Il giorno di Natale 2020 il servizio Televideo diffondeva la dichiarazione di Papa Francesco, quasi una sortita visti i tempi: “Il tenero pianto di Dio bambino ci fa capire quanto sono inutili tanti nostri capricci, e ne abbiamo tanti”. Il motivo di fondo che regge queste parole ha una sua indubbia valenza morale e religiosa, con una prima riserva, tuttavia, su quel termine “capricci”. Se per capricci intendiamo le guerre, lo scannarci a vicenda, il costruire strumenti sofisticati e sempre più potenti di morte, allora la locuzione è decisamente inadatta a sostenerne il peso. Ma, al di là di questa fugace osservazione, la mia attenzione è attratta piuttosto intensamente dal binomio coniato seduta stante da Papa Francesco, ossia Dio bambino. Dirò subito che della parola “Dio” si sta facendo un uso improprio ed eccessivo, pletorico all’occasione: pronunciandola, ci vogliamo riferire a un’Entità che assolutamente non conosciamo. È la gerarchia ecclesiastica a volerci addottrinare sulla conoscenza di quell’Essente che si sarebbe rivelato ai profeti in epoche remote e che si presenta ai suoi adepti facendoli parlare e scrivere “per ispirazione”. Già quest’altro termine, “ispirazione”, spinge a formulare un’infinità di questioni e all’insorgere di pesanti dubbi. Attorno a tale vocabolo, per il vero, si può erigere una struttura concettuale alimentata da inesauribili congetture. C’è sempre qualcuno che trasmette quelle che professa aver ricevuto da Dio stesso come “verità rivelate” e non ne mette in discussione la veridicità, nondimeno la sacralità in quanto le investe convintamente dell’attributo parola di Dio. Parola, in ogni modo, formulata e trasmessa sempre “per ispirazione”, per grazia di Dio se vogliamo.
Guardando bene in fondo, con gli occhi e con il discernimento di cui disponiamo, si tratta pur sempre, in ogni caso, di parole partorite e proferite da mente umana. Il fatto che la fonte divina delle verità rivelate fosse riservata ai profeti non esime dal pensare che qualcuno, dopo l’era dei Profeti, abbia intravisto la possibilità di arrogarsi il diritto di conferire alle Verità rivelate un’origine senz’altro divina. Ma per attribuire a una divinità una serie di enunciati verbali occorre, prima di tutto, conoscerla quella divinità. Nessuno conosce Dio, nessuno può averne seppur la minima idea, perché se alcuno sapesse qualcosa della sua entità potrebbe persino cercare di impossessarsene e Dio, così come ce lo possiamo immaginare nell’unica versione accessibile, può essere qualcosa o qualcuno di indefinibile, di inarrivabile, di inconoscibile. Ce ne possiamo soltanto fare un’idea assolutamente inadeguata ed estremamente incompleta dalle opere che a lui siamo soliti attribuire, dai misteri che circondano l’immensità del nostro Universo, dal nostro infinito e perennemente insoddisfatto bisogno di conoscere.
Parlare pertanto gratuitamente di Dio come se ci si rivolgesse a un ente benefico dal quale impetrare, con suppliche e offerte, favori e grazie mi sembra una banalità, ancorché di basso rango. Ogni individuo nella propria intimità e nei propri pensieri può rivolgersi, così credo, a quell’Entità che va cercando e che lascia le sue creature in un’attesa di sofferenza, forse anche di speranza. Ed è per questo che mi sento contrario all’idea di approvare e seguire le declamazioni roboanti di quei sedicenti ministri che danno a credere, a chi è propenso a crederci, di essere in rapporti ravvicinati con Dio, quasi si trattasse di un amico conosciutissimo con il quale si siano stretti particolari rapporti confidenziali.
Vengo al secondo termine del binomio accennato, bambino. È la prima volta che ho l’occasione di udire una proclamazione di tal fatta. Mi trattengo allora un attimo nel tentativo di cercare di capire che cosa Papa Francesco avesse voluto dire con quel “bambino”. Se intende riferirsi a Gesù nella mangiatoia di Betlemme, ben sia, ma Gesù è veramente un bambino, figlio dell’uomo come usava proclamarsi e come venne riportato nei Vangeli. Un bambino che cresce, diventa uomo e percorre l’arco della propria vita terrena come tutti gli altri suoi simili. Accostare le parole Dio-bambino significa calare nella natura caduca dell’umanità un’Essenza infinitamente superiore e ivi imprigionarla riducendola drasticamente a partecipare in tutto e per tutto dei destini umani. Così dunque potremmo essere indotti a pensare a un Dio che sia nato, che cresca, che diventi adolescente e infine uomo maturo. È un accostamento, questo, che nulla ha del comprensibile, che a ben vedere può persino essere definito blasfemo. La Divinità, nella sua essenza ineffabile, nulla ha a che vedere con la natura umana corrotta e corruttibile. Se è vero che ha voluto rivestirsi di spoglie mortali per condividere le nostre tribolazioni e per realizzare una più completa consapevolezza di Se stessa, allora mi viene da dire che quel Gesù, venuto al mondo in umili condizioni, non è altro che uno di noi, forse e con molte probabilità veramente “ispirato” dalla Sapienza divina, partecipe della nostra fattispecie per insegnarci la Via verso la conoscenza della Verità. E ognuno di noi sarebbe un Cristo con la propria croce sulle spalle, le proprie vicissitudini, le proprie angosce, la propria insoddisfazione, lanciato in una corsa sfrenata di cui non conosce la meta né lo scopo.
Mi accorgo che dire così della natura divina di Gesù è eresia, ma l’eresia è un’altra di quelle macchinazioni prodotte all’uopo per dominare le folle, di chiaro stampo mondano dunque, proferita dalla bocca di semplici creature terrestri. D’altra parte, da quanto è possibile desumere leggendo i testi evangelici, Gesù non si è mai professato unigenito figlio di Dio e a lui identico nella sostanza. Quando accenna a Dio lo definisce con l’appellativo di Padre suo e di ognuno dei mortali. Negli ultimi giorni della sua vita lo vediamo coinvolto in due situazioni particolarmente quanto misteriosamente rivelatrici. La prima viene espressa sul piano politico: la risposta “Tu lo dici” che egli restituisce a Pilato (Matteo, XXVII, 11) alla di lui domanda: “Sei tu il Re dei Giudei?” ne dà testimonianza. Così pure, come riferisce Giovanni (XVIII, 37), allorché Pilato, preso da timore per la stabilità della propria supremazia politica in terra d’Israele, rivolse l’interrogativo a Gesù “Dunque sei re?”, Gesù stesso rispose: “Tu lo dici, io son re. Son nato per questo, e per questo son venuto al mondo a rendere testimonianza alla verità. Chi è per la verità ascolta la mia voce”.
Sconcertante, a questo punto dell’interrogatorio, l’ultima richiesta rivolta da Pilato a Gesù: “Che cos’è la verità?” (Giovanni, XVIII, 38), rimasta senza riscontro, anche perché Pilato non attese risposta alcuna e se ne uscì rivolgendosi ai Giudei: “Io non trovo in lui colpa alcuna”. Già qui si scopre l’uomo che s’interroga sui concetti fondamentali che ne reggono l’esistenza, egli pure deluso dal non trovarvi risposte e spiegazioni prossime al suo bisogno di conoscere.
Nella versione di carattere più strettamente biblico è il sommo sacerdote, nel Sinedrio, che interroga Gesù: “Sei tu il Cristo, Figlio di Dio benedetto?” e Gesù avrebbe risposto: “Sì, lo sono” (Marco, XIV, 61-62). Secondo Luca, poi (XXII, 70), alla domanda: “Tu sei dunque il Figlio di Dio?” la risposta del Maestro sarebbe stata: “Voi stessi lo dite che io lo sono”. Dunque Gesù, dalle parole che pronuncia, pare voler attribuire a sé quella natura divina che è propria di ciascuno di noi, come figli del Padre.
Se vogliamo attardarci su quella che è l’unica verità conoscibile, quella che cade sotto i nostri sensi nell’esperienza quotidiana, allora andiamo a vedere chi ha detto che Gesù era anche Dio nella stessa sostanza, visto che Gesù stesso non afferma con completezza di termini tale assunto. A noi, oggi, lo dice il Magistero ecclesiastico che supporta quella che chiama Verità poggiandola sui contenuti dei Testi Sacri e sulle testimonianze dei profeti. Non tornerò su questa parte della mia analisi e mi recherò direttamente sul luogo e nel tempo dove la fede nella consustanzialità del divino con l’umano ebbe origine: Nicea, Asia Minore, nella tarda primavera dell’anno 325. Qui l’imperatore romano Costantino aveva convocato il primo Concilio ecumenico alla presenza di circa trecento vescovi. Fu in quella circostanza che Costantino fece approvare il nuovo Credo, quello che ancor oggi si recita nelle funzioni religiose, con la proclamazione della consustanzialità ossia della stessa sostanza divina del Padre e del Figlio, il che veniva codificato nell’essere Gesù allo stesso tempo uomo e anche Dio. (Per un approfondimento dei fatti di Nicea si veda nella trilogia qui rappresentata in immagine).
Ben 1695 anni sono trascorsi da quando accadevano queste cose e oggi, nel 2020 della nostra era, la fede cattolica ancora si regge sulla formulazione di quel postulato forgiato da un imperatore e imposto con pesanti ricatti a quei vescovi che, avendo aderito alle proteste e alle posizioni contrarie espresse da Ario, furono emarginati dal consesso.
Sul filo delle deliberazioni conciliari di Nicea può apparire persino comprensibile quale realtà voglia far risaltare Papa Francesco parlando di un Dio bambino. Resta il fatto che nessun uomo-Dio e nessuna autorità da lui ispirata si trovi nella condizione di sottoscrivere un’affermazione di tal fatta. Il bambino, per quanto rivestito di sacralità, resta un bambino, crescerà come tutti e, come tutti, seguirà il proprio destino di creatura umana. Se Dio è in lui, come in ciascuno di noi, questo è un altro discorso e quel Dio che vogliamo conoscere per amarlo, adorarlo e servirlo, resta per sempre nascosto alla nostra presunzione di sapere e di detenere la Verità.