La Nuova Guinea conquistata
Gli Americani arrivarono davanti a Hollandia il 22 aprile 1944, quando i Giapponesi credevano nel loro sbarco nella zona di Wewack e di Madang. Ma Mac Arthur era al corrente di tutto: ordinò piccole azioni alla Marina nella baia di Hansa mentre fece paracadutare una serie di manichini. Il 3 aprile su Hollandia caddero 400 tonnellate di bombe che distrussero a terra 228 aerei.
Il 21 aprile gli ammiragli Barbey e Mitscher si avviarono verso Hollandia dove i 15 mila Giapponesi della guarnigione si diedero alla fuga sulle montagne. I superstiti furono trovati affamati, disarmati, e i cadaveri imputriditi dalla cancrena, verdi per essersi nutriti di erba. In quattro giorni gli Americani occuparono gli aeroporti di Hollandia, di Santani e di Ciclopi. La 18a Armata del generale Adachi era stata fatta prigioniera, con oltre 100 mila uomini presi in trappola. Il 17 maggio gli Americani attaccarono Wadke a 300 chilometri oltre Hollandia, sede di un importante aeroporto. Vennero sganciate tonnellate di bombe sul porto di Sarmi, nei pressi di Wadke. Trascorsi dieci giorni, fu sferrato l’attacco all’isola di Biak, ricca da una numerosa serie di caverne, trasformate in fortini. Qui il colonnello Kuzume comandava una guarnigione di 10 mila uomini del 22° reggimento Fanteria e dei fucilieri della Marina.
Il 22 giugno Kuzume ordinò agli ufficiali un suicidio collettivo. I superstiti, nella notte, davano mano alle mitragliatrici, ma 109 Giapponesi restarono uccisi. In Nuova Guinea il generale Adachi, con la sua 18a Armata, si gettò in un ultimo tentativo. Fallito il contrattacco, una trentina di Giapponesi cercò rifugio nella giungla dove finirono di suicidarsi. Con l’occupazione di Noemfoor e di Sansapor Mac Arthur poté sentirsi padrone della Nuova Guinea.
Primi passi verso il Giappone.
Siamo al 20 giugno 1944. Sono trascorsi sei giorni da quando i marines e i fanti del generale Holland Smith sbarcarono a Saipan, un’isola di 260 km2, munita di artiglieria pesante e protetta dalla flotta dell’ammiraglio Nagumo. Il giorno dell’attacco era stato fissato per il 15 giugno. Dopo i bombardamenti, iniziati alle ore 13, i primi marines, trascorse due ore, raggiunsero le spiagge presso Charan Kanoa. Contrastati da furiosi contrattacchi e impediti dalle paludi, i marines furono costretti a retrocedere, ma intervennero i cannoni della Marina americana e degli aerei di Mitscher che lasciarono sulla spiaggia 700 cadaveri. Saito decise di gettarsi ancora in un tentativo di sbarramento, ma le sue forze vennero respinte dai marines. Il 17 Nagumo informava Tokio degli Americani in procinto di attaccare l’aeroporto. I sommergibili americani segnalarono a Spruance l’approssimarsi di due flotte giapponesi al comando dell’ammiraglio Ozawa che si proponeva di distruggere con i propri 300 aerei la Task Force 58. Il sommergibile Albacore mirò a colpire con sei siluri la nave Daiho, la più grande portaerei del mondo, che affondò insieme al Sohkaku. Ozawa trovò la salvezza sull’incrociatore Agura. Intervennero 300 aerei giapponesi dei quali gli Americani fecero un massacro. Anche la seconda ondata aerea fu neutralizzata: 400 aerei abbattuti su 500.
Veniva scoperta una squadra giapponese composta da 6 portaerei, 4 corazzate, 11 incrociatori e 21 cacciatorpediniere; attaccate dai siluri lanciati dagli aerei americani, affondarono o restarono fortemente danneggiate le navi: Hitaka, Hayataka, Ryuhko, Zuikaku, Shiratsuyu. Nel corso dell’azione gli Americani persero 95 aerei e una cinquantina di uomini. Sulla terraferma era il generale Smith a dirigere le operazioni, ma il risultato fu catastrofico e Smith fu esonerato dal comando; gli successe il generale Sanderford Jarman.
Il 24 giugno Saito lanciò i suoi 6 mila uomini all’attacco, con il supporto di carri armati, ma venne respinto. Ebbero la meglio gli avieri del generale Clark, conseguendo attacchi vittoriosi. Mentre gli Americani avanzavano, Saito comprese che ormai tutto era perduto. Era rimasto con 5 mila uomini, ma finì per suicidarsi. Negli scontri erano morti 30 mila Giapponesi e 3 mila Americani. L’ammiraglio Nagumo si uccise, seguito nell’esempio da numerosi civili.
Guam, una piccola isola
Siamo a Guam, una piccola isola dell’arcipelago delle Marianne, lunga appena una cinquantina di chilometri, sud del Giappone, est delle Filippine. Fu teatro di una battaglia protrattasi per venti giorni. Il 25 luglio 1944 i Giapponesi si lanciarono in un attacco disperato con 20 mila uomini agli ordini del generale Sho Takashina. Da parte americana l’ammiraglio Connolly e Holland Smith decisero l’inizio dell’attacco per il giorno 21 luglio. L’attacco fu preceduto da un forte bombardamento con 124 tonnellate di bombe. Il generale Takashina, nel terribile contrattacco del 25 luglio, perse 3.500 uomini. I Giapponesi si rifugiavano nei numerosi fortini, 250 del quali furono presi dagli Americani con la conquista della base di Orote il giorno 29. I Giapponesi avevano perso 5 mila uomini, il generale Takashina era stato ucciso nell’attacco del monte Tenjo e il generale Obata, che aveva sostituito Takashina, ordinò la ritirata verso nord e verso il monte Santa Rosa che, preso dalla 77a divisione, decise la fine della battaglia di Guam: era il 10 agosto 1944. A Guam erano morti 2.524 Americani 18.500 Giapponesi.
Tinian, dopo Guamo, era la terza isola delle Marianne e costituiva una base aerea irrinunciabile per sferrare l’attacco alle Filippine nel corso del quale si fece uso delle bombe al napalm. Difendeva Tinian il colonnello Ogata con 8 mila uomini e una forte artiglieria. I bombardamenti su Tinian imperversavano dall’11 giugno dal cielo e, dalle navi dell’ammiraglio Hill, a partire dal 16. Il giorno dell’attacco era stato fissato per il 24 luglio. Il generale Harry Schmidt era a capo delle truppe da sbarco ossia la 2a e la 4a divisione Marines. Il 24 furono 156 bocche da fuoco con i cannoni della marina a dirompere, consentendo alla 4a divisione di occupare la spiaggia di Hagoi. Ogata rispose con tre contrattacchi, ma fu fermato, con la perdita di 1.200 uomini. L’avanzata degli Americani guadagnava 4 chilometri al giorno, sino al 1° agosto, giorno della conquista definitiva dell’isola di Tinian. Ogata si fece uccidere nel corso di una delle ultime cariche.
Dopo due anni, dall’11 marzo 1942, Mac Arthur tornò raggiungendo il golfo di Leyte con 124 mila uomini e centinaia di navi costituenti la 3a Flotta dell’ammiraglio Halsey e la 7a dell’ammiraglio Kinkaid. L’8 settembre ebbero luogo i primi bombardamenti americani sugli aeroporti giapponesi, una settantina nell’arcipelago delle Filippine. Il primo fu quello di Mindanao.
L’ammiraglio Halsey il 13 settembre telegrafò all’ammiraglio Nimitz a Pearl Harbour e a Mac Arthur in Nuova Guinea consigliando lo sbarco a Leyte, attribuendo minore importanza alla conquista di Mindanao. Mac Arthur e Nimitz approvarono il piano di sbarco a Leyte. Il possesso delle Filippine era remunerativo per i rifornimenti di caucciù, di petrolio, di stagno e riso. L’arcipelago era passato, dal 1942, dal dominio americano a quello giapponese.
Il 24 agosto Halsey aveva ricevuto il comando della 3a Flotta a Eniwetok. Dava grande importanza alla conquista delle Filippine. L’ammiraglio King pensava invece fosse prioritario conquistare Formosa, tra le Filippine e il Giappone. Mac Arthur era per la conquista delle Filippine, anche perché Formosa aveva ben poche spiagge adatte allo sbarco, dunque occorreva prendere prima di tutto Mindanao. C’era disaccordo fra Mac Arthur a l’ammiraglio Nimitz. Fu deciso per l’operazione su Leyte, prevista per il 20 dicembre.
Da parte giapponese l’ammiraglio Toyoda aveva a cuore le Filippine: con la loro perdita le fonti di rifornimento del sud sarebbero rimaste isolate; sarebbero mancati carburante, munizioni e armi. Al tempo i capi della Marina giapponese erano Toyoda, Kurita e Ozawa.
Il 3 ottobre i capi americani di Stato Maggiore stabilirono l’attacco per il 20 ottobre: il generale Mac Arthur avrebbe liberato Luzon a muovere dal 20 dicembre. L’ammiraglio Nimitz avrebbe occupato posizioni nel gruppo delle Bonin e delle Volcano per la data del 20 gennaio 1945, sbarcando alle Riu-Kiu il 1° marzo. Agli ordini del generale Mac Arthur era la 7a Flotta al comando del viceammiraglio Kinkaid. L’ammiraglio Chester W. Nimitz, comandante della Flotta del Pacifico, avrebbe avuto la 3a Flotta al comando dell’ammiraglio Halsey e la 7a AirForce comandata dal generale Arnold. La 14a Air Force era affidata al generale Stilwell. Mac Arthur dispose che Kinkaid sbarcasse a Leyte con le forze d’assalto. Nimitz incaricò Halsey di attaccare Okinawa, Formosa e Leyte dal 10 al 13 ottobre. L’attacco si sviluppò il giorno 10, con la distruzione di 110 aerei giapponesi contro 21 americani. Le incursioni si portarono l’11 su un aeroporto a nord di Luzon e il 12 su Formosa. Furono abbattuti oltre 500 aerei giapponesi contro 90 americani.
Il prezzo per l’isola di Leyte.
Arriviamo al 19 ottobre 1944. Il generale Suziki, al comando della 35a Armata, aveva il compito di difendere Leyte, Panay e Mindanao. A Leyte era di stanza la 16a divisione del generale Shiro Makino.
Attorno alle ore 10 aveva inizio lo sbarco. La 1a divisione di Cavalleria del 10° corpo doveva impossessarsi dell’aeroporto di Tacloban, dopo la presa della città di San José. I Giapponesi avevano scavato trincee e costruito fortini nella giungla e nelle risaie. Il primo giorno di scontri armati si registrarono 49 morti, 192 feriti e 6 dispersi fra gli Americani.
Due sommergibili, il Darter e il Dace incontrarono la flotta giapponese. Attaccarono con i siluri l’incrociatore Atago che aveva a bordo l’ammiraglio Kurita, e il Takao. Kurita perdeva la sua nave con tutti i 360 uomini di equipaggio. Con quattro siluri il Dace colpì l’incrociatore pesante Maya mandandolo a fondo. Il Darter finì per urtare una barriera corallina e incagliarsi, subito bombardato da un aereo nipponico.
L’ammiraglio Toyoda provò l’ultima possibilità prevedendo l’offensiva per il 25 ottobre. La flotta d’attacco comprendeva 5 corazzate, 10 incrociatori pesanti, 2 incrociatori leggeri e 15 cacciatorpediniere. Kurita si diresse verso lo stretto di San Bernardino. Nishimura, al comando della 3a sezione della 12a Forza, disponeva di due corazzate, la Fiso e la Yamashiro, dell’incrociatore pesante Mogani e di quattro cacciatorpediniere, in direzione verso Leyte.
Il 24 ottobre 200 aerei giapponesi giunsero sopra Leyte e attaccarono le navi americane al largo di Tacloban: furono abbattuti 84 aerei nipponici e 3 americani. La sera del 27 furono una dozzina di aerei nipponici ad attaccare l’aeroporto di Tacloban, senza esito.
Nei mari della Filippine, a sbarramento della rotta delle squadre giapponesi erano schierate due flotte americane: la 7a al comando dell’ammiraglio Kinkaid, dipendente del generale Mac Arthur, e la 3a al comando dell’ammiraglio Halsey, dipendente dall’ammiraglio Nimitz. Allorché furono avvistate le forze giapponesi, 21 caccia, 12 bombardieri in picchiata e 12 aerosiluranti si approssimarono alla squadra di Kurita. La corazzata gigante Musashi fu colpita e affondata, un’altra prese fuoco e altre due gravemente danneggiate. Venne affondato un incrociatore e tre furono messi fuori combattimento. Era stata l’azione di 259 decolli. Kurita impartì l’ordine di ripiegamento, mentre gli aerei americani di Halsey attaccavano le navi di Nishimura che però riuscì a passare indenne.
I Giapponesi, da parte loro, sganciarono una bomba da 250 kg sulla portaerei Princeton, in aiuto della quale si diresse il cacciatorpediniere Irwin, seguito dal Birmingham e dal Morrison. La Princeton, dopo una violenta esplosione, venne abbandonata, infine silurata e affondata dall’incrociatore Reno.
Nishimura e Shima continuavano ad avanzare, cosa che fece anche Kurita verso lo stretto di San Bernardino. Toyoda impartì l’ordine a tutte le forze di attaccare.
Alle ore 3 del 25 ottobre 1944 i cacciatorpediniere americani nel giro di poco più di un minuto lanciarono 24 siluri contro le navi giapponesi. La corazzata Fuso, colpita, venne affondata, così un cacciatorpediniere giapponese, mentre un altro fu messo fuori combattimento. La corazzata Yamashito, colpita, continuò comunque per la sua rotta. L’ultimo cacciatorpediniere di Nishimura esplose e affondò, ma Nishimura continuò ad avanzare nonostante la sua nave fosse stata colpita e molte altre affondate. Poco dopo, la Yamashito esplose e affondò inghiottendo Nishimura e quasi tutto l’equipaggio. L’incrociator pesante Mogami invertì la rotta perdendo il comandante e gli ufficiali per una granata. Soltanto lo Shigure godeva buona salute e si diresse a sud. L’incrociatore pesante Nachi speronò il relitto del Mogami il cui equipaggio fu costretto ad evacuare. La flotta giapponese era in piena ritirata, dopo che oltre 5 mila uomini erano morti nello stretto. All’alba, dalla Yamato si avvistò una mezza dozzina fra portaerei, incrociatori e siluranti. Kurita insisteva con l’ordine di attaccare. Tre salve da 355 mm raggiunsero la White Plains. Mentre le navi di Kurita si avvicinavano, Sprangue diede ordine ai cacciatorpediniere di attaccare con i siluri. Il primo cacciatorpediniere a lanciarsi all’attacco fu il Johnston che, a sua volta, fu colpito da sei proietti di artiglieria e, dopo uno scontro con l’incrociatore leggero Yahagi, fu affondato. I siluri raggiunsero l’incrociatore Kumano che andò a fuoco e fu messo fuori combattimento. Mentre gli uomini del Johnston continuavano a sparare, L’Hoel, colpito seriamente, affondò. Anche il Samuel B. Roberts, cacciatorpediniere di scorta, fu mandato a fondo.
Gli incrociatori di Kurita lanciarono una nuova offensiva contro le navi di Sprangue. Vennero colpite la Fanshaw Bay, con tre morti e venti feriti, la Kalinin Bay e la Gambier Bay inabissatasi. Un incrociatore veniva affondato da una bomba da 500 kg. Le munizioni cominciavano a scarseggiare. Mentre gli Americani si battevano fino all’esaurimento, Kurita dirigeva la propria flotta verso nord, come in fuga.
Il 25 ottobre un ricognitore della portaerei Independence avvistò la flotta di Ozawa a nord dell’isola di Luzon. Halsey informò Kinkaid e Nimitz della nuova scoperta. Halsey, che poteva disporre di aerei, si trovava in netto vantaggio sui Giapponesi; inviò dunque gli aerei all’attacco, dieci dei quali furono abbattuti dal fuoco di Ozawa. Gli aerei americani riuscirono ad affondare la portaerei leggera Chitose, l’incrociatore pesante Zuikaku, un cacciatorpediniere, la portaerei Chiyoda, e a danneggiare gravemente altre navi. Una terza offensiva americana fece andare a fondo due portaerei, la Zuikaku e la Zuiho. La corazzata Ise fu bersagliata da 34 bombe, ma resistette. Venne invece affondato il cacciatorpediniere Hatsuzuki. Il 26 ottobre venne affondato a cannonate un cacciatorpediniere.
La squadra di Shima era riuscita a fuggire dopo che Oldendorf aveva sconfitto Nishimura. Al termine della battaglia di Surigao venne affondato un altro cacciatorpediniere. La squadra di Shima venne attaccata dagli aerei americani e decimata, mentre la contraerea di Kurita riuscì ad abbattere dieci aerei americani. Il giorno 26 furono 157 aerei americani a muovere contro Kurita, affondando un incrociatore leggero e danneggiando l’incrociatore pesante Kumano. A inizio novembre la battaglia di Leyte aveva causato l’affondamento di 4 portaerei, 3 corazzate, 6 incrociatori pesanti, 4 incrociatori leggeri e 11 cacciatorpediniere, con molte altre navi rimaste danneggiate.
Il mattino presto del 25 ottobre sei aerei giapponesi solcarono il cielo, quando uno di essi precipitò sulla prua della portaerei di scorta Santee. Persero la vita 16 uomini dell’equipaggio e 27 furono feriti; distrutti numerosi aerei. Altri due aerei si gettarono sulla portaerei Suwannee: si inaugurava l’epoca dei “Kamikaze”. L’obiettivo si spostò sulla Kitkun Bay, sulla Kalinin Bay e sulla Saint-Lò che andò a picco. I Kamikaze (vento divino) erano nati il 18 ottobre 1944 quando il vice ammiraglio Takejiro Onishi era al comando della 1a Squadra aeronavale. Il contrammiraglio Ugaki ne comandava le formazioni.
Oltre 45 mila Giapponesi e 10 mila tonnellate di materiale raggiunsero l’isola di Leyte, salvaguardando la via per il petrolio. Gli Americani puntarono su un obiettivo, Catmon Hill, una posizione difensiva giapponese di una certa importanza, ma la marcia era impedita dalle paludi e dalle risaie. Contro il fuoco intenso dei Giapponesi gli Americani straziarono la collina con tremila granate. Al 31 ottobre si registrarono 2.769 Giapponesi uccisi e sei tradotti in prigionia, mentre per gli Americani vi furono 145 caduti, 564 feriti e una novantina di dispersi.
La seconda offensiva americana mise in campo la 1a divisione di Cavalleria. Gli Americani raggiunsero la parte settentrionale dell’isola, aprendo la via di Ormoc, il porto dei Giapponesi. L’attacco venne stabilito per il 4 novembre, ma si realizzerà il 7 dicembre con uno scontro corpo a corpo e con la sconfitta dei Giapponesi. Il 25 dicembre il generale Yamashita, responsabile della difesa delle Filippine, comunicò al generale Suzuki la sconfitta di Leyte e, cinque giorni dopo, propose che lo sforzo delle truppe giapponesi si spostasse su Luzon, dove le forze di Yamashita si raggrupparono in gran numero. Suzuki resistette fino al 17 marzo, ma il 16 aprile una bomba americana fece affondare la nave di Suzuki che scomparve anch’egli fra i flutti.
Mac Arthur, che in gennaio era forte di 257.766 uomini, ne perse 3.500 in combattimento ed ebbe 12 mila feriti. I Giapponesi, che erano partiti con 61.800 uomini, ne persero 48.790. Ora Mac Arthur poteva dirigere le forze americane sull’isola di Mindoro che venne occupata il 23 dicembre, insieme alla presa di Samar.
Il 2 gennaio 1945 le forze americane si riunirono nel golfo di Leyte con le navi di Kinkaid, le portaerei dell’ammiraglio Oldendorf, la 6a Armata imbarcata al comando del generale Krueger e gli aerei del generale Whitehead. Mac Arthur dirigeva personalmente le operazioni. Il giorno 4 una serie di Kamikaze si abbatté sulle navi americane. Due giorni appresso rimasero colpite 16 navi, fra cui la nave ammiraglia di Oldendorf, la California. Il 9 gennaio ben 68 mila soldati americani presero posizione oltre il golfo di Lingayen.
Il 17 gennaio Mac Arthur ingiunse alle proprie truppe di puntare su Manila dove il 31, sulle coste meridionali, sbarcarono successive unità americane, con la conquista della città di Nasagubu e del suo aeroporto. Il primo a fare il proprio ingresso a Manila fu l’8° reggimento Cavalleria. Il 5 febbraio i Giapponesi opponevano ancora una energica resistenza. Due giorni dopo Mac Arthur annunciava ufficialmente la conquista di Manila, ma i combattimenti si protrassero ancora fino al 4 marzo. A Manila gli Americani avevano perso mille uomini caduti in combattimento e 550 feriti. Per i Giapponesi vi furono 16 mila morti.
Nella valutazione dei Comandi americani era necessario far saltare due punti chiave della difesa giapponese: la penisola di Bataan e l’isoletta di Corregidor. Su quest’ultima il 16 febbraio si gettarono i paracadutisti e contingenti armati venivano sbarcati, per una battaglia che durò dieci giorni. Il 26 febbraio i Giapponesi fecero brillare un deposito sotterraneo di esplosivi: in quell’evento perirono centinaia di Giapponesi e di Americani. Nello stesso giorno veniva presa Corregidor, al prezzo di mille morti e feriti fra gli Americani e di 4.500 morti tra i Giapponesi.
Si parlava di Iwo Jima.
La battaglia di Iwo Jima ebbe luogo nell’omonima isola giapponese tra le forze statunitensi al comando dell’ammiraglio Raymond Spruance e le truppe dell’esercito imperiale giapponese al comando del generale Tadamachi Kuribayashi, coadiuvate da reparti della Marina. I Giapponesi si avvalevano di un servizio di ascolto e di informazione, detto “Oada Skushintaï”, che informò lo Stato Maggiore del prossimo attacco americano, previsto si Okinawa, ma il 12 febbraio 1945 un pilota giapponese avvistò una flotta americana di 170 navi diretta verso Iwo Jima. Si pensò che gli Americani avrebbero attaccato il 16 febbraio. Kuribayashi si affrettò a munire di possenti difese Iwo Jima, forte di 478 mitragliatrici pesanti e di 120 bocche da fuoco, con una truppa di 22 mila uomini.
Alle ore 9 del 17 febbraio Kuribayashi faceva aprire il fuoco sulla vecchia portaerei Pensacola che si ritirò con sei falle nella chiglia e 137 morti fra l’equipaggio. Dodici scialuppe americane furono bersagliate dal fuoco nipponico e nessuna tornò alla base. Il cacciatorpediniere Leutze fu gravemente colpito, ma la flotta americana reagì con tonnellate di granate e di bombe dal cielo, sino al 18 febbraio.
Un’ultima riunione dello Stato Maggiore americano vedeva presenti l’ammiraglio Spruance, l’ammiraglio Turner, il generale Holland-Smith, il generale Schmidt, con i tre generali di divisione Erskine, Cates, Rockey. Il bombardamento di Iwo Jima era stato il più potente di tutta la guerra nel Pacifico: per 62 giorni consecutivi erano state gettate quasi 6 mila tonnellate di bombe. A bombardare Iwo Jima si mossero 62 superfortezze volanti e 130 altri aerei. La Marina aprì in fuoco dalle corazzate North Carolina, Washington, New York, Arkansas, Texas, Idaho, Nevada, Tennessee e dagli incrociatori Biloxi e Birmingham. Era anche la prima volta che gli Americani sbarcavano su territorio giapponese. La sera del 18 febbraio davanti a Iwo Jima stavano schierate 880 navi americane. La prima ondata di mezzi da sbarco era composta di mezzi anfibi cingolati con cannoni da 75. La seconda era adibita a trasportare i marines. La terza trasportava i carri e i bulldozer. La quarta ondata era per le squadre della Sanità. L’Eldorado era la nave ammiraglia.
L’unica difficoltà dello sbarco fu la presenza di sabbia vulcanica che immobilizzava i veicoli sulla spiaggia. Improvvisamente i Giapponesi aprirono il fuoco, inchiodando al suolo gli Americani appena sbarcati. Successe una vera carneficina. I Giapponesi apparivano da ogni angolo e procedevano a decimare i soldati americani. La situazione divenne presto catastrofica. I Giapponesi sparavano sulle scialuppe e sui mezzi da sbarco. Sulla nave ammiraglia il generale Schmidt riceveva messaggi disperati. Le munizioni iniziavano a mancare e la spiaggia era popolata da un grande scompiglio. Alle ore 14 il generale Schmidt decise lo sbarco dei due reggimenti tenuti di rinforzo, il 24° e il 26°. Il 25° era rimasto senza carri armati, senza cannoni e munizioni. Il 28° era il solo dei quattro reggimenti ad aver raggiunto il proprio obiettivo.
Il primo contrattacco dei Giapponesi mandò avanti 1200 armati contro il 27° reggimento del colonnello Wornham, in scontri anche all’arma bianca. Era necessario impossessarsi del monte Suribachi perché era il punto dal quale partivano i tiri diretti sulla spiaggia. In seguito al bombardamento effettuato dalla Marina americana, l’assalto fu fissato per le ore 8,30 contro Suribachi cosparso di 390 fortini, bunker, blockhaus, casematte e rifugi, collegati da reti di gallerie e sotterranei. Del 23° e del 27° reggimento rimasero distrutti 19 carri armati su 50. Enormi erano le perdite e le munizioni mancavano. Il 26° reggimento il 19 aveva subito il contrattacco più violento degli scontri di Iwo Jima. Il 28° reggimento aveva perso i tre quarti degli effettivi. Entro il 20 febbraio erano già morti 3.055 marines. La resistenza dei Giapponesi perdurava. 1200 Giapponesi si gettarono all’assalto degli schieramenti del colonnello Graham. Schmidt fece sbarcare il 21° reggimento Marines del colonnello Withers, 3a divisione.
Cinquanta Kamikaze colpirono la portaerei Saratoga uccidendo 318 marinai. Due colpi raggiunsero la portaerei Bismarck Sea facendola affondare, con il sacrificio di altri 318 marinai. Fu colpita anche la Lunga Point. Con la terza notte di guerra erano morti 5.372 marines.
Il 22 febbraio, dopo un violento bombardamento aeronavale, si scatenò l’assalto, ma i carri armati restavano impantanati sulla spiaggia. I reparti del colonnello Williams, superando una resistenza accanita, distrussero tutti i fortini che incontrarono, in scontri anche corpo a corpo. I reggimenti 21°, 26° e 27° resistevano, mentre il 28° avanzava sul Suribachi. Il 23 febbraio i marines si lanciarono in un ultimo assalto battendosi per 96 ore. Alle ore 11 una pattuglia del II battaglione raggiunse la cima del Suribachi, contemporaneamente a una pattuglia di 40 combattenti agli ordini del tenente Harold Schrier e del sergente Thomas. A conquistare il Suribachi era stato il 28° reggimento Marines. La battaglia infuriava e il II battaglione del 21° si trovò in difficoltà. Il 21° reggimento da solo rappresentava la 3a divisione. Il 23 febbraio le difficoltà non erano diminuite.
Schmidt preparò un’offensiva per il giorno successivo, in vista della conquista dell’altopiano dominante il secondo aeroporto, affidando l’incarico al 21° reggimento della 3a divisione. Il primo tenente Raoul Archambault sbaragliò i Giapponesi e raggiunse la cresta dove si sviluppò il contrattacco; riuscì a superare la prima linea difensiva giapponese, ma il 21° reggimento era ormai male ridotto. Schmidt fece allora sbarcare i reggimenti 3° e 9° in sostituzione, il 25 febbraio, del 21°. Il maggiore Evans, comandante il 9° reggimento, chiese il rinforzo di carri armati; ne arrivarono tre, ma furono a loro volta colpiti, come quelli di una successiva colonna inviata in aiuto. Verso sera del 25 febbraio il 9° reggimento raggiunse la pista dell’aeroporto. Anche i reggimenti 23° e 24° si gettarono all’assalto, con gravi perdite sotto il fuoco dei Giapponesi; erano bloccati, non potevano avanzare né indietreggiare, come successe anche al 25°. Soltanto il 26° e il 27° riuscirono ad avanzare dirigendosi verso nord.
Schmidt richiamò nella lotta i reggimenti 21°, 23° e 28°. Il 1° marzo, giorno dell’offensiva, erano pronti ad attaccare otto reggimenti. Il 23° e il 24° partirono alla conquista della collina 382 con due compagnie del 34° comandate dai capitani Ridlon e Mc Carthy. Le due compagnie rimasero isolate sulla cima, ma resistettero.
Il 4 marzo Kuribayashi disponeva solo più di 3 mila uomini sui 22 mila iniziali, privo di carri armati, di artiglieria e con l’ultima linea difensiva sfondata. Nei tre giorni successivi i primi caccia americani atterrarono all’aeroporto n° 1, mentre le truppe del 9° e del 21° avanzavano verso nord. I marines furono però presi alle spalle, con gravi sacrifici. Il 26 marzo 200 Giapponesi partirono alla carica, ma incontrarono quasi tutti la morte. Era stata l’ultima battaglia di Iwo Jima. Il 26 marzo si contarono 21.972 marines morti, 441 dispersi e 15.303 feriti, oltre a 270 carri armati americani distrutti, una portaerei affondata, 168 aerei abbattuti e 30 navi gravemente danneggiate. Dei 22 mila soldati giapponesi nessuno si salvò e il corpo del generale Kuribayashi non fu mai trovato.
Immagine di Copertina tratta da PennLive.com.