
Con questa rimembranza mi voglio concedere il lusso di un pizzico di autoriferimento, per il piacere di ricalcare i sentieri della mia infanzia e della mia giovinezza.
Venni alla luce (o la luce venne a me) nella città di Cuneo il 15 settembre 1938 e fui battezzato con rito cattolico nella Chiesa parrocchiale di Santa Maria. Un paio di anni fa, quasi tre, scattai una fotografia del frontale all’entrata nel tempio. Ora ho provato il desiderio di capire che cosa fosse stato scritto sulla facciata, non mi ci ero ancora mai cimentato a tanto. Vi era stata usata la lingua latina ecclesiale, alquanto difficile a interpretarsi, ma ci provai a ricavarne una traduzione soddisfacente (se la mia conoscenza scolastica del Latino non mi tradisce più di tanto) sia della parte relativa al tempio sia delle parole riportate sulle due fasce intersecantisi alla base della parte generale.
Ecco il testo dall’originale Latino all’Italiano:
Testo originale | Traduzione libera |
D. O. M. | A Dio Onnipotente e Massimo |
Aedem. AB. Inchoato. Extructam | Tempio inizialmente edificato |
In Honorem. SS. Nominis. Jesu an. MDCLVIII | In onore del SS. Nome di Gesù nell’anno 1658 |
Titulo. et. Jure. Curiae. Donatam | Assegnata per titolo e per diritto alla Curia |
Nominique Mariae Augustae. Dicatam. An. MDCCLXXV | E dedicata al Nome di Maria Divina nell’anno 1775 |
Quum. Vetus. Templum. Sanctae. Mariae. Plebis | Dopo che il Vecchio Tempio di Santa Maria del Volgo |
Muniendae. Urbis. Causa est. Dirutum. | Fu abbattuto a causa del procedere alla Fortificazione della Città |
Curialium. Pietas. Pictura. Decoravit. An MDCCCXXXVIII | La Devozione dei Curiali l’abbellì con Dipinti nell’anno 1838 |
Et Tertio ab Aedis Extructione Saeculo | E nel Terzo Secolo dalla costruzione del Tempio |
Frontem. Novo Cultu Reficiendam ineunte Curavit | Si prese cura del frontale da restaurare all’inizio della Nuova Edificazione |
Anno A Reparata Salute MCMLVII | Restaurata nell’aspetto fiorente nell’anno 1957 |
Ed ecco le parole inscritte nelle due fasce sottostanti:
Et vocavit nomen eius Jesum | Lo Chiamò con il Nome di Gesù |
Et nomen Virginis Maria | E Maria con il Nome di Vergine |
Ma guarda, proprio di Cuneo?

Accennando alla mia città natale, conosciuta largamente anche per le buffe dicerie che si tenevano in tempi passati sul suo conto, mi viene naturale scavare nella mia memoria di bambino e ragazzo testimone di episodi originalissimi che prendevano vita lungo le contrade della così detta Cuneo Vecchia negli anni del secondo Conflitto mondiale o giù di lì.
L’idea mi viene dalla lettura di una pubblicazione che riporto come introduzione alle mie personali osservazioni. Scorrendo le pagine di un lavoro di ricerca al titolo Porte. Storia, leggende e vita vissuta (a cura del Comune di Porte-TO, Alzani Editore, Pinerolo-TO, marzo 2011) provo a indugiare nella lettura di un fatto storico che interessa me personalmente, in quanto originario della città di Cuneo.
Si parla nel libro – capitolo VI, Se non son matti, non li vogliamo! – dei prodromi delle istituzioni manicomiali in Piemonte. Si trattava di una prescrizione dettata da Vittorio Amedeo II, nel 1717, per creare una struttura volta a terapizzare le cosiddette malattie mentali, quanto avvenne a Torino dove, giunti al 1727, le cose si mossero nella direzione della prescrizione regale. Da qui sorsero un ospedale per “Mentecatti” e il primo ospizio per “Pazzerelli” in quella che oggi va sotto il nome di Via Piave. Ma poi mi sorprende la notizia di un primato attribuito alla mia città natale: il primo mentecatto che venne ricoverato nell’ospedale dei “Pazzerelli”, corrente l’anno 1741, era di Cuneo. Ma guarda, proprio di Cuneo. La notizia un po’ mi rattrista, né più di tanto mi sorprende, per il fatto che, a quei tempi, era d’uso fare una panacea di tutte le espressioni comportamentali non conformi ai canoni morali riconosciuti generalmente alla base della cultura popolare. Le analisi eziopatogenetiche riferite ai disturbi psichici dovevano ancora vedere la luce e, di conseguenza, anche i percorsi terapeutici costituivano un insieme di chimere o di tentativi fuorvianti e più spesso dannosi. Con lo sviluppo degli studi su casi specifici, delle osservazioni e delle sperimentazioni si pervenne infine a porre le dovute distinzioni: quelli che sembravano segnali di pazzia dovevano in molti casi finire con il dimostrare di essere frutto di atteggiamenti nulla più che semplicemente stravaganti. In genere rientravano in questa categoria individui alquanto eccentrici, schivi della fedeltà assoluta alle convenzioni sociali, dotati persino e non di rado di non comuni talenti creativi, per lo più di carattere tetragono e gioviale nello stesso tempo, liberi di pensiero e un po’ bizzarri nel loro modo di esprimersi, senza “peli sulla lingua”. Quel loro essere così strani, imprevedibili e spregiudicati poteva apparire a qualcuno come una minaccia, come una sfida, un affronto e dunque un pericolo per la stessa stabilità sociale. Ed ecco, allora, che c’era subito chi decideva di eliminarli, di farli sparire dalla scena, e il modo più lecito e meno scandaloso era quello di farli passare per matti; visto che s’erano aperti ospedali adatti a rinchiudere queste persone scomode, lì furono relegati e di lì, come in una reclusione a vita, non ne uscivano più se non in posizione allungata dentro una bara.

Io voglio credere che quel personaggio di Cuneo fosse uno di quegli individui la cui mente era quanto mai vivace e florida, tradito purtroppo da un fare bizzarro un po’ fuori misura e non convenzionale nella logica del proprio contesto comunitario.
Se torno ai ricordi della mia infanzia nei quartieri della “Cuneo Vecchia” mi si ripresentano le fisionomie di alcune persone eccentriche solitamente passanti per gli stretti vicoli e le contrade della Cuneo “anni ‘40”. Noi bambini eravamo attratti da quelle figure eccezionali, certo esibivano capacità e portamento “fuori norma”, non comuni al resto della popolazione. Le sistemavamo tutte con un termine, “Le macie d’Coni” ossia le macchiette o figure buffe di Cuneo. Le loro bizzarrie ci divertivano un mondo e non credo neppure fossero tutti matti. Male non ne facevano, forse con il loro modo un po’ strano di essere e di comportarsi attiravano l’attenzione anche di qualche adulto che li soccorreva con due o tre monete, tanto per dar loro modo di acquistare qualche po’ di generi alimentari a superamento della giornata.
Oggi ancora mi torna in mente “Giovanin d’le midaje” (Giovanni delle medaglie): passava di via in via vestito di una pesante giacca che gli penzolava sin quasi alle ginocchia; quando s’imbatteva in un crocchio di persone si fermava e, guardando dritto negli occhi gli astanti e proferendo qualche frase gentile, spalancava i lati della giacca e metteva in mostra una copiosa serie di medaglie, per lo più votive, infilzate sul lato interno della stessa. Un’altra persona veramente curiosa era “Cola d’le pignate” (quella delle pentole): passava con calma solenne trainandosi al seguito una carretta zeppa di pentolame di tutte le stazze e di tutte le forme. Poi c’era, per la meraviglia di noi bambini, il commerciante in pelli di coniglio. Da noi era d’uso, sulle lunghe balconate dei condomini di Cuneo Vecchia, allevare conigli in gabbia. Dopo averli sacrificati e ben conditi sulla fiamma li si preparava per un pranzo di lusso. E nulla si buttava via, neppure l’apparentemente inutile pelliccia della povera vittima.

Ecco allora che passava di lì l’ambulante con la sua cantilena ripetuta a gran voce: “Pel d’cunì… Pel d’cunì!” (Pelli di coniglio!) adocchiando se scorgeva sui balconi qualche pelliccia appesa ad essiccare. Ancora, era per noi motivo di delizia e di sorpresa quando, senza preavviso, sbucava dall’angolo di un vicolo il “Violinista pazzo”: così era da noi stato denominato perché faceva stridere le corde del suo strumento un po’ maldestramente facendone uscire stringhe di note dal timbro raccapricciante, quasi l’ululato di una sirena, e con quel motivo infernale, appena scorgeva alcune ragazze sulla strada, le rincorreva suscitando in quelle un panico tale da spingerle a darsela a gambe levate. Infine non posso tralasciare Amedeo. Era uno strillone e tutte le mattine, transitando lungo la via che portava all’ingresso della mia abitazione, si fermava di proposito sotto una finestra del primo piano dove, con la famiglia, risiedeva una bella ragazza dalle lunghe trecce, Rosalba. Amedeo, con un fare tra il furtivo e il malizioso e gli occhi rivolti all’insù, sempre con il fascio di quotidiani e periodici sottobraccio, allora si dava a gridare: “La Stampa… l’Unità… Gazzetta del popolo… Rosalba!”.

E, dando voce a quest’ultimo termine, ne ricavava un timbro acuto e più sonoro a tutto fiato. “Rosalba” era anche il titolo di un periodico che Amedeo portava con sé per la vendita da mano a mano. E accadeva, quand’era fortunato, che Rosalba dalle lunghe trecce, udito il richiamo assai sonoro, accorresse al davanzale affacciandosi per vedere in strada, con il seguito di un enorme sorriso e di un gesto di compiacenza rivoltole da Amedeo. Questo succedeva perché le abitudini nei confronti delle comunicazioni verbali e dei rapporti sociali erano ben diverse da quelle di oggi. Noi ora siamo tenuti a telefonare in anticipo se desideriamo fare visita ad amici. Allora si andava a casa loro senza preavviso. Ricordo che mia madre aveva quasi tutti i giorni un’amica, una o l’altra, che veniva a trovarla. Addirittura non chiudevamo neppure a chiave l’uscio d’ingresso, non esistevano minacce, non c’erano timori. E noi ragazzi, per invitarci l’un l’altro a scendere in cortile o in strada a giocare, ci dirigevamo richiami vocali o fischiettavamo forte un breve motivo di tre note, così, dal piano della strada o del cortile; non c’era bisogno di tanti convenevoli.
Poco a monte del portone testé citato, all’angolo fra via Amedeo Rossi e via Dronero appariva il frontale di una chiesa, sempre chiusa, attrezzata con una breve scalinata di accesso. Su quei gradini, rammento, nelle sere calde d’estate si ponevano a sedere i vicini, scesi dai loro appartamenti per scambiare quattro chiacchiere e infilare nell’arco qualche pettegolezzo. Quello era il cantòn ossia l’angolo fra le due vie nominate, ed era il perno per i nostri giochi a rincorrerci di bambini di quegli anni.
Erano proprio bei tempi, quelli, e li rivedo come un paradiso perduto della mia infanzia. Che dire, è proprio vero: Se non son matti, non li vogliamo!