del mio profilo militare e di quale sia stato il mio comportamento in divisa. Ho servito il mio Paese con onore e ne sono altamente fiero, orgoglioso di appartenere a un reparto Alpino della Julia, chiamata altrimenti “la Divisione Miracolo”. Tornerei, se potessi, a fare il medesimo percorso che mi ha visto allievo e sottotenente, con fede e con orgoglio e credo fermamente che, qualora i nostri confini venissero violati da una improbabile potenza straniera, nonostante la mia non più giovane età sarei capace ancora di imbracciare le armi, di battermi e di morire se le sorti dello scontro lo richiedessero. Mai, però, per sopraffare altri popoli.
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