Estratto e tradotto da: “MATTHEW (MATTEO)”, Liturgical Press – Collegeville, Minnesota 1980
GESÙ IL RE. LA SPERANZA DEI GENTILI. – Matteo 2, 1-12
Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme.Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo.Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele».
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
Il capitolo 2 si dedica più alla questione del “dove”, il destino di Gesù: adorato dai gentili, ma perseguitato fino alla morte dal suo stesso popolo. Matteo indica questo triste “dove” usando motivi tratti da storie su Giacobbe (Israele) e Mosè. Alcuni hanno etichettato come “midrāsh haggadico” (Il termine midrāsh designa l’indagine esegetica dei testi sacri, quale venne praticata dai dottori ebrei dell’epoca talmudica – ultimi secoli a. C., e primi cinque secoli d. C. – e dai loro continuatori. Si distinguono il midrash haggādāh o midrāsh haggadico di contenuto non giuridico ed il midrāsh halakico di contenuto giuridico) la rielaborazione creativa di Matteo delle narrative dell’AT per illuminare la nascita di Cristo, paragonabile alla rivisitazione fantasiosa dell’AT nelle omelie ebraiche.
Con precisione, Matteo pone la nascita di Gesù a Betlemme di Giudea (al contrario di un’altra Betlemme in Galilea). Erode il Grande regnò su un regno ebraico grande quanto quello di Davide dal 37 al 4 a.C. Per tutta la sua durata il regno di Erode fu in continua lotta sanguinosa per mantenere il suo trono di fronte all’opposizione degli Asmonei (dinastia sacerdotale Giudaica) e ai movimenti messianici. Con il suo “ecco” frequentemente usato (che segnala un nuovo intervento divino), Matteo introduce i Magi, tradotti anche come “saggi”. I Magi erano originariamente membri della casta sacerdotale persiana, ma la parola significava qualsiasi possessore di conoscenza e potere soprannaturale, spesso con una sfumatura peggiorativa. Qui sono astrologi. Come altri gentili, essi parlano del Re dei Giudei; il titolo ricorre di nuovo solo nella narrazione della passione (in particolare 27,37). Era un motivo comune nell’antichità che una nuova stella segnasse la nascita di un sovrano. Matteo riprende il motivo della storia dell’AT di Balaam, un “mago” venuto dall’est, che dovrebbe maledire Israele, ma invece lo benedice: “Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro [o “uomo”, in greco] sorge da Israele “(Numeri 24,17). Non bisogna cercare nei fenomeni astrologici del tempo, ad esempio la congiunzione di Giove e Saturno nel 7 a.C., per dare una spiegazione a un motivo letterario e teologico. I Magi vengono ad adorare il re per prostrazione (proskyneō, un verbo preferito da Matteo, che indica un’attività correttamente resa solo a Dio o a Gesù). L’adorazione di Gesù sarà l’ultimo atto fisico dei discepoli (28,17). Dato che a questo punto la stella non si muove più davanti a loro, i Magi devono scoprire il luogo di nascita. Osservando il corso appropriato della storia della salvezza, i gentili vanno dagli ebrei per ricevere istruzioni sulla profezia messianica.
La domanda sul nuovo re dei giudei spaventa Erode, il re dei giudei e tutta Gerusalemme con lui. Matteo è intento a presentare un giudaismo ufficiale unito contro Gesù; in realtà, la maggior parte degli ebrei, compresi i sacerdoti, odiava Erode e lo avrebbero visto volentieri lasciare il regno. Erode chiama insieme la nobiltà sacerdotale e gli studiosi di professione (scribi); così, i futuri nemici di Gesù testimoniano ironicamente la verità sulla nascita di Gesù e sulla sua messianicità. Matteo adatta Michea 5,1-3 (inserendo “davvero”), si unisce a 2 Samuele 5,2 (“il mio popolo Israele”), e lo mette in bocca agli esperti, senza la solita introduzione di una “citazione di compimento”. Il buon pastore escatologico di Israele deve nascere nella città da dove è venuto il re-pastore Davide. Allora Erode si fa dire il tempo dell’apparizione della stella, in modo da poter valutare l’età del bambino. Così viene preparato il massacro del cap. 2,16-18. Matteo si scaglia spesso contro il peccato di ipocrisia in tutto il suo vangelo; qui lo incontriamo per la prima volta. Dopo che i Magi lasciano l’assassino e la città omicida (cfr. 23,37), la stella riappare e ora fa da guida, forse come la colonna di fuoco come appare in Esodo 13,21 e seguenti. Il segno astrologico porterà i Magi fuori dalla superstizione e adorazione pagana. La grande gioia escatologica dei Magi ricorda la narrativa dell’infanzia offerta da Luca, mentre Matteo nel complesso è più sobrio.
Il centro dell’attenzione diventa il bambino e sua madre (versi 11,13,14,20,21). Giuseppe non è neppure nominato in questa storia; appare solo quando necessario. Nel mondo antico non si visitava mai un dio o un re senza doni. I Magi offrono i tre doni: l’oro (Salmi 72,10-15), l’incenso (Isaia 60,6) e la mirra (un altro tipo di gomma aromatica, come il franchincenso. Conosciuta semplicemente come franchincenso o incenso, la resina di Boswellia è stata citata in numerosi testi antichi, tra cui l’AT per le sue capacità mistiche e continua a essere usata oggi in numerose pratiche negli ambiti più diversi). I tre doni successivamente hanno dato origine all’idea dei tre Magi, mentre Matteo dice alcuni, che in seguito sono diventati re con nomi specifici. Un sogno, l’ordinaria forma della rivelazione nella narrativa dell’infanzia, impedisce ai Magi di essere complici di Erode. Dio guida il corso della storia per salvare suo Figlio ed il suo popolo.
GESÙ IL FIGLIO DI DIO. RIFIUTATO DA ISRAELE. – Matteo 2, 13-18
Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».
Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto,dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Dall’Egitto ho chiamato mio figlio.
Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia:
Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.
Due antiche tradizioni contribuiscono a questa storia. In una leggenda riguardante Mosè, Giuseppe Flavio, lo storico giudeo, narra come gli astrologi avvertirono il faraone che un liberatore sarebbe nato per Israele. Spaventato, il faraone comandò l’omicidio di tutti i bambini Israeliti maschi; ma in un sogno il padre di Mosè viene avvertito. In un racconto della Pasqua ebraica (haggada), Giacobbe (= Israele) e la sua famiglia si dice che siano stati perseguitati da Labano e costretti a fuggire in Egitto. Matteo usa queste tradizioni per affermare che Gesù, il nuovo Mosè e il nuovo Israele, riassume in sé la storia del suo popolo.
Il contrasto è netto: il bambino divino, appena presentato con reali doni, deve fuggire per salvarsi la vita. L’apparizione dell’“angelo del Signore” (una frase dell’AT per indicare Dio in forma visibile) è descritta dalla stessa formula stereotipata in 1,20 e 2,13-19. In ogni caso viene dato un comando, e poi un motivo per il comando. Qui il comando è di fuggire in Egitto, il tradizionale luogo di rifugio dell’AT (1Re 11,40, Geremia 26,2l). Si noti che qui Dio non rivela il suo piano completo a Giuseppe, preferisce indicare solo il passo immediatamente necessario. La ragione della fuga ricorda Esodo 2,15: “Il faraone … fece cercare Mosé per metterlo a morte”. Matteo usa quindi il suo tipico schema di comando-esecuzione: l’ottemperanza obbediente è descritta con le stesse parole del comando. Il riferimento anticipatorio alla morte di Erode nel verso 15 si collega al verso 19, dopo la narrazione del massacro degli innocenti. La citazione di compimento nel verso 15, attaccata immediatamente alla narrativa, è tratta da Osea 11,1: “dall’Egitto ho chiamato mio figlio”. Questa citazione è il punto di vista teologico della narrativa dell’infanzia, perché qui Gesù riceve la sua più esaltante definizione. Mentre certamente figlio di Davide, figlio di Abramo, figlio di Maria, figlio di Giuseppe, Gesù, il vero Israele, è soprattutto dichiarato con l’appellativo “mio figlio”, cioè Figlio di Dio. Come Israele, Figlio di Dio, Gesù, il vero Figlio, subisce un esodo dall’Egitto, attraversa le acque del Giordano e viene tentato nel deserto (cfr. in particolare 4,1-11). Naturalmente, nell’adempiere a Osea 11,1 Gesù trascende il significato originale del testo. Il testo non parla più di una collettività con una filiazione adottiva, ma di un individuo unico con una vera figliolanza divina. Il compimento escatologico che Gesù porta va oltre la lettera dell’AT (cfr. 5,17-48).
Per il momento, bambini innocenti muoiono in modo che Gesù possa essere salvato, ma solo affinché l’innocente Gesù possa poi morire per salvare il suo popolo dai suoi peccati. Benché il massacro sia in armonia con il personaggio di Erode, non ne abbiamo alcuna testimonianza da parte di Giuseppe Flavio, che era ostile a Erode. La storia stessa potrebbe essere leggendaria. Erode non ha possibilità; i suoi ordini sono esatti quanto a numero (tutti i bambini, cfr. Esodo 1,22), zona ed età (con limiti molto ampi, così che, umanamente parlando, non c’è scampo). Matteo risparmia al lettore il resoconto reale del massacro terminando con una citazione di compimento di fronte agli eventi. In modo significativo egli non introduce la citazione del verso 17 con il solito “affinché…”. Egli racconta il fatto del compimento, ma si guarda bene dal dire che questa è l’esatta intenzione di Dio. Il peccato è voluto direttamente dall’uomo, sebbene la saggezza di Dio possa comprendere anche il peccato dell’uomo e inserirlo nel piano divino per la salvezza. Stranamente, Matteo evita la frase “affinché” in una sola altra citazione di compimento: il suicidio di Giuda (27,9). La citazione nel verso 18 è di Geremia 31,15, in cui Rachele, la moglie di Giacobbe-Israele, è immaginata mentre sta piangendo a Rama, cinque miglia a nord di Gerusalemme. Rama era sia il luogo della sua morte (Efrata, vicino a Rama. Cfr. Genesi 35,16), sia il luogo in cui, secoli dopo, gli Israeliti erano riuniti per la marcia nell’esilio babilonese (cfr. Geremia 40,1). La successiva tradizione tramandò la tomba di Rachele sulla strada per Betlemme (cfr. Genesi 35,19; 48,7), e questa tradizione potrebbe aver influenzato la scelta di Matteo di questo testo dell’AT. Quando Gesù, il nuovo Israele, va in esilio, Rachele invoca i suoi figli, trucidati in età avanzata.
GESÙ L’UMILE NAZARENO. IL SANTO DI DIO. – Matteo 2, 19-23
Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino».Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galileae andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».
Ora la narrativa dell’infanzia si ferma con una risposta finale al “da dove”: Nazaret. Così Matteo collega il suo particolare repertorio alla comune tradizione Sinottica, in cui Nazaret è l’unica casa di Gesù. Il versetto 19 richiama il verso 15, e in effetti i versi 19-21 hanno la stessa struttura dei versi 13-14. Giuseppe deve portare il bambino nella terra di Israele, e una frase dell’AT evoca uno stato di prigionia o esilio dalla terra promessa. La ragione del ritorno ricorda Esodo 4,19, dove Dio dice a Mosè di tornare in Egitto, “perché sono morti quanti insidiavano la tua vita!”. Come sempre Giuseppe obbedisce senza esitare. Matteo non può, tuttavia, terminare la sua storia qui. La sua tradizione presupponeva che Giuseppe e Maria provenissero da Betlemme; non c’era bisogno di spiegare come mai Gesù doveva nascere proprio lì (contrasto con il censimento di Luca). Ma tutti sapevano che Gesù crebbe a Nazaret e fu chiamato Nazareno. Perciò Matteo deve trovare una ragione per un cambiamento finale nella sacra geografia. Mentre la paura nei confronti di Archelao sarebbe una buona ragione per lasciare la Giudea, è strano che la sicurezza venisse cercata in Galilea, che era governata dall’altro figlio di Erode, Erode Antipa, che in seguito fece uccidere il Battista. Ma Matteo deve portare la famiglia a Nazaret, nella quale Giuseppe si stabilisce per la prima volta (confronta 2,23 e 4,13). Luca prende la decisione opposta nella sua storia dell’infanzia: Maria e Giuseppe provenivano da Nazaret, e una ragione speciale (il censimento, storicamente opinabile) deve essere trovata per la nascita di Gesù a Betlemme. Luca naturalmente non ha bisogno di alcun motivo per un ritorno a Nazaret. Ciò causa un’ulteriore differenza tra Matteo e Luca. Poiché Betlemme era la città natale di Gesù secondo Matteo, la Galilea è un luogo di esilio. È in esilio che Gesù eserciterà il suo ministero. Tornerà a casa in Giudea solo per morire.
Nazaret ha presentato a Matteo un altro, più teologico problema. Se diversi nomi e luoghi nella narrativa dell’infanzia erano stati profetizzati, allora certamente l’evento chiave di insediamento a Nazaret, la città che dà a Gesù il suo “secondo nome”, deve essere stato profetizzato. Eppure Nazaret non è mai menzionato nell’AT (né in Giuseppe Flavio o nei primi rabbini). Di conseguenza Matteo può parlare solo vagamente di “profeti” nel verso 23; egli sa che non esiste un singolo testo che menzioni Nazaret: questa è l’unica volta in cui il vago plurale “profeti” introduce una citazione di compimento. Quali testi Matteo potrebbe includere in questa rubrica generale? Il più probabile è un riferimento a Giudici 13,5-7, in cui viene annunciata la nascita di Sansone ed è designato come un Nazireo, cioè un asceta che viene messo a parte (“reso santo”) per condurre una vita consacrata e per salvare Israele. In alcuni testi greci l’ebraico nāzîr è tradotto come Naziraion, che per Matteo sarebbe abbastanza vicino a Nazōraios, Nazorean (non “Nazareno”, come la Bibbia CEI ha alla fine del verso 23). Con riferimento alle umili e spregevoli origini di Gesù, Matteo potrebbe anche pensare a Isaia 11,1, dove la prole davidica è chiamata un nēşer, un ramo o un germoglio dal ceppo di Iesse. Matteo potrebbe anche avere in mente i vari profeti che sta per citare durante il ministero pubblico, specialmente quelli che si riferiscono a Gesù come servo del Signore (8,17; 12,17-21).
Un’ultima parola sulla storicità. Dal momento che Matteo e Luca sembrano essere indipendenti l’uno dall’altro nelle loro narrazioni dell’infanzia, possiamo essere abbastanza sicuri che Gesù è nato a Betlemme verso la fine del regno di re Erode, che sua madre era Maria e il suo padre putativo Giuseppe, e che è stato allevato a Nazaret. Inoltre, la discendenza Davidica e la concezione verginale di Gesù sono due affermazioni teologiche che chiaramente esistevano prima di Matteo o Luca. Ma poiché i due evangelisti divergono nettamente su altre questioni, il resto della narrativa dell’infanzia di Matteo può provenire dall’uso scribale delle tradizioni dell’AT per chiarire il pieno significato della nascita di Cristo.
“Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta” (Luca 2,4). In questo brano Luca reintroduce la figura di Giuseppe, che era temporaneamente scomparsa dalla narrazione, ripetendo nuovamente il particolare della sua appartenenza al casato davidico, già sottolineato in precedenza in 1,27: (“… una vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria”).
Per la seconda volta, quindi, Luca insiste sulla discendenza davidica di Giuseppe. Perché? Probabilmente ciò avviene proprio per evidenziare non tanto che Giuseppe effettivamente discendesse dal re Davide, quanto piuttosto che anche Maria appartenesse a questa medesima discendenza, come afferma un autore: “Da quanto narra l’evangelista Luca, emerge tanto verosimile l’appartenenza di Maria alla progenie di Davide, da non lasciare dubbi”. Possiamo allora seguire il ragionamento di questo autore e vedere a quali risvolti concernenti la nostra riflessione esso possa condurre. Se, infatti, nel primo riferimento a Giuseppe (Luca 1,27), l’evangelista Luca lo inquadra come “un uomo della casa di Davide”, tali parole, secondo un’altra prospettiva, potrebbero essere riferibili a Maria, “anzi, quest’ultima interpretazione potrebbe essere più verosimile, perché Maria sta al centro dell’intera narrazione”. Inoltre, prosegue quest’autore, “questa argomentazione trova un forte appoggio nelle seguenti parole dello stesso Vangelo: ‘Non temere, Maria, perché tu hai trovato grazia presso Dio. Ecco, tu concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo. Il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre’. Anche qui Maria sta al centro delle parole dell’angelo, è l’unica di cui si parla: ‘Tu concepirai’, ‘lo chiamerai Gesù’. E le parole che seguono: ‘Il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre’, non consentono un’interpretazione diversa da quella che Maria, la Madre del Figlio di Davide, appartenesse alla famiglia di questo re, e ciò tanto più in quanto l’angelo dirà subito dopo che questo bambino viene al mondo senza il concorso di Giuseppe”. Si può allora pervenire alla risposta circa il perché Luca, in 2,4, ripeta nuovamente ciò che aveva già chiarito all’inizio, in 1,27, ossia il fatto che Giuseppe fosse un uomo della casa di Davide. Più che una ripetizione, la quale se fosse tale costituirebbe un limite letterario piuttosto che non un rinforzo concettuale, questa nuova citazione della stirpe davidica sembra in questa sua seconda versione riferibile a Maria. Inoltre, come sottolinea ancora lo stesso autore, “l’osservazione che Giuseppe si recò a Betlemme ‘per dare il nome assieme a Maria’ accenna ancora una volta al fatto che Maria appartenesse alla stessa stirpe. E già il particolare che Maria facesse il viaggio assieme a Giuseppe giustifica la deduzione che anche lei fosse in obbligo di trovarsi a Betlemme per il censimento. Tale obbligo sussisteva qualora appartenesse anch’ella alla casa di Davide, ed avesse ancora colà una proprietà fondiaria che, come si riscontra spesso in Oriente, si tramandasse da gran tempo indivisa tra famiglie di uno stesso ceppo”. Alla luce di quanto detto, dunque, nonostante dal punto di vista storico, secondo Giulio Africano, “Erode I° deve aver fatto dare alle fiamme gli elenchi della discendenza della stirpe di Davide custoditi negli archivi pubblici”, possiamo “trarre la deduzione certa che il padre di Maria appartenesse alla stirpe di Davide” e soprattutto che Luca, a motivo del senso storico presente nel proprio Vangelo, ne fosse perfettamente a conoscenza.