Il Sistema scolastico italiano – 6 di 8 – La formazione dei docenti

Riflessioni sui lavori dei seminari

Mario  Bruno  –  Ottobre 2005

Il Consiglio Europeo di Barcellona (15 e 16 marzo 2002) ha previsto l’adozione di un programma comprendente gli obiettivi dei sistemi di istruzione e di formazione fino al 2010, ravvisando negli insegnanti gli “attori chiave di tutte le strategie intese a stimolare lo sviluppo della società e dell’economia”.

Diciamo intanto che è necessario dare un carattere più professionale alla formazione, con l’attribuire agli insegnanti un ruolo nuovo nel senso che esso richieda competenze che vanno oltre la capacità di insegnare una determinata materia.

In Europa, nella formazione iniziale degli insegnanti dell’istruzione secondaria di primo grado prevale il modello simultaneo (un programma che, sin dall’inizio, affianca corsi di istruzione generale in una o più materie a una formazione professionale teorica e pratica) sul modello consecutivo (una iniziale istruzione generale per conseguire il diploma in una determinata materia o indirizzo di studio, seguita da un programma di formazione professionale iniziale per il conseguimento della qualifica di insegnante, anche in parallelo ad alcuni corsi generali).

Si dice tanto di Scuole di qualità, di sistemi educativi efficienti ed efficaci. Ma, in sostanza, come si traducono sul piano pratico questi proponimenti di alto profilo ideologico? In un’unica espressione: il concorso di molte persone preparate, motivate, consapevolmente competenti. La Scuola, l’Istituzione Scuola, in definitiva, che cos’è se non la risultante delle azioni di chi vi lavora? E, allora, non è forse da dirsi che una Scuola ha o non ha determinate caratteristiche, pregi o difetti, in stretta relazione con le capacità di chi presta la propria opera al suo interno? Sono comunque sempre gli insegnanti a creare l’identità della Scuola. Insegnanti capaci e determinati daranno alla loro Scuola un’impronta di eccellenza. Insegnanti mediocri e mediamente scadenti getteranno discredito sulla Scuola che li annovera. L’immagine della Scuola, la sua apparenza, costruita con la pubblicizzazione di documenti, relazioni, illustrazioni propagandistiche di per sé nulla dice delle garanzie di successo scolastico che essa potrà offrire ai suoi iscritti. Ma la presenza, in quella stessa Scuola, di docenti affermati e riconosciuti per la loro competenza professionale, per la serietà di impegno e per la capacità di realizzare percorsi formativi coronati da esiti positivi e qualitativamente apprezzabili basterà da sola ad attribuire all’Istituzione l’ambita fama di “Scuola di qualità”. Dunque è del tutto inutile verniciare a più mani la facciata dell’edificio. È al suo interno che bisogna lavorare per dare un volto a una struttura produttiva di incontestabile valore sociale.

Prima di tutto, allora, la formazione iniziale dei docenti, per due scopi ben precisi: 1) selezionare chi “sente” l’attrazione esercitata dalla professione, nella sua duplice espressione di insegnamento e di educazione, e dare corpo a itinerari formativi capaci di attrezzare gli addetti ad affrontare con buone garanzie di sicurezza il proprio compito; 2) indirizzare, orientare, consigliare coloro che, a seguito di un processo di chiarificazione interiore guidata, abbiano dimostrato di non possedere attitudini specifiche al lavoro di insegnante, aprendo loro prospettive alternative di sbocco professionale. È un passaggio essenziale, dal momento che una persona che non percepisca come congeniale alle proprie aspettative l’impiego in attività di insegnamento prima o poi dimostrerà, fatte le debite eccezioni, di lavorare male e mal volentieri, procurando indubbiamente seri danni alla preparazione culturale degli alunni, quand’anche non a qualche risvolto della personalità in crescita dei medesimi.

In secondo luogo, ma non minore per importanza e tempestività, la formazione continua e obbligatoria durante il servizio. Perché, in un mondo che cambia precipitosamente, dove mutano usi, costumi, linguaggi, comportamenti, credenze, mentalità, sono proprio gli alunni a farci sentire che siamo noi a non stare più al passo, noi e i nostri programmi ampiamente obsoleti. Anzi, dovremmo essere noi stessi a fare un passo in più, per precedere i nostri alunni e prevedere dove essi andranno a parare. Se, per i giovani, è la corrente del cambiamento a trascinarli, per noi che ci curiamo della loro educazione dovrà essere un atto deliberato, uno sforzo teso a guadagnare terreno per non perdere l’essenzialità del nostro contributo al processo educativo. La formazione continua, dato il suo rilievo fondamentale per un insegnante che voglia mantenere il contatto con i tempi che segnano il cambiamento, deve anche costituire un obbligo di servizio, come è stato detto. Perché, con il tempo, la professione docente tende a cristallizzarsi su abitudini e moduli di comportamento che riproducono sempre se stessi e si dimostrano fortemente resistenti ai tentativi di revisione, perché il docente ha bisogno di sicurezza e la trova nelle procedure che già ha sperimentato e che hanno portato a certi risultati. Con la differenza che, così facendo, si continua a lavorare ponendo al centro degli sforzi i contenuti disciplinari e la pace dell’anima, non già gli studenti. Questi ultimi cambiano con una rapidità sorprendente; i contenuti di programma e la quiete che discende dalla loro collaudata validità restano docili all’uso e praticamente immutabili.

Una formazione continua ben intesa, tuttavia, deve anche prevedere la specificazione di contenuti culturali che abbiano in sé mezzi e metodi adeguati ad affrontare i cambiamenti, come dire che deve prevedere di mettere in bilancio, prima di tutto e prima di tante zavorre nozionistiche, ciò di cui effettivamente gli insegnanti hanno bisogno, ciò che essi richiedono con insistenza: una sicura competenza, come vado ripetendo con frequenza, nel “saper fare” attraverso il “sapere come”. E su questo punto, torno a ribadire, la formazione in servizio deve necessariamente far capo a scambi culturali attorno a quelle che sono state individuate, in ambito Europeo, come esperienze positive del “fare scuola” e generatrici di risultati incoraggianti, ma anche partendo dal contatto con istituti scolastici prossimi, presenti sul territorio, benché sappiamo che, purtroppo, talvolta occorre scavalcare una serie di resistenze in quanto si ha da fare i conti con una sorta di ermetismo privatistico che rende difficoltosa la diffusione di esperienze pilota.

Da più parti si sente dire che occorre fare qualcosa di diverso, di più incisivo per i giovani d’oggi, poiché, da quanto si va osservando, non basta più che essi conoscano una grande quantità di cose, ma occorre che sappiano fare buon uso delle conoscenze acquisite, metterle in moto, dare loro dinamicità, applicarle ai bisogni della vita reale, in una parola trasformarle in competenze spendibili. Mica poco! Ma, di fronte a un enunciato così altisonante, che fare? Credo non ci sia altra risposta che puntare sulla padronanza, per insegnanti e studenti, di processi cognitivi e metacognitivi capaci di dare risalto e significatività a ogni tipo di comportamento. Ed è qui che viene chiamata in causa la figura dell’insegnante preparato, competente, capace.

Ma poi, tirate le somme, in che cosa consiste l’abilità del “sapere come fare scuola”? Innanzitutto nel generare automotivazione e nel suscitare motivazione intrinseca negli studenti, vale a dire portarli al punto di “volere” cultura per il solo motivo che ne hanno inteso il valore, l’utilità, l’indispensabilità, sino anche a provare piacere nell’individuare problemi, nel cercare di risolverli, nell’affrontare nuove strade verso l’acquisizione dei saperi. E contrastare la noia, quel terribile mostro che distrugge ogni possibilità di progresso scolastico. La noia, invero, il pericolo numero uno, sempre in agguato nella scuola, causata da un modo errato di “fare scuola” e causa, a sua volta, di smarrimento del senso dell’“andare a scuola”, e di rifiuto per ciò che vi si fa, di fuga verso realtà estranee all’ambito scolastico. Allarmante giunge la notizia, diffusa dal Giornale Radio Uno – ore 8 – del 12 settembre 2005, relativa a un’intervista estesa a un campione di studenti all’inizio dell’anno scolastico: una buona parte di questi studenti, il 70% circa, hanno dichiarato di provare un senso di noia nel frequentare la scuola. Possiamo fare a meno di riflettere su questo dato?

È tutto un capitolo aperto che, al giorno d’oggi, ha poche pagine e poche righe scritte su ogni pagina. È più facile e rassicurante trasmettere conoscenze tenendosi ben saldi ai curricoli disciplinari, assegnando giorno dopo giorno porzioni di sapere che detengono una sola virtù, quella di essere ritenuti in memoria sino al momento della verifica o dell’esame, per superare quel passo e non pensarci più. Ma, se vogliamo porre al centro dei nostri sforzi gli studenti e i loro bisogni, allora dobbiamo anche ospitare quella cultura del cambiamento la quale suggerisce che, senza abolire le discipline, da queste è necessario muovere, ma insegnandole in modo diverso, in un modo capace di suscitare curiosità, interesse, forse anche stupore. A tanto si perviene se si stimolano la discussione ordinata in classe, l’espressione di idee, desideri e sentimenti, la formulazione di ipotesi, deduzioni, inferenze, l’amore per il confronto e per ciò che è nuovo, il rispetto e la considerazione per i punti di vista altrui, la capacità di avanzare proposte, senza rifiutare le vie che si servono dell’immaginazione creativa, i quali sono tutti itinerari di taglio metacognitivo. La Scuola ha bisogno di professionisti seri e competenti, fiduciosi nella delicatezza del proprio operato e, per questo, pienamente responsabili delle proprie scelte, sensibili alla ricerca, all’innovazione, alla sperimentazione, al confronto. E sono questi concetti i punti chiave che hanno caratterizzato l’oggetto di analisi nella celebrazione della “Giornata mondiale degli insegnanti” del cinque ottobre 2005: una giornata dedicata all’individuazione di insegnanti di qualità per un’educazione di qualità. Particolare attenzione, direi, è attratta dal punto che, in quell’occasione, si è fatto sul “sapere come” gestire, da parte degli insegnanti, la capacità disciplinare nell’atto di trasmettere cultura; ma anche dalla necessità che gli insegnanti siano esaurientemente equipaggiati per far fronte a un compito delicatissimo – ma anche sin troppo spesso e troppo disinvoltamente disatteso – quale è quello del realizzare lo sviluppo delle potenzialità presenti negli studenti. Impellente si dimostra l’urgenza di investire sul personale insegnante allo scopo di conseguire l’obiettivo di un’educazione di qualità per tutti e per ciascuno.

Chi deve occuparsi della formazione dei docenti? Viene da pensare al Ministero, all’Università attraverso le loro articolazioni di territorio. Questo compito deve far parte di un programma ad ampio respiro per l’attuazione del quale alle forze interne ed esterne alla Scuola è richiesto di riunire gli sforzi nello stabilire itinerari formativi capaci di dare veramente – e finalmente – ai docenti ciò di cui essi necessitano nel momento in cui si trovano a fronte della classe. E, si sa, i docenti devono essere preparati non soltanto in ambito disciplinare ma, con lo stesso peso e con la stessa misura, sul piano dei rapporti umani, educativi in senso stretto, con particolare riferimento alla situazione interculturale e ai vari problemi che si legano all’insuccesso scolastico, con la costante preoccupazione di trasmettere genuini valori democratici, culturali, in un clima nel quale vengono riconosciute e rispettate le responsabilità dei singoli.

Un passo avanti venne fatto con il Decreto Ministeriale 26 maggio 1998 e con la Legge n° 53 del 28 marzo 2003. Il D.M. del 1998 stabilisce un percorso di studio che dà accesso al diploma di laurea a coloro che scelgono di insegnare nella Scuola dell’Infanzia e nella Scuola Primaria. La laurea infatti, come recita l’art. 3 del D.M. citato, “costituisce titolo per l’ammissione, in relazione all’indirizzo prescelto, ai concorsi a posti di insegnamento nella scuola materna e nella scuola elementare…”. Che cosa dà questo titolo accademico? Dà all’insegnante un insieme di attitudini e di competenze che riguardano il possesso di adeguate conoscenze disciplinari; la capacità di ascoltare, osservare e comprendere gli alunni, di considerare i loro bisogni formativi e psicosociali, di lavorare in produttiva sinergia con i colleghi, con le famiglie, con i superiori preposti, con le proposte provenienti dal territorio; la capacità di lavorare nel rispetto della continuità interdisciplinare; l’opportunità di seguire efficaci percorsi formativi e di approfondimento culturale; l’abilità nel rendere significative, sistematiche e motivanti (è uno dei punti fondamentali, quello che rappresenta la maestria, l’arte del saper insegnare, del sapere come) le attività didattiche; la perizia nel condurre gli alunni a partecipare del dominio di conoscenza e di esperienza che loro compete; un complesso di disposizioni utili per l’organizzazione del tempo, degli spazi, dei materiali; una dotazione di rapporto adeguata a far affiorare atteggiamenti ed esperienze alla presenza di sensazioni positive, come quelle che si ritrovano nel piacere di esprimersi, nella curiosità e nella spinta a conoscere; la confidenza nella ricerca di percorsi innovativi; una ragionevole capacità di disporre di verifiche veramente funzionali e di valutazioni ponderate, di sviluppare piena consapevolezza circa il proprio ruolo all’interno della Scuola dell’autonomia.

Dalla descrizione che precede ce ne sarebbe abbastanza per approdare con fiducia alla formazione di “un insegnante quasi perfetto”. Certo non si raggiunge la perfezione, ma la perfettibilità è pur sempre un concetto che stimola ad andare avanti e impone l’individuazione di nuove piste di sviluppo. Così, in Italia, come il D.M./98 ha posto le condizioni per la formazione dei docenti di Scuola primaria e dell’infanzia, in modo analogo sono state attivate, a partire dal 1999, Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario, più correntemente conosciute sotto l’acronimo di SSIS.

Guardandoci attorno, tuttavia, qualcosa pare abbiamo anche noi da imparare. Nello stabilire i percorsi da dedicare alla formazione dei docenti, per esempio. Buone intenzioni, impegno quotidiano, superamento di un concorso sono tutti requisiti positivi per un insegnante, ma non sono ancora il massimo per assicurare il conseguimento di buoni esiti nel lavoro che lo attende. L’esempio della Finlandia può essere istruttivo su questo punto. Per accedere all’insegnamento nelle scuole finlandesi occorre la laurea, non solo, ma anche il conseguimento di una laurea specialistica. Si tratta, nello specifico, di un corso di perfezionamento della durata di un anno o di un anno e mezzo, che può essere compreso all’interno del corso di laurea oppure collocarsi in un secondo tempo, dopo la laurea. Nel periodo in cui attendono alle occupazioni accademiche gli studenti si dedicano altresì ad attività di insegnamento, come tirocinanti. Sin qui si sta attuando, ultimamente, qualcosa di analogo anche in Italia. Ma, poi, gli studenti finlandesi sono sottoposti a puntuali esami e valutazioni da parte di insegnanti professionisti perché il conseguimento del titolo specialistico sortisca gli effetti dovuti sulla qualità del lavoro. Sono poi i Comuni a essere interpellati per la consultazione di una scala di meriti personali acquisiti e, in concorso con le Scuole, a procedere alla nomina dei nuovi docenti.

Immagini header tratte da Vecteezy

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