Gea: Tu faresti il dirigente di una scuola?
Geo: Ci ho provato.
Gea: Qualche nostalgia?
Geo: Nostalgie, no; rammarichi, piuttosto.
Gea: E perché mai?
Geo: Perché non sono riuscito a realizzate tutto ciò che avevo in mente, non sono riuscito a cambiare certe strutture di fondo.
Gea: Ma dove credevi di arrivare? Mica sarai tu quello che cambierà il mondo.
Geo: Perché mai cambiare il mondo!? Il mondo è bello così com’è. Sono le mentalità che devono cambiare, per creare spazio alla crescita dell’intelligenza, per far germogliare un genuino senso umano alimentato di cultura e per instaurare una logica di rispetto universale.
Normative e iniziative altisonanti di qualche tonalità intenzionalmente innovativa le hanno investite, queste figure-guida dell’istituto scolastico, oberandole tuttavia di requisiti pesantemente contraddittori.
Guardiamo al passato: con l’articolo 21, comma 16 della Legge 15 marzo 1997, n° 59 che attribuiva la dirigenza scolastica e con gli articoli 25 e 29 del Decreto legislativo 30 marzo 2001, n° 165 che facevano precisa luce su quali sarebbero dovuti essere i contenuti e le specificità della qualifica dirigenziale, gli ex direttori didattici e presidi si videro calare sulle spalle, di punto in bianco, una serie di oneri e responsabilità per la cui garanzia di attuazione, a ben vedere, non possedevano i mezzi necessari. Come addormentarsi una sera di primavera e svegliarsi un bel mattino d’inverno in una stanza che non si conosce, con la neve fuori e senza calzature adatte per affrontare il cammino.
Forse si è creduto di placare l’insoddisfazione di fondo da lungo tempo affiorante nella categoria, di soffocare, prima che nascessero, fastidiose rivendicazioni nel merito del riconoscimento da attribuirsi alla delicatezza e alle difficoltà del compito, con un atto benevolo che avrebbe fregiato l’operato dei responsabili di istituto con la pomposa attribuzione che il sostantivo “dirigenza” avrebbe recato con sé. Ma poi, sotto sotto, chi sapeva leggere, leggeva: “A te l’autonomia della scelta nelle tue decisioni; sei libero, fai della tua scuola la migliore che si possa desiderare, ma aggiustati; sei solo? non ti daremo un appoggio sul quale tu possa contare; sei dubbioso? non cercare la sicurezza perché d’ora in poi non sapremo dare una risposta alle tue perplessità; sei un “manager”, sì o no? e, allora, procurati ciò che ti serve; ma… attento, se sbagli ti tirerai addosso un sacco di denunce senza che tu abbia il tempo di comprendere che cosa e come, sarai tu, soltanto tu a pagare; e non mollare, neppure per un attimo, altrimenti saranno guai seri per te…”. Si potrebbe continuare, “ad libitum”, volendo; il materiale per farlo certo non difetta.
E così è stato che direttori didattici e presidi si sono trovati a dover infilare un nuovo vestito che faceva grinze e pieghe da tutte le parti. Perché, tirate tutte le somme, si è visto che i nuovi dirigenti di questo attributo avevano ben poco, sia per il fatto di non essere stati posti nelle condizioni di esercitare effettivamente autonomi poteri decisionali, ma di doversi accontentare di manovrare in ristretti e marginali ambiti della gestione, pur dovendosi accollare la responsabilità dei risultati che provengono dalla conduzione dell’Azienda; sia a motivo di un quanto mai originale risvolto della loro titolarità, quello di non possedere gli strumenti adeguati a gestire il personale, tale da impedire, al dirigente in causa, l’esercizio di un reale controllo sui comportamenti del personale medesimo (minimo spazio d’azione per la promozione di incentivi ragguardevoli, evanescenza nella definizione di un preciso codice disciplinare, mancanza di riferimento a un codice deontologico del tutto latitante).
Eppure, mentre si calca il dito sulle notevoli responsabilità che il dirigente scolastico deve assumere, nulla si fa perché venga attribuito il giusto peso al potere di cui lo stesso dirigente dovrebbe potersi avvalere.
All’interno dell’idea di potere, così com’è intesa nel dettato normativo e così com’è vissuta nella prassi quotidiana, la realtà vede il dirigente scolastico muoversi con l’ausilio di pochi e deboli strumenti di decisione e di gestione, l’istanza di potere limitata a qualcosa di poco palpabile e riguardante piuttosto l’esser impegnati in azioni di proposta, di iniziativa, di orientamento nel groviglio delle decisionalità. È già qualcosa, ma comunque ancora qualcosa di molto riduttivo che non ci mette neppure molto a far sì che si stabiliscano situazioni nelle quali il dirigente scolastico arriva spesso a provare una spiccata sensazione di essere soltanto un numero, di dover lottare – non sto accennando a casi eccezionali, ma ricorrenti – per non lasciarsi porre in stato di isolamento o addirittura di coatta sudditanza nei confronti di indirizzi decisionali che non entrano nella sua visione della scuola.
Intanto se n’è trovata un’altra di quelle curiose: “Dirigenti? Siete datori di lavoro!”. E va bene, diremo noi, ma non capiamo bene in quale modo diamo lavoro, quando siamo noi stessi ad averlo ottenuto, nel ruolo di dipendenti dello Stato, mediante nomina e restiamo tuttavia privi della facoltà di scegliere il personale che valutiamo adeguato a far andare avanti al meglio la nostra “Azienda”. I provvedimenti normativi sopra citati, diciamolo pure senza tema di andare errati, non hanno fatto altro che dare forma a una figura di dirigente con molti pesi in più da sopportare, del tutto o quasi priva degli attrezzi forgiati per consentire la realizzazione di quanto richiesto.
Gli stessi corsi di formazione, previsti dall’articolo 1 del Decreto legislativo n° 59 del 1998 per il conferimento della qualifica dirigenziale e regolati dalla Circolare ministeriale n° 461 del 25 novembre 1998, della durata di trecento ore, conclusi con la consegna di un bell’attestato ad personam, portante la data del maggio 2000 per il personale della Regione Piemonte, poco hanno offerto ai partecipanti i quali, ad astrarre dall’impianto teorico molto più confacente e adatto a dirigenti di un’azienda produttiva nella logica del mercato concorrenziale, mentre apprendevano l’impiego di schede e di tabelle per la pianificazione di strategie di efficacia e di efficienza di tutta tonalità industriale, non riuscivano a ottenere risposte soddisfacenti, o proprio recisamente non le ricevevano, relativamente ai veri problemi che s’incontrano nell’organizzazione e nella conduzione di un istituto scolastico. Problemi che scaturiscono, con volti sempre nuovi e di difficile interpretazione, dalle delicate contingenze evolutive, dai processi di apprendimento, dai dilaganti casi di insuccesso scolastico, dalle difficoltà di adattamento o di impegno riscontrate nell’utenza, dalle gravi istanze della motivazione allo studio, della gestione dei comportamenti e dei loro effetti sul lavoro comunitario, dalle relazioni fra persone e dagli ostacoli talvolta irremovibili che dallo sviluppo di tali relazioni emergono con rinnovata intensità, senza andare, con la priorità che meriterebbe, a tutto il complesso di responsabilità che comportano incertezze, timori, sensazioni di isolamento e di inadeguatezza, dubbi pesanti nell’atto di assumere decisioni su questioni particolarmente delicate, ma anche a tutto un insieme incalzante di pressioni, di azioni contrastanti, di più o meno velate minacce sanzionatorie che a tambur battente cadono a precipizio provocando turbamento e scompiglio, incrinando seriamente lo svolgersi sereno di un lavoro già di per sé appesantito da problematiche e conflittualità di alternanza quotidiana; minacce, dicevo, dalle quali il dirigente di turno è costretto in qualche modo a pararsi per non soccombere.
In Italia erano funzionanti, al tempo considerato, 10770 scuole dotate di personalità giuridica e di autonomia amministrativa, organizzativa, didattica, di sperimentazione e di ricerca educativa in osservanza dell’articolo 21 sopra citato. Altrettanti si sarebbero dovuti annoverare i dirigenti scolastici in carica, ma in realtà, fatto segno all’anno scolastico 2004/2005, erano 2700 in meno all’incirca. Si calcolò che il contingente attivo sarebbe stato destinato a decrescere, forse di settecento posti annui, per via degli anziani che uscivano dal ruolo e dei nuovi aspiranti dirigenti scolastici che attendevano inutilmente il varo di provvedimenti di assunzione. Come si pensò di ovviare a questa discrepanza? Semplice, con il proverbiale ormai italo ingegno scopritore di una duplice soluzione nel magico meccanismo che recava con sé vantaggi riguardanti unicamente il risparmio per l’erario e comportanti, per logica compensazione, un aggravio di lavoro, di mal-di-testa e di responsabilità spoglie di tutela giuridica e quindi sempre più accollate alla persona per gli addetti ai lavori. Se dunque, da una parte, si provvide ad accorpare numerosi istituti scolastici con la concomitante eliminazione di posti non solo dirigenziali ma anche del comparto amministrativo, dall’altra si pensò bene di spostare una parte dei docenti, fra coloro che ne avevano fatto richiesta, dalla cattedra di insegnamento all’ufficio di dirigenza, senza compensare il nuovo lavoro con indennità o incentivi che potessero in qualche misura emulare il livello di trattamento economico riservato ai dirigenti vincitori di concorso.
Ma anche questi “presidi incaricati”, come comunemente vennero chiamati, non avevano dinanzi a sé grandi prospettive di crescita: andò infatti presto esaurendosi la loro stagione, essendo intervenuta la Legge n° 43 del 2005 con l’estinzione della possibilità di conferire nuovi incarichi a partire dal settembre del 2006. Certo che la politica degli incarichi non stentò ad attecchire e lo fece con tanta facilità, dal momento che su un totale di 10.770 scuole funzionanti, al 1° settembre 2005, si trovavano in servizio appena 7.400 dirigenti scolastici titolari o poco più.
Il problema si fece più grave allorquando, calcolato un esodo di settecento o più dirigenti scolastici per ognuno degli anni consecutivi e registrato fermo il numero dei presidi incaricati già beneficiari di nomina, si trattò di assicurare il servizio di dirigenza a quelle scuole, in continuo aumento, che ne erano rimaste vacanti. Se non saranno banditi nuovi concorsi…
Ma la soluzione qualcuno l’ha già – sembra – a portata di mano: far tirare più carretti da una sola persona. E perché no, visto che ormai siamo quasi abituati a fare miracoli!
Pare sia più conveniente, per le casse in cronica dieta, assegnare le sedi vacanti a dirigenti scolastici già in carica, i reggenti, i quali avrebbero dovuto dividere le proprie energie, il proprio tempo, la propria persona tra due o più istituzioni scolastiche; per un pugno di euro, naturalmente.
Conosciamo bene in quale modo e misura vadano profilandosi le prospettive per l’immediato futuro: un organico di dirigenti scolastici in progressiva contrazione per la conduzione di scuole dotate di dimensioni crescenti e gravate da complessità, difficoltà di gestione, emergenza di problemi nuovi sempre più gravosi. E, al centro della scena, un dirigente che rischia di uscirne pazzo, ma sempre alla ricerca della scuola di qualità, garante della piena realizzazione di obiettivi formativi di alto livello.
Chi subisce un notevole incremento, in queste situazioni, è la confusione!
Una proposta che possa attecchire ci sarà?
Un’intenzione – Un piano
Gea: Uh, quanta premura! Ma, allora, se c’è da fare qualcosa ora, qui e subito, come dici tu, che cosa aspettiamo?
Geo: Sai qual è lo stile diffuso, no? Ognuno di noi è profeta nel declamare: “Occorre, bisogna, è urgente, è necessario…” con la conclusione sottintesa: “Qualcuno faccia!”.
Gea: Quante volte ho udito declamazioni di questo tono! Però, proprio nessuno si muove. Vorrei provarmi a…
Geo: Provaci! Chi sarebbe disposto c’è. Ma provaci e ti accorgerai che stai toccando tasti che danno fastidio a qualcuno, che smuovono inopportunamente architetture consolidate, di comodo…
Gea: Non è sufficiente a frenare la buona volontà!
Geo: Provaci, se non temi il rogo.
Scuola – Famiglia – Successo scolastico
Gea: Le radici, è da lì che bisogna iniziare a costruire. Hai ragione a insistere sulla responsabilità fondamentale che si accompagna all’educazione data in famiglia.
Geo: Ed è per questo che intendo la cultura come un universo che comprende tutto il mondo dell’esperienza infantile, non solo la Scuola.
Gea: Una cultura familiare, dunque? Che apra gli occhi ai genitori di fronte ai pericoli da condizionamenti esterni, vero?
Geo: Sì, una vera politica familiare, in senso proprio, quella del C6, per ridare alla famiglia dignità, serietà, chiarezza di obiettivi, consapevolezza di intenzioni, conoscenza di percorsi.
Gea: C6?
Geo: Certo, una Cultura Consapevole Contro i Condizionamenti Cretini e Consumistici.
L’ideale sarebbe ricondurre i genitori ad appropriarsi dei requisiti della più alta risonanza educativa. Si tratta, è vero, di un’affermazione quasi assiomatica, di grande portata persino sociale, lungimirante assai in una prospettiva evolutiva individuale non solo, ma di benessere comune con alta garanzia di efficacia. Ma l’ostacolo sta nel volere o meno credere in qualcosa che molti sigillano con il termine “utopia”. Utopia mantenuta tale da una macchina invisibile e strapotente che arriva ad impadronirsi dei cervelli e della volontà di molti, troppi, fra gli esseri pensanti.
Gea: Tu guardi lontano: decondizionare la mentalità imperante, fatta di beni e di benessere.
Geo: E di tante idiozie malefiche. È lì in mezzo al pattume generale che occorre saper scegliere e sapersi ritrarre.
Gea: Idiozie sfornate dal colosso del mercato… A parte le chimere e gli inganni che tu potresti smascherare, credi che gli autori del sistema dei facili consumi ti concederebbero molta strada?
Geo: Una brutta battaglia, vero?
Gea: Ma tu parli anche di mandare i genitori a scuola di genitorialità. Ti sarai mica bevuto il cervello, per caso!?
Geo: Credo nell’intelligenza umana. Se soltanto accetteremo di affrontare il problema, di scoprirne i risvolti, compresi costi e benefici a lunga scadenza, la richiesta di cultura familiare verrà da noi stessi, ben lungi da qualsiasi idea di costrizione. Ma è anche una questione di fede: fede nella cultura e nella ricerca del vero.
Vi aspetto alla prossima puntata che avrà per titolo “Che ne facciamo della disciplina?”.