Dulce et decorum est

Dulce et decorum est pro patria mori è una locuzione latina; è traducibile letteralmente con il detto: è dolce e dignitoso morire per la Patria. 

La formulazione di questa allocuzione si deve a uesta allocuzione qq  Orazio (Odi, III, 2, 13). Con tali parole Orazio intendeva stimolare la gioventù dei Romani a imitare le virtù e l’eroismo guerriero degli antenati.

Il verso è riportato su ciascuno dei medaglioni in bronzo al centro delle croci del Cimitero degli Eroi di Aquileia, dedicato ai Caduti della prima Guerra mondiale. Da questo Cimitero, nell’ottobre 1921, il convoglio del Milite Ignoto partì in direzione dell’Altare della Patria di Roma.

L’intima contraddizione contenuta nell’affermazione coniata da Orazio, riportata ai tempi nostri, in particolare ai secoli XIX e XX, vista nel suo più chiaro significato, suona con timbri distorti. Per comprendere che cosa voglio dire con questa affermazione proviamo ad analizzare i due termini sui quali essa si appoggia: la Patria e morire. Ora vorrei sapere chi mi assicura che sia dolce morire per una causa quale essa sia. Morire è la fine di tutto, è la caduta di tutte le speranze, di tutte le aspirazioni, è l’aprirsi di un vuoto che lascia accecati, è la vampa di un fuoco che annienta tutto ciò in cui crediamo, tutto ciò che amiamo, è perdere se stessi, la rivelazione di non essere mai stati. Se nel morire si può intravedere una certa dignità, non di certo a esso si accompagnano dolcezza e piacere. Chi mai al mondo vorrebbe provare ad assaporare tale dolcezza e ad anelarvi con tutto se stesso? Nulla può ancora fare un individuo morto, soltanto lo stato di vita è in grado di assicurargli opportunità per costruire, ricercare, creare, essere cosciente di se stesso. Ma, volendo concedere che l’asserzione di Orazio abbia in sé una qualche veridicità indiscutibile, allora vorrei dire ai grandi decisori, quei pochi che, con il potere in mano, sono stati abili nell’accendere le conflittualità e nel portare guerra fra i popoli: “Signori, non è sufficiente che ci assicuriate dignità e onore, proprio a noi che siamo mandati a morire; dateci l’esempio, venite con noi in trincea e portateci all’attacco, all’insegna degli antichi condottieri. Se capiterà, sarà anche per voi dolce e decoroso morire, primi fra i primi”. Così, però, non succede, lo sappiamo, è più facile e rassicurante mandare gli altri a godere di quella dolcezza e di quella dignità, ma restare al sicuro; tanto, terminato l’incubo, a essere decorati con insegne onorifiche saranno i mandanti, non i poveri soldati sfracellati dalle raffiche di mitragliatrice e dalle granate.

Sì, ma sono morti per la Patria, mi si dirà. Ma proprio? E, di grazia di quale Patria? Allora attardiamoci un po’ sul significato che questo termine può rivestire. La Patria è la Terra dei Padri, quel complesso umano e territoriale che porta in sé le conquiste dell’umanità, della cultura, del lavoro, dell’arte, dell’ingegno, e gli affetti più cari insieme al senso profondo di appartenenza per tradizioni comuni storiche e linguistiche. Tutto questo è un patrimonio da salvaguardare, da trasmettere arricchito ai posteri, da difendere qualora sia minacciato dall’esterno. A questo punto mi pongo una domanda: dalla fine delle guerre per l’Indipendenza italiana ossia dal 1866 in poi quale bisogno difensivo ha sovrastato il nostro popolo? Non ne vedo alcuno, nessuno ci ha minacciato di invasione, nessuno ci ha dichiarato guerra, nessuno è partito con la determinazione di sottometterci e di sfruttarci. Ben al contrario, siamo stati noi, proprio noi, ad adottare tali atteggiamenti prevaricatori: bisognava andare in Africa a soggiogare i popoli dell’Abissinia, occorreva dare una lezione alla Turchia per liberare la Libia dalla sua tirannide, era necessario mettere il naso ripetutamente negli affari dell’Albania, imprescindibile assumeva priorità la creazione dell’Impero, dovevamo inviare forze armate in Spagna, la campana della Storia doveva suonare forte per fare scattare l’invasione della Grecia e della Russia. Non mi si venga a dire che esistevano pretesti legittimi e che era la Patria a chiamare le folle in raccolta sotto le armi. I pretesti, se c’erano, non erano altri che le ambizioni dei regnanti a ingrandire i poteri della loro Casa, dei Duci vari che, sotto la vantata bandiera della crescita e del prestigio nazionale, seguivano impulsi per lo più irrazionali e infantili, di competizione o di ripicca, seguiti dalla volontà di pochissimi, talvolta di uno solo, a danno di intere popolazioni. La storia, la stessa storia, non faceva che ripetersi in tutte le manifestazioni conflittuali, portando violenza e morte, miseria e fame, distruzioni e sofferenze senza limiti per la maggioranza della popolazione.

Macerie, costosissimo materiale bellico deformato e inutilizzabile, depositi incendiati, restrizioni alimentari e trattamento spersonalizzante dei Combattenti non fecero altro che abbattere un popolo sino ai limiti della sopravvivenza. Come poteva, tuttavia, una sola persona in molti casi, costringere una Nazione intera ad abbracciare la decisione di muove guerra a un altro popolo? Ecco la spoletta esplosiva: la propaganda da una parte e, dall’altra, un manipolo di alti graduati attorno ai quali si accentrava il potere. La dinamica perversa era sempre quella: sapevano che il dittatore era una persona da far fuori, ma il fatto di investirlo di autorità e di poteri consentiva loro di colludere verso l’avverarsi di aspettative tutte personali, la carriera, il prestigio, il potere. Così il dittatore poteva decidere a suo piacimento o a suo capriccio, mentre il planetesimo dei suoi seguaci godeva dell’impunità e dei privilegi assicurati alla classe al potere. Tutta questa orribile montatura confluiva nel creare false credenze e stereotipi al seguito dei quali, volenti o nolenti, contadini e operai, maledicendo e tacendo, accorrevano armati sapendo di dover morire. Ecco a che cosa si riduceva la Patria, a quel planetesimo che poteva usare il potere e il terrore per tenere in pugno la situazione decantata. La vera Patria, la Terra dei Padri, languiva nella disperazione, piegando la schiena sotto la frusta del potere.

Mi fermo un attimo alle imprese belliche svolte dalla nostra Patria in Terra d’Africa verso la fine del XIX secolo. Allora andava per la maggiore, nella politica espansionistica degli Stati europei, l’idea del colonialismo che portava le varie potenze a gareggiare per impossessarsi delle maggiori e più promettenti regioni del continente africano. Il nostro Stato, a poco più di vent’anni dal momento della sua formazione, si volle lanciare in avventure per le quali non era preparato sia militarmente sia politicamente. Inviò quindi reparti armati in Africa Orientale per prendere possesso di quei territori e combatté duramente contro quelli che erano i partigiani della difesa in Patria, mentre noi li chiamavamo “ribelli”. Andiamo allora in Eritrea, a Massaua. Qui, in seguito all’insurrezione mahdista del 1884, l’Italia, dopo aver preso accordi con l’Inghilterra e con l’Egitto, mobilitato il corpo di spedizione del colonnello Saletta, occupò Massaua. Era il 5 febbraio 1885. Fu, quello, il primo passo per una penetrazione italiana in Etiopia. Ora spostiamoci ad Adua e facciamo scorrere il tempo di un decennio. Arriviamo al 1° marzo 1896 allorché sui colli a Est di Adua divampò una fra le più incisive battaglie delle guerre coloniali. Questa volta fu chiamato il corpo di spedizione al comando del generale Oreste Baratieri, alla testa di 18 mila uomini su quattro brigate rinforzate da 56 cannoni, a battersi contro l’esercito etiopico del negus Menelik il quale poteva disporre di 100 mila uomini con il supporto di un apparato di artiglieria. La marcia su Adua iniziò il 29 febbraio, ma incontrò subito seri ostacoli dovuti all’inesattezza delle carte territoriali, a causa della quale si creò un persistente difetto di coordinamento fra le brigate. Per la mancanza di collegamento fra i reparti, una dopo l’altra le brigate, a mo’ della vicenda occorsa agli Orazi e ai Curiazi (nella guerra scoppiata al tempo di Tullo Ostilio, VII secolo a.C. tra Roma e Albalonga), vennero travolte dalla reazione indigena. Il 26 ottobre 1896 in Addis Abeba (letteralmente: Nuovo Fiore) fu firmato il trattato di pace fra l’Etiopia e l’Italia, che lasciava all’Italia il possesso dell’Eritrea. Lo smacco subito dalle truppe di occupazione italiane lasciò pesanti strascichi che si trascinarono fino al 5 ottobre 1935 allorquando le truppe del generale De Bono entrarono vittoriose nella città.

La guerra, una necessità?

Volgiamo l’occhio al mondo d’oggi e di ieri: non vediamo altro che conflitti, discordie, guerre, uomini contro uomini per ammazzarsi in scontri di inaudita crudeltà. C’è chi, da una parte, osanna la guerra attribuendole addirittura caratteristiche dipendenti dalla volontà divina, e c’è chi s’adopra con gran fatica per scongiurare le situazioni e i tentativi che portano alla deflagrazione di conflitti armati. Scongiurare i tentativi? Tutte energie sprecate, tutto inutile, perché l’uomo non è capace di vivere nel rispetto degli altri e di se stesso. Si fa avanti, sempre, qualche motivo per accampare diritti di supremazia o di nazionalità o di prevenzione o di tutela della civiltà e della democrazia per avvalorare scelte aggressive nei confronti dei vicini apparsi come minaccia per la sicurezza o per l’espansione territoriale di una nazione. Non solo, ma anche e soprattutto, come accade ai giorni nostri, per poter disporre delle fonti di energia distribuite fra gli angoli più sperduti della Terra. Ne abbiamo un esempio attuale, quello della crisi afghana dilagata attorno al Ferragosto 2021: dopo 20 anni di ingerenza statunitense nello Stato dell’Afghanistan si sarebbe dovuto raggiungere l’obiettivo della pacificazione e dell’introduzione del diritto democratico nella politica interna, ma gli Stati Uniti d’America hanno improvvisamente deciso di evacuare il territorio. Allontanatisi gli Americani, immediatamente ha ripreso piede la tracotanza talebana con la conquista successiva di numerosi centri fino a Kabul. A che cosa sono valsi vent’anni di occupazione? Esisteva qualche motivo meno palese per far sì che una Nazione potente si arrogasse il diritto di portarsi in terra straniera sventolando la bandiera dei diritti umani? Sappiamo che la zona è ricca di combustibili fossili e tanto basta per coltivare seri dubbi sulla sacralità della missione statunitense. Quali vantaggi si possono constatare dalla presenza di truppe occidentali in Afghanistan? Presto detto: 1.144 Caduti di cui 53 Italiani, 47 mila e oltre i morti fra la popolazione civile, mille miliardi di dollari bruciati dagli USA nel ventennio per spese militari e ricostruzioni, 8 miliardi e 7 milioni a carico dell’Italia, gente disperata che fugge, che assale gli aeroporti, che si aggrappa ai carrelli degli aerei in partenza per non cadere nelle mani dei talebani, che muore miseramente. Sono del 18 agosto le notizie che parlano di decine di migliaia di profughi in cerca di salvezza. Caduti per la Patria, ancora?

Filosofi e moralisti si sono da sempre interessati alle componenti sociali che conducono allo svilupparsi di eventi conflittuali fra popoli e hanno cercato di definire i tratti peculiari dei quali si riveste il concetto di guerra. Possiamo qui riportarci a 7 di tali definizioni, le seguenti:

  1. La guerra è una “legge divina” trasformata dall’umanità in una “legge eterna del mondo”, nelle parole di Benedetto Croce. Il frate francescano Agostino Gemelli non si ritraeva nel sostenere la divinità della guerra, nel senso che essa coopera al governo divino del mondo nella missione rigenerativa dei singoli e delle nazioni. Di concerto, Filippo Tommaso Marinetti valutava essere la guerra la “sola igiene del mondo”, mentre le istruzioni militari ricordavano al soldato il dovere di dare tutto per la Patria, anche la vita, in quanto volontà del Signore e lo esortava a obbedire ai superiori e ad amarli, perché essi rappresentavano niente meno che Dio stesso.
  2. La guerra nasce dalle passioni umane. Su questo filone dell’investigazione concettuale è Platone a individuare all’origine delle guerre una rosa di sentimenti come la collera, l’orgoglio, l’odio, il bisogno di autoaffermazione, ma anche il sopravanzare di una subdola componente sadomasochistica dell’animo umano.
  3. La guerra è una necessità biologica orientata alla “selezione naturale” nel senso che saranno i più forti a prevalere, togliendo di mezzo i più deboli, una sorta, dunque, di “pulizia etnica” risolutiva. Sarebbe anche la condizione favorevole per uno sviluppo prorompente delle scienze, spinto dalla necessità di inventare nuovi e più potenti mezzi di distruzione e di più efficaci sistemi difensivi.
  4. La guerra ristabilisce l’equilibrio demografico, eliminando chi non è utile al progresso della Nazione.
  5. La guerra è conseguenza del dispotismo e dell’ambizione dei tiranni i quali di essa si servono per mantenere e consolidare il proprio potere.
  6. La guerra è conseguenza dell’esistenza delle nazioni: concetto sostenuto dall’internazionalismo che anela ad abolire le frontiere per abolire anche la guerra.
  7. La guerra è provocata da fattori economici, dove si intende che le guerre vanno spiegate riconducendole al loro contesto economico, sociale, politico e ideologico.

Detto questo, è d’uopo ricordare che Immanuel Kant (foto di Wikipedia), nel suo Progetto per la pace perpetua del 1795, sottolinea la verità secondo la quale non esiste popolo che desideri la guerra ed è pertanto compito dei popoli quello di vegliare affinché non cadano nel tranello della guerra, teso dai loro capi. Sì, ma come? Se il despota del tuo Paese ti dice: “Vai a combattere contro la Nazione X e uccidi tutti quelli che stanno dall’altra parte” tu, che non accetti la prepotenza e l’insensata violenza, puoi dire di no? Sarebbe la tua fine, immediata. E allora tutto il popolo, sebbene la grande maggioranza ne sia contraria, esegue gli ordini dei superiori in armi e butta la propria vita nelle mani del diavolo.

Se una Nazione si manifesta decisamente contraria alla guerra, tuttavia, non basta che se ne stia lontana fisicamente. Costruendo e vendendo armi, condividendo progetti di invasione cosiddetta “pacifista” ma protratta con le armi in pugno, inviando rinforzi per assecondare chi fa la voce più grossa perché può farla, tutto questo è essere dalla parte della guerra, favorirla e alimentarla. Il mondo vivrà finalmente in pace quando ognuno caccerà dal proprio contesto culturale la parola “guerra”, nella consapevolezza che per un solo uomo che muore colpito da arma micidiale è l’universo intero che si spegne, non soltanto per lui, ma per tutti.

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