Estratto e tradotto da: “MATTHEW (MATTEO)”, Liturgical Press – Collegeville, Minnesota 1980
Parte I di 3
Esaurite le tre puntate concernenti le radici della fede cattolica mi pare opportuno riportare la versione dei fatti biblici così come è delineata da un dotto in materia, John P. Meier, nel volgersi di un’analisi approfondita e meticolosa, per meglio informare idee su argomenti assai difficili a interpretarsi, supportati dall’impostazione di confronti di sicura efficacia.
INTRODUZIONE
In un certo periodo intorno all’80-90 d.C. un dotto cristiano, forse un ebreo, forse un gentile semita, rifondò e riunì i due principali documenti liturgici e catechetici della sua chiesa: il vangelo di Marco ed una raccolta di detti di Gesù che gli studiosi chiamano “Q.” Questi due documenti erano già radicati nelle tradizioni orali della chiesa dell’autore, tradizioni che noi etichettiamo globalmente come “M.”. Combinando e modificando sapientemente queste tre fonti, l’autore ha creato il capolavoro teologico che chiamiamo il vangelo di Matteo. Nel commento che segue cercheremo di comprendere il pensiero dell’autore tracciando con attenzione il processo attraverso il quale egli ha riunito fonti disparate in un’unità originale e significativa. Confrontare ciò che l’autore dice con ciò che le sue fonti hanno detto; questo sarà il modo fondamentale con cui entreremo nella mente dell’autore.
Questa nuova sintesi di Marco, Q e M fu resa necessaria da una grave crisi nella chiesa dell’autore. Strettamente ebraica nelle origini, aveva sperimentato il trauma della separazione dalla sinagoga ed una grande affluenza di gentili nei suoi ranghi. Questo cambiamento nella sua esistenza cristiana richiese una nuova interpretazione delle antiche tradizioni, un nuovo modo di guardare a Cristo ed alla sua chiesa, all’Antico Testamento e alla storia della salvezza, al discepolato ed al sistema morale. Per raggiungere questa nuova sintesi l’autore ha suddiviso la storia della salvezza in tre periodi: “tutti i profeti e la Legge” fino al Battista (Matteo 1,1-13); il ministero pubblico di Gesù, limitato alla nazione ed al popolo di Israele (10,5-6; 15,24); e la missione per tutte le nazioni, una missione resa possibile dal grande punto di svolta, la resurrezione dalla morte di Gesù (27,51-54; 28,2-3; 28,16-20). Limitati ed esclusivistici resoconti ebraico-cristiani potrebbero quindi essere stati mantenuti riferendosi al periodo unico del “pubblico ministero” di Gesù, mentre l’evangelista potrebbe aver visto il proprio tempo come sotto il mandato finale universale di 28,16-20. Questo flusso della storia della salvezza mostra che la chiesa, non il giudaismo, è il vero popolo di Dio perché è il popolo formato dal Figlio di Dio, Gesù Cristo, l’adempimento della Legge e dei profeti. La soluzione dell’autore alla sua problematica teologica è un modello di discontinuità all’interno di un ampio quadro di continuità.
Chi fosse l’autore di questo vangelo non lo possiamo dire, anche se probabilmente non è l’apostolo Matteo. Scrivendo in un greco migliore di Marco e rivolgendosi a una grande chiesa urbana circa nell’anno 80-90 d.C., Matteo – come continueremo a chiamarlo – operò in Siria, probabilmente ad Antiochia. Così come Luca è un ritrattista verbale, Matteo è un architetto verbale. Il ministero pubblico è riunito in cinque libri, ogni libro composto da una prima parte narrativa e poi da un discorso. Cinque grandi discorsi, messi insieme da Matteo, formano i cinque pilastri del Vangelo: il sermone della montagna (cap. 5-7), il discorso missionario (cap. 10), le parabole (capitolo 13), il discorso sulla vita della chiesa (capitolo 18) ed il discorso finale (24-25). Il punto saliente giunge alla morte-risurrezione (capitoli 26-28), un culmine che è prefigurato dalla narrativa introduttiva dell’infanzia (cap. 1-2).
Poiché Matteo utilizza Marco come colonna portante della sua narrativa, rimando il lettore al volume “Marco” di questa serie per una considerazione dettagliata del materiale che si trova anche in Marco. Qui ci concentreremo sul nuovo messaggio che Matteo trasmette con il suo “rimodellamento” della buona notizia. Per gli argomenti a favore delle tesi sostenute in questo commento, rimando il lettore a due mie altre opere: Law and History in Matthew’s Gospel (Legge e storia nel Vangelo di Matteo) (Roma: Biblical Institute Press, 1976) e The Vision of Matthew: Christ, Church and Morality in the First Gospel (La visione d Matteo: Cristo, Chiesa e Moralità nel primo Vangelo (New York: Paulist Press. 1979).
IL PROLOGO – Matteo l-2
Il PROLOGO del vangelo di Matteo non deve essere liquidato come una raccolta di festose storie di Natale senza un messaggio teologico sostanziale, e quindi senza alcuna connessione essenziale con il corpo del Vangelo. Come il prologo del vangelo di Giovanni, Matteo 1-2 costituisce una “ouverture” all’intera opera, riunendo come in una miniatura una serie di temi significativi che verranno riprodotti in modo esteso nella progressione del Vangelo. Come il prologo di Gv, Matteo 1-2 cerca di definire il significato di Gesù applicandogli una serie di titoli; e definendo la sua origine e il suo fine, il suo “da dove” e il suo “dove”. Nel vangelo di Giovanni questi “da dove” e “dove” sono definiti in termini di preesistenza del Figlio con il Padre ed il suo ritorno al Padre tramite la sua esaltazione sulla croce. In Matteo il “da dove” è definito in termini di continuità con la storia della salvezza dell’Antico Testamento (la genealogia), discontinuità con quella storia quando irrompe l’ora finale (il miracolo escatologico della concezione verginale), e mediante l’adempimento della “geografia escatologica” tracciata per il Messia nell’AT (nascita nella città di Davide, Betlemme, pellegrinaggio dei gentili a Gerusalemme, fuga ed esodo dall’Egitto, residenza del “Nazireo” a Nazareth). Il “dove” consiste in allusioni riguardanti il destino ultimo di questo bambino: rifiuto da parte degli ebrei, accettazione da parte dei gentili, persecuzione fino alla morte, ripristino in vita tramite l’intervento del Padre a favore di suo Figlio. La narrativa della passione alla fine del vangelo si rispecchia in scala ridotta specialmente nel capitolo 2.
GENEALOGIA: GESÙ IL FIGLIO DI DAVIDE
IL FINE DELLA STORIA D’ISRAELE. – Matteo 1, 1-17
Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo.Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esrom, Esrom generò Aram, Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmon, Salmon generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide.
Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria, Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abia, Abia generò Asaf, Asaf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, Ozia generò Ioatàm, Ioatàm generò Acaz, Acaz generò Ezechia, Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia.
Dopo la deportazione in Babilonia Ieconia generò Salatièl, Salatièl generò Zorobabele, Zorobabele generò Abiùd, Abiùd generò Eliachìm, Eliachìm generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, Eliùd generò Eleazar, Eleazar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.
In tale modo tutte le generazioni da Abramo a Davide sono quattordici, da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici, dalla deportazione in Babilonia a Cristo quattordici.
L’affermazione di base della genealogia è duplice: le origini di Gesù si trovano nel vecchio popolo di Dio, Israele; e Gesù è il compimento della storia di Israele, una storia attentamente guidata da Dio verso il suo fine. Matteo enfatizza lo “status” di Gesù come Re messianico tracciando la sua linea attraverso Davide ed i re di Giuda. Al contrario, Luca traccia il lignaggio di Gesù all’indietro, attraverso i figli non regnanti di Davide, ad Adamo, il padre di tutta la razza umana, che era, in virtù della sua creazione diretta, un po’ come un “figlio di Dio”. Matteo potrebbe aver usato fonti ebraico-cristiane che a loro volta attingono a Ruth 4,18-22 e a 1 Corinzi, 1-3. La maggior parte dei nomi nella terza parte dell’elenco non hanno paralleli altrove nelle liste genealogiche della Bibbia e, quindi, l’accuratezza storica di questa parte della genealogia non può essere determinata. Dal momento che Matteo e Luca non sono d’accordo per la maggior parte del periodo dopo l’esilio, almeno uno di loro, e forse entrambi, non riportano la genealogia effettiva di Gesù. Le genealogie in Matteo e Luca devono essere intese come affermazioni teologiche e non relazioni biologiche.
Matteo sottolinea il fatto che la sua genealogia è accuratamente suddivisa in tre gruppi di quattordici generazioni. Perché Matteo ha disposto la storia di Israele in questa forma artificiale, fino al punto di tralasciare arbitrariamente i nomi dei re della Giudea? Nel periodo di Matteo il pensiero apocalittico ebraico era molto interessato nel suddividere la storia del mondo in periodi ordinati di sette, composta così da tante “settimane” di anni. Matteo riassume l’altalenante storia di Israele contando due “settimane” di generazioni (2 x 7 = 14 generazioni) dagli inizi di Israele ad Abramo fino al punto più alto nel Re Davide, altre due settimane dal suo culmine al suo punto più basso nel disastro dell’esilio babilonese e altre due settimane durante la sua ascesa verso la sua meta, Gesù il Messia. Gesù Cristo inizia così il settimo periodo, il periodo di perfezione e di realizzazione (cfr. Le settanta settimane di Daniele in Daniele 9). Quindi Matteo usa una convenzione apocalittica per proclamare che Dio ha segretamente ordinato l’economia della salvezza in modo che tutta la storia di Israele avanzi senza intoppi verso il Messia. Inoltre, Matteo potrebbe aver giocato con i valori numerici indicati dalle lettere ebraiche (una tecnica chiamata “gematria”. La “gematria” è una scienza dell’ebraismo con la quale si può associare un numero a ogni parola espressa con lettere dell’alfabeto ebraico. Questo numero è ottenuto sommando i valori numerici di ogni singola lettera. La gematria viene applicata per decrittare significati nascosti all’interno della Bibbia ebraica tramite il loro valore numerico). Le consonanti nel nome ebraico di Davide messe insieme assommano a quattordici (D + W + D) = 4 + 6 + 4). Quando si “mette insieme” il significato della storia di Israele, la linea di base è Gesù Cristo, il Figlio di Davide.
Il primo versetto di questa sezione funge da titolo, ma un titolo per cosa? La Bibbia CEI traduce geneseōs come genealogia, fornendo così un titolo per 1,2-17, o al massimo 1,2-25. È anche possibile, tuttavia, la traduzione “origine” o “nascita”; la parola introdurrebbe così l’intera narrativa dell’infanzia. Alcuni potrebbero persino tradurre geneseōs come “storia” o “cronologia”, che riassumerebbe tutto il vangelo; ma geneseōs non può avere un significato così ampio. Due titoli sono immediatamente aggiunti a Gesù Cristo nel verso l. Gesù è figlio di Davide, e quindi il re messianico promesso. Ma è anche figlio di Abramo, e quindi l’adempimento della promessa che nel seme di Abramo “tutte le nazioni” della terra sarebbero state benedette (cfr. Genesi 22, 18). Gesù adempie questa promessa alla fine del vangelo quando manda gli undici a fare i discepoli di “tutte le nazioni” (Matteo 28, 19). Questa benedizione universale è già prefigurata nei Magi del capitolo 2.
Una caratteristica sorprendente della genealogia di Matteo è che vengono citate quattro donne: Tamar, Rahab, Rut (o Ruth) e, indirettamente, Betsabea (“la moglie di Uria”). Invece di essere le grandi matriarche di Israele, queste donne formano una strana comunità di donne. Alcuni pensano che Matteo le abbia introdotte per sottolineare che la salvezza di Cristo è offerta anche ai peccatori e/o ai gentili. Ma la spiegazione più probabile è che esse rappresentino “sacre irregolarità” nel piano ordinato di Dio; esse rappresentano delle discontinuità all’interno della continuità della storia della salvezza. Dio scrive diritto con linee storte. Tutte e quattro le donne indicano la suprema santa irregolarità, la suprema discontinuità: la concezione verginale di Gesù da parte di Maria.
La genealogia ci mostra quindi l’approccio di base di Matteo per risolvere la relazione dell’Antico Testamento con Gesù. Da un lato, c’è una sottostante continuità. Infatti Matteo include persino il salmista Asaf ed il profeta Amos tra i re di Giuda per sottolineare che Gesù è il compimento di tutte le Scritture. Eppure, d’altra parte, c’è anche una rottura poiché l’era conclusiva irrompe nella storia di Israele. Questa è simboleggiata dalle quattro donne e dalla concezione verginale nel verso 16, dove il modello genealogico è spezzato ed il “di chi” si riferisce propriamente a Maria. Ci può anche essere un accenno di discontinuità dentro la continuità nel fatto che la terza parte della genealogia contiene solo tredici generazioni (cioè coppie di genitori e generati). Se non consentiamo un errore da parte di Matteo o di uno scriba successivo, potremmo avere qui un’indicazione che “Gesù” e “Cristo” devono essere contati separatamente. Gesù è nato dalla linea regale all’interno del flusso della storia, ma come Messia non solo conclude la vecchia legge, ma apre anche una nuova era (proprio come Davide conclude una parte della genealogia e ne inizia un’altra). In questo senso Matteo ha ragione nel sostenere che fino a “Cristo” (non “fino a Gesù”) ci sono quattordici generazioni (verso 17). Il Messia chiude il sesto e finale periodo del vecchio Israele e introduce il settimo periodo, il periodo di adempimento, il periodo del Messia.
GESÙ, CONCEPITO VERGINALMENTE – TUTTAVIA FIGLIO DI DAVIDE. – Matteo 1, 18-25
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi.Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa;senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù.
Il tema della discontinuità all’interno della continuità procede da come Gesù è definito, sia dalla sua concezione verginale (discontinuità), che dalla paternità legale di Giuseppe (continuità). Il Messia davidico (continuità) è più di un semplice Messia; lui è Dio con noi (discontinuità). I versetti 18-25 agiscono come una estesa nota a piè di pagina al verso 16, che ha già accennato a una concezione verginale. Questa concezione non è intesa in termini di qualche dio promiscuo della mitologia greca. Lo “Spirito Santo” (femminile in ebraico, neutro in greco) non indica unione sessuale ma il potere vivificante di Dio. Nei circoli apocalittici, un nuovo slancio di attività dello Spirito Santo era atteso come segno degli ultimi giorni. La concezione verginale non è, quindi, solo un altro miracolo, ma un evento escatologico. Gli eventi escatologici, tuttavia, di solito disturbano le cose. Sicuramente disturbarono Giuseppe. Giuseppe era già fidanzato con Maria; di conseguenza, anche prima di portarla a casa sua per regolari rapporti sessuali, contava come suo “marito” e aveva diritti legali su di lei. Se trovata incinta da un altro uomo, Maria avrebbe potuto, secondo la lettera severa della Legge, essere messa a morte. Giuseppe è in un dilemma. Egli è “giusto” in un doppio senso: desidera mostrare lealtà e gentilezza a Maria, tuttavia deve soddisfare il requisito della Legge di non tollerare l’adulterio. Cerca di soddisfare entrambi i desideri dando privatamente a Maria il documento di divorzio prescritto. (Poiché Matteo si adegua alla tradizione che ha ricevuto, apparentemente non si chiede come questo atto possa proteggere Maria dalla vergogna pubblica nel momento in cui dovrà presto mettere al mondo un figlio senza il contributo del marito. In realtà, l’unico modo con cui Giuseppe potrebbe salvare Maria dalla disgrazia sarebbe quello di sposarla. Tutto questo ci ricorda che Matteo sta scrivendo teologia, non sta dando un rapporto di testimoni oculari).
I calcoli umani di Giuseppe sono interrotti da un improvviso intervento divino. Un angelo appare in un sogno e fa conoscere il misterioso piano di Dio al suo eletto. Sebbene qui ci sia una certa atmosfera apocalittica, il tema del sogno ricorda più i sogni concessi ai patriarchi nella Genesi. Ricordiamo in particolare che il patriarca Giuseppe era un sognatore, oltre che un uomo compassionevole e giusto. Le parole dell’“angelo del Signore” (nell’Antico Testamento il Signore stesso in forma visibile) ricadono in un preciso schema di comando e spiegazione. Giuseppe, “il figlio di Davide”, deve portare Maria nella sua casa, non tanto per proteggerla quanto per conferire la paternità Davidica a suo figlio e così inserire il suo bambino nel suo giusto posto nella storia della salvezza: Giuseppe non deve avere scrupoli, poiché le vere origini del bambino non risiedono nella linea davidica o umana, ma nel potere creativo dello Spirito di Dio. Questa nascita escatologica supera di gran lunga le nascite miracolose nell’Antico Testamento. Il ruolo chiave di Giuseppe è quindi quello di agire come padre del bambino dandogli il nome che Dio ha già scelto, un nome non menzionato nella genealogia di Giuseppe. Dio sceglie il nome comune ma significativo Gesù, una forma successiva del Giosuè biblico. Originariamente significava “Yahvé aiuta”, ma dal primo secolo d.C. la spiegazione popolare del nome fu “Yahvé salva”. L’angelo, in vero stile Genesi, fa un gioco di parole sul significato popolare dichiarando che Gesù salverà il suo popolo dai suoi peccati (cfr. Salomone 130,8). Gli Ebrei stavano infatti aspettando un liberatore nazionale come Davide, ma Gesù, il liberatore davidico, concederà al suo popolo una liberazione spirituale in modo quasi sacerdotale. La liberazione offerta da Gesù non sarà gradita alla maggior parte del popolo di Israele. Le persone che accettano effettivamente l’atto salvifico di Gesù, il suo popolo, saranno il gruppo che Gesù chiama “mia Chiesa” (Matteo 16,18). Queste persone formano l’“altro popolo” (21,43), inclusi i gentili, che accettano la morte donatrice di vita di Gesù (27,51-54), una morte che Gesù dichiara nell’Ultima Cena essere “per la remissione dei peccati” (26,28), una morte il cui potere salvifico è sempre disponibile per “il suo popolo” nella celebrazione ecclesiale dell’eucaristia. La Chiesa è il popolo che Gesù, il Messia, crea perdonando i peccati attraverso la sua morte.
Come è sua abitudine, Matteo si ferma per un momento, fa un passo indietro, guarda l’evento che sta narrando e riflette su quanto perfettamente questo episodio della vita di Gesù compia la profezia dell’AT. Al verso 22 egli introduce la prima di circa dodici “citazioni di riflessione” o “citazioni di compimento” (con il termine di “citazioni di riflessione” o “citazioni di compimento” si indicano le citazioni delle Scritture che Matteo utilizza sia per far “riflettere” sulla vita di Gesù tramite le Scritture, sia per indicare che in Gesù c’è il “compimento” di ciò che le Scritture hanno detto. Le citazioni iniziano sempre con una specie di ritornello: “perché si compisse la Scrittura”, “perché si compisse ciò che fu detto dai profeti”) che commentano la sua “vita” di Gesù. Ogni citazione mostra che, nella vita di Gesù, Dio sta ordinando attentamente la storia verso l’adempimento della sua parola profetica. In questa citazione di Isaia 7,14, Matteo rielabora il testo originale per sottolineare l’adempimento escatologico in Cristo. Isaia parlava di una giovane donna che avrebbe concepito; Matteo adotta la traduzione greca standard, “la vergine concepirà”. Ma Matteo è più interessato al nome che Gesù porta e al fatto che Giuseppe e Maria glielo conferiscono. (Il testo di Matteo 1,23 recita letteralmente: “gli daranno il nome… “, sebbene il testo ebraico standard menzioni solo la donna).
All’inizio sembra strano che una storia sul nome di Gesù debba avere come suo fondamento nei profeti un versetto che parla di “Emmanuele” piuttosto che di “Giosuè”. Matteo che legame vede tra il nome personale Gesù ed il “nome dinastico” Emmanuele? In Gesù troviamo adempiuta la grande promessa di Dio ai patriarchi e ai profeti: “Io sarò con te”. È Gesù, “Dio-con-noi” in persona, che conclude il vangelo di Matteo promettendo alla sua Chiesa: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Ma cosa ha impedito questa presenza salvifica fino ad ora? La grande divisione che ha separato Dio dall’uomo è il peccato. È proprio rimuovendo il peccato dal suo popolo che Gesù (“Egli salverà dal peccato”) rimuove la maledetta distanza e rende Dio presente tra la sua gente. Così mantiene la promessa del suo “nome dinastico”, Emmanuele.
Nel verso 24 Matteo ritorna alla sua narrazione: Giuseppe, essendo giusto, obbedisce immediatamente al comando di Dio, come fa anche nel capitolo 2. Matteo usa qui il modello di comando-ed-esecuzione-del-comando (“egli fece come gli aveva ordinato” – seguito dall’azione comandata). Questo modello appare numerose volte nel Vangelo per sottolineare che un vero discepolo obbedisce immediatamente e perfettamente. Fa parte di questa obbedienza, nel caso di Giuseppe, la rinuncia al rapporto coniugale (“non la conobbe”) “finché” non generò il bambino miracoloso (Meier utilizza qui il testo letterale greco che dice: ”Giuseppe… non la conobbe finché ella generò un figlio ed egli lo chiamò Gesù”: “καì [e] ούκ [non] έγίνωσκεν [ebbe rapporti coniugali] αύτήν [con lei] έως [finché] οΰ [non] έτεκεν [ella ebbe partorito] υίόν [un figlio]”. Nella Bibbia CEI, Matteo 1,25: “Giuseppe… senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù”). In ebraico ed in greco, “finché” non significa dire che ci sia stato un cambiamento nella situazione dopo la nascita di Gesù. D’altra parte, l’autore che ha scritto Matteo 1,25 ha anche scritto in 13,55 che la madre di Gesù è Maria ed i suoi fratelli (non “cugini”) sono Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda. Storicamente, questi versetti hanno creato difficoltà per la tradizione successiva della chiesa sulla verginità perpetua di Maria, una dottrina che diventa comune nel quarto secolo d.C. Tuttavia, la preoccupazione principale per Matteo alla fine di questa storia non è la verginità di Maria, ma la funzione di Giuseppe, che colloca Gesù nella linea Davidica per adozione.