In questa breve rassegna percorrerò soltanto in parte la serie di avvenimenti che interessarono, dal 1915 al 1918, il mese di giugno di ogni anno.
1915.
L’ambiente è l’Alta Carnia, allo scoppio del conflitto. Tra il 5 e il 9 giugno 1915 si ebbero scambi di colpi di artiglieria da entrambe le parti. Una nostra batteria someggiata da 70A tirava su reparti di fanteria austriaca, in direzione della mulattiera Rudniker Stl. Rattendorfer (Sella Val Dolce) e su un plotone austriaco intento a lavorare in rafforzamento delle posizioni di Zotagkopf. I nostri avvertivano la risposta avversaria proveniente da quota 1857. Avvenne pure che un reparto della 21a compagnia si avvedesse di un manipolo formato da una cinquantina di Austriaci scesi dal passo Meledis lungo il corso del rio Malinfier: lo attaccò dalla propria posizione di casera Meledis bassa, lo inseguì e lo respinse oltre confine arrecandogli gravi perdite. In seguito a questo fatto la 21a si recava a occupare la posizione di casera Meledis alta e un suo plotone si spinse oltre confine riuscendo ad appiccare il fuoco alla casera Pittstall e, per l’occasione, a catturare dieci nemici. Ancora sul canale solcato dal rio Malinfier la 21a respingeva un reparto austriaco che già aveva raggiunto il rio Sglirs, quando venne fatta segno a tiri di artiglieria austriaca dalla regione di Straniger Alpe (Zotagkopf). La nostra artiglieria non tacque, ma diresse efficaci tiri con i pezzi da 149G appostati nella frazione Misincinis di Paularo, con l’appoggio della batteria someggiata del battaglione Saluzzo attiva a quota 1778. In una di queste azioni capitò al sottotenente Martino Besozzi della 23a compagnia di rinvenire un paio di proiettili austriaci a effetto esplodente. Si trattava di proiettili di fucile, a bassa penetrazione ma di notevole potenza lacerante, capaci di produrre fori di tre centimetri e di irradiare all’intorno frammenti a cono sino a un raggio di dieci o dodici centimetri.
Il 9 giugno 1915 perveniva finalmente l’ordine di porre fine al periodo di attesa e di produrre azioni dimostrative, in risposta alle insistenti iniziative e infiltrazioni austriache in territorio italiano. Nella stessa giornata il cap. Pasquali fu costretto a lasciare il comando della 21a compagnia, perché colpito da improvvisi e intensi dolori, sostituito immediatamente dal cap. Mario Musso di Saluzzo.

La strategia prevista per la zona doveva impegnare le forze austriache sulla linea indicata a monte di Paularo per distogliere l’avversario dal portare aiuto nelle operazioni che si stavano svolgendo sul Freikofel contro il battaglione Tolmezzo e i supporti del battaglione Val Varaita. Questo accadeva il 10 giugno, mentre gli Austriaci lanciavano dalle alture proietti a shrapnel sugli Alpini sistemati nei pressi di Forca Pizzul e il tenente col. Cattalochino contrattaccava, da Paularo, con tiri di artiglieria per neutralizzare l’offensiva austriaca. (da Mario Bruno, Il Battaglione Saluzzo, 2013)
Dove il magg. Giovanni Macchi cadde il 14 giugno 1915, sul Pal Piccolo, fu successivamente eretto un monumento affiancato da un proietto d’artiglieria cal. 210. Il magg. Macchi sarà insignito di Medaglia d’Argento al Valor Militare nel mese di ottobre dello stesso 1915. Tre mesi esatti dovevano trascorrere da quell’infausto 14 giugno perché si avverasse un altro tragico evento poco più a est del Pal Piccolo: il sacrificio di un altro eroe, il cap. Mario Musso. (da Mario Bruno, La Grande Guerra. Zona Carnia – Cukla Rombon – Monte Nero, IBN Editore, Roma 2015)

Sempre in Alta Carnia. Il 26 giugno 1915 venne eseguito il cambio di comando per il battaglione Saluzzo. Mentre la 21a compagnia si spostava nei pressi di casera Zermula, con compiti di rincalzo alla 5a del 3° Fanteria giunta in loco per sostituirla, il tenente col. Cattalochino veniva chiamato ad assumere il comando del 149° Fanteria e cedeva pertanto il comando del battaglione Saluzzo al magg. Luigi Piglione.

La giornata del 30 giugno doveva assistere ad alcune variazioni di posizione sul fronte, quando la sezione delle batterie da 149G, postata in zona Varleit, sparava con l’obiettivo di colpire la batteria austriaca del Trogkofel. Ecco allora la 21a compagnia tornare a prendere posizione sulla linea Val di Puartis-Zermula; la 100a si recava a sostituire la 23a sul fronte Lanza-Pizzul a motivo del trasferimento della 23a a Paularo dove essa avrebbe trascorso tre giorni di riposo. Dopo quattro giorni toccò alla 23a restituire il favore, consentendo così alla 100a di fruire di altrettanti giorni di riposo nella frazione Misincinis di Paularo. In altra situazione capitò a una pattuglia della 21a di sorprendere due Austriaci armati: i nostri Alpini non esitarono a fare fuoco; uno ne uccisero sul posto, mentre l’altro si arrese dichiarandosi disertore dal 43° Fanteria. (da Mario Bruno, Il Battaglione Saluzzo, 2013)
L’Isonzo fu uno dei giganti della Grande Guerra, famelico di vittime, vorace di decine e decine di migliaia di giovani vite. Qui, al contrario di quanto era stato possibile sulle montagne con la messa in atto di tentativi di manovra e di aggiramento, la lotta fu sostenuta secondo le direttive emanate dal generale Cadorna, attacco frontale e irruzione violenta delle fanterie. Va da sé che quella tattica, obsoleta e assurda, non fu altro che un esporre, incosciente e delittuoso, facili bersagli umani alle raffiche delle mitragliatrici ben riposte sul terreno e occultate a dovere. Furono undici (quattro nel 1915, cinque nel 1916, due nel 1918) le “spallate”, come vennero chiamate, realizzate per sfondare lo schieramento nemico, e la dodicesima si risolse in una disfatta dai contorni assai funesti.

La prima Battaglia (dal 23 giugno al 7 luglio 1915), iniziata con le più rosee previsioni, si concluse con un disastro, a dispetto della superiorità numerica in uomini e artiglierie vantata dagli Italiani. Subito 13.500 vittime, ben altro che “una passeggiata a Vienna” come ottimisticamente si era divulgato fra i civili e i militari. (da Mario Bruno, La Grande Guerra. Accadde 100 anni fa, IBN Editore, Roma 2019)
1916.
Siamo in Conca di Plezzo. Il 3 giugno 1916 il battaglione Saluzzo si trasferì a Planina Goricica e il giorno seguente, come riferisce il Diario storico militare, salì al Cukla dove sostituì il battaglione Sette Comuni con la 21a compagnia e il battaglione Bassano con la 22a e la 23a, ma appena per la durata di un giorno poiché le due compagnie del Saluzzo furono quasi subito rimpiazzate dal battaglione Valcamonica e poterono così riunirsi alla 21a. Si riapriva intanto la triste rassegna dei sacrifici umani alle pendici del terribile Monte Rombon. (da Mario Bruno, Il Battaglione Saluzzo, 2013)

Già nel febbraio del 1915 Vincenzo Arbarello si trovava al comando dell’84a compagnia del batt. Exilles. Il reparto rientrava nei ranghi della brigata Modena in seno all’8a divisione Fanteria a presidio del Monte Kozliak, in compresenza del battaglione Alpini Susa. La difesa di quel monte, il 5 giugno dello stesso anno, gli valse il conferimento della Medaglia d’Argento.
Gli fu quindi assegnata l’ardua impresa per la conquista della vetta del Monte Nero. Appena un mese prima dei fatti che sto raccontando, il gen. Boroevic, con la 5a Armata austriaca, si era fatto premura di disporre le proprie truppe sulla linea strategica che comprendeva la cima del Monte Nero. Il capitano Arbarello, la notte fra il 15 e il 16 giugno 1915, alla testa di centotrenta Alpini puntò in alto lungo le impervie pareti e mosse l’attacco. (da Mario Bruno, La Grande Guerra. Zona Carnia – Cukla Rombon – Monte Nero, IBN Editore, Roma 2015)
Il Monte Nero (m 2.244) si erge poco a est di Caporetto. Come esordisce il canto alpino “Era l’alba del sedici giugno…” fu proprio nella notte fra il 15 e il 16 giugno del 1915 che il battaglione Exilles mandò in avanguardia l’84a compagnia agli ordini del capitano Vincenzo Arbarello, la 31a del capitano Rosso e la 35a del Susa comandata dal capitano Vittorio Varese, con la consegna di conquistare la vetta del Monte Nero. La pattuglia di punta, sotto la direzione del sottotenente Picco, si lanciò all’assalto affrontando il fuoco austriaco. Le nostre forze riuscirono ad avere la meglio e s’impadronirono della vetta poco prima delle ore 5 di quel 16 giugno. La conquista del Monte Nero fu molto probabilmente la prima dimostrazione di un cambiamento di tattica, avverso alle “spallate” frontali concepite da Cadorna. Ne descrive efficacemente lo svolgimento Gastone Breccia nel narrare le gesta dei battaglioni Exilles e Susa: “…era la strada giusta – non gettare il peso della massa contro i reticolati e le mitragliatrici, ma «agire per sorpresa», avanzando «a piccoli nuclei, a grandi intervalli, rincalzati successivamente da altri e preceduti da piccoli gruppi di due o tre uomini scelti fra i più animosi e risoluti». Sfruttando il buio e le difficoltà del terreno per arrivare a ridosso del nemico; utilizzare il tempo a proprio vantaggio e diradare la forza nello spazio, trasformando l’improbabilità di successo in un’occasione di vittoria”.
Il Monte San Michele, appena 274 metri di altitudine, è situato a sudovest di Gorizia, nei pressi di San Martino del Carso. Il San Michele resterà sempre nella memoria di chi conobbe e conosce gli orrori della guerra per la strage compiuta il 28 giugno 1916 dagli Austriaci nell’attacco con i gas asfissianti che causarono, in particolare fra le nostre brigate Pisa, Brescia, Ferrara e Regina, 182 perdite fra gli ufficiali e ben 6.250 fra i militari di truppa, di cui 1.370 morti.
Poco prima del Passo di Monte Croce Carnico svettano le due cime del Monte Cellon, contese con caparbietà fra Italiani e Austriaci. Questi ultimi occupavano la punta orientale, prossima al Passo; i nostri Alpini stavano su quella occidentale. Questa era la situazione che si presentava fin verso la fine di giugno del 1916. Avvenne, in quel frangente, che gli Austriaci stessero occupandosi del cambio di guarnigione. Sulla cima orientale del Cellon cadevano granate sparate dall’artiglieria italiana, così devastanti da costringere gli avversari a trovare riparo in caverna.
Verso mezzogiorno del 29 giugno 1916 gli Alpini, con la complicità di una fitta nebbia che avvolgeva i versanti del monte, sferrarono un deciso attacco prendendo di sorpresa il presidio austriaco, impossessandosi quindi della cima orientale e facendo 156 prigionieri, ivi compresi cinque ufficiali. La fortuna assistette due dei malcapitati che, avventuratisi guardinghi fra gli anfratti rocciosi, riuscirono a sfuggire alla cattura. Ma le alterne vicende che muovevano le sorti dei contendenti in quelle circostanze di estrema precarietà dovevano decretare un ritorno degli imperiali nelle ore del pomeriggio sulla cima da poco persa. Non solo, ma i nostri avversari si diedero parecchio da fare per prendersi anche la punta occidentale, sennonché dovettero amaramente vedersela con una grandine di bombe a mano che respinse ogni loro velleitario tentativo di irruzione. (da Mario Bruno, La Grande Guerra. Accadde 100 anni fa, IBN Editore, Roma 2019)
1917.
Il 10 giugno 1917, giorno presago di nuove sventure, che si riproporrà per la nostra entrata in guerra nel secondo conflitto mondiale, si dava inizio alle operazioni che denunciavano, da subito, un grave difetto di organizzazione all’interno dei Comandi italiani. La controffensiva austriaca andava intanto scatenando una pioggia di granate micidiali con i suoi obici Skoda da 305 mm ben occultati e mieteva vittime fra gli Alpini dei battaglioni Cuneo, Val Stura e Bicocca, trasformando la cima dell’Ortigara in un inferno di fumo e fuoco. Quel terribile 10 giugno lasciò sul teatro di morte dell’Ortigara ben 6.752 caduti fra i nostri combattenti.

Gli ordini erano sempre della stessa fatta, ed erano quelli di resistere a ogni costo, e poi attaccare, attaccare, attaccare, un po’ come mandare la gente allo sbaraglio e farne facile bersaglio alle armi piazzate sul fronte opposto. Fu così che, dopo aver resistito a un bombardamento di artiglieria, della consistenza di quasi duecento tonnellate di proietti, gli Alpini furono nuovamente lanciati contro le postazioni avversarie dell’Ortigara, superando con indomito coraggio i reticolati per poi farsi massacrare dalle raffiche ravvicinate delle mitragliatrici: altri 1.444 caduti fra le rocce devastate di quelle rupi di sventura.
Nonostante gli immani sacrifici, il 19 giugno 1917 i nostri combattenti trovavano ancora il vigore per gettarsi all’attacco e per conquistare finalmente l’Ortigara facendo anche un buon numero di prigionieri. Ancora, a quale prezzo di vite umane? Nel solo giorno d’inferno di quel 19 giugno, 1.584 caduti della 13a divisione, 1.460 della 29a, 3.677 della 52a. (da Mario Bruno, Il Battaglione Saluzzo, 2013)
La prima fase della battaglia dell’Ortigara aveva avuto luogo fra l’8 e il 10 giugno 1917, con la partecipazione di 26 battaglioni alpini (più di 20.000 uomini).
La seconda fase, perdurata dal 19 al 20 giugno 1917, fu preceduta da un bombardamento di preparazione sferrato dall’artiglieria italiana con il lancio di oltre 60.000 proietti da cannone di ogni calibro e da bombarde, ma con esiti scoraggianti.
Sull’Ortigara, dal 10 al 29 giugno 1917, tra l’infuriare di aspri combattimenti la vetta passò più volte dalle mani dei nostri a quelle austriache e viceversa. Gli scontri furono durissimi, tra rupi scoscese e passi infidi, con gli Austriaci che vollero contrattaccare nelle prime ore del 23 giugno. Fu un vero massacro. I battaglioni alpini che presero parte all’azione di maggiore evidenza lamentarono perdite gravissime: 461 Ufficiali, fra i quali 17 erano comandanti di battaglione, oltre a 12.698 Alpini. Furono i giorni 24 e 25 giugno a decretare la perdita del monte, da quel momento chiamato anche “Calvario degli Alpini”. Il battaglione Alpini Sette Comuni in un solo giorno di aspra lotta perse quasi tutti gli Ufficiali e il settanta per cento degli Alpini, dopodiché fu richiamato in posizioni più arretrate.
Sulle erte tribolate dell’Ortigara rimasero a presidio i battaglioni Cuneo e Marmolada, sino all’ultimo poderoso attacco austriaco del 29 giugno.
Fu una battaglia che, per la crudeltà degli scontri e per la strage di uomini, fu definita come la più sanguinosa e insieme la più inutile fra tutte le battaglie divampate durante la Grande Guerra.
(da Mario Bruno, La Grande Guerra. Accadde 100 anni fa, IBN Editore, Roma 2019)

La Campagna di Macedonia. La brigata Sicilia, forte di 158 ufficiali e 6.354 uomini di truppa,era comandata dal brigadiere generale Gennaro Venezia a far data dal 23 giugno 1917 sino al 1° settembre 1918. Ebbe nel corso di tutta la Campagna le seguenti perdite: 44 ufficiali caduti, 88 feriti, 15 dispersi; 547 militari di truppa caduti, 2.345 feriti, 639 dispersi. (da Mario Bruno, La Grande Guerra. Dai Balcani a Vittorio Veneto, IBN Editore, Roma 2014)
1918.
L’offensiva austro ungarica, così detta Battaglia del Solstizio (è la Battaglia del Piave, sostenuta dal 15 al 23 giugno 1918, conclusasi con la ritirata delle forze austro ungariche in seguito all’eroica resistenza e alla successiva impetuosa controffensiva delle nostre truppe), causò perdite enormi: 86.000 uomini nelle linee italiane e 118.000 in quelle avversarie. Furono questi i momenti terribili che videro i nostri combattenti pervasi da un nuovo spirito battagliero. Era cambiato completamente il senso che aveva inizialmente pervaso il teatro di battaglia, quasi un capovolgimento dei vettori evolutivi sui quali la direzione del conflitto si era fino allora sviluppata. Se, prima, durante la ritirata al Piave, si retrocedeva per motivi tattici e strategici, e prima ancora, all’inizio del Conflitto, per la maggior parte dei combattenti l’avanzata poteva aver assunto le sembianze di un assurdo o di una fatalità insondabile, ora le mutate condizioni costringevano a vedere in faccia uno straniero invasore che stava calpestando il patrio suolo, che minacciava sempre più da vicino le famiglie, gli affetti più cari, il patrimonio di storia, di civiltà, e tutto questo si poneva a un punto assolutamente sopraelevato nei confronti delle semplici preoccupazioni, sulla scala dei valori, per la pura salvezza personale. Il timore di cadere in battaglia si trasformò in rabbia cocente, e la rabbia diventò impeto furioso che spinse i nostri a sfondare un fronte già temibile per la sua solidità. Fu questa la molla della riscossa, fu questa la forza dell’ergersi ancora in piedi con rinnovato coraggio, fu questa la carta vincente delle ultime fasi della tragedia. (da Mario Bruno, Il Battaglione Saluzzo, 2013)
Il primo di giugno si udivano botta e risposta di bocche da fuoco tra il Garda e l’Adige, lungo il corso del Brenta e sull’Altopiano di Asiago. Si notò un vasto incendio divampare dai depositi allestiti dagli Austriaci, a Mezzaselva e Rotzo sull’Altopiano, dovuto ai tiri delle batterie britanniche. Imperversavano in alto combattimenti aerei che decretarono l’abbattimento di quattro velivoli austriaci.
6 Giugno 1918. Quotidianamente si portavano avanti attività di pattuglia e si sparavano tiri di molestia di scarsa portata. L’attività dell’artiglieria era più potente a cavallo del Brenta e su qualche tratto del fronte del Piave.

7 Giugno 1918. Incursioni di un nostro reparto d’assalto sull’Altopiano di Asiago, con la cattura di cinquanta prigionieri, sei mitragliatrici e abbondante materiale bellico. Un colpo di mano portato a termine da un distaccamento francese consentì di catturare ventun prigionieri. Intanto in località Tonale alcune nostre pattuglie avanzarono e si avvicinarono a un ben fornito deposito nemico di munizioni che distrussero facendolo brillare. Nell’aria erano in azione cinque aerei e dirigibili nostri che, con cinque tonnellate di bombe, scelsero a bersaglio i campi di aviazione allestiti dagli avversari nella pianura veneta. Furono colpite anche colonne di militari in marcia sulla strada in direzione di Feltre.
Il 10 giugno le artiglierie fecero udire la loro voce su ampio tratto dal Tonale al Brenta al Piave e tentativi di intrusione si verificarono in Val Lagarina, Vallarsa e Conca Laghi. Pattuglie nostre e britanniche si imbatterono in gruppi nemici in esplorazione sulla dorsale montana e li misero in fuga. Proseguivano le operazioni delle nostre squadriglie che scaricavano quattro tonnellate di bombe su depositi e nodi di comunicazione avversari. Venivano abbattuti altri cinque aerei della forza aerea opposta.

Il giorno appresso, colpi d’artiglieria austriaca raggiunsero la linea che si prolunga tra la Vallarsa, la Val d’Astico e il basso Piave, richiamando la pronta reazione delle nostre bocche da fuoco. A est di Caposile (sud di San Donà) una rapida avanzata di nostre pattuglie mise in fuga il presidio delle prime linee avversarie e guadagnò il bottino di una mitragliatrice, due bombarde, altre armi e materiale bellico. Abbattuti ancora cinque aerei nemici. Scivolava via, intanto, un altro giorno. Sotto sporadici tiri di molestia provenienti dalle linee avanzate avversarie, le nostre pattuglie si spingevano in avanti infliggendo perdite a posti di esploranti nemici a sud dello Stelvio, nei pressi della Presanella e sul M. Asolone, facendo bottino di armi e materiale. Nello stesso giorno venivano respinti reparti avversari in avanzamento sulla Val Lagarina.
12-13 Giugno 1918. Le artiglierie tuonavano a intervalli in zona Tonale, da Pòsina alla Val d’Astico e nei territori compresi fra il Brenta e il Piave. Alle prime luci dell’alba l’artiglieria austriaca già stava scatenando un bombardamento furioso. La 1a e la 22a divisione Schützen sarebbero dovute irrompere per il Tonale. Era una giornata segnata da avverse condizioni meteorologiche che costrinsero l’aviazione all’inattività. Nelle prime ore del giorno 13 l’artiglieria nemica scatenò un intenso fuoco di preparazione sul Passo del Tonale, quindi si lanciarono le fanterie con lo scopo di forzare le nostre difese disposte a Cima Cadi, nord di Edolo e nei dintorni del Tonale. La tenace resistenza delle nostre truppe riuscì ad avere ragione dell’impeto d’assalto subìto e fu repentinamente seguita da contrattacchi delle nostre fanterie e da micidiali concentramenti dei tiri d’artiglieria. La provocazione era stata diretta fra le ventuno e le ventitré del giorno 14 giugno e si era conclusa con ingenti perdite a danno degli avversari, in particolare sui suoi rincalzi arretrati: costò centotrenta prigionieri e un buon numero di mitragliatrici lasciati in nostre mani. Ancora condizioni proibitive del tempo, ma ciò nonostante gli aerei si alzarono in volo e duellarono in scontri che ebbero come esito l’abbattimento di un velivolo nemico, mentre un nostro dirigibile sganciava ordigni su obiettivi remunerativi. Due forti attacchi da parte austriaca, nella notte sul tredici e nel pomeriggio seguente, tentati dalla 1a divisione Schützen, vennero arrestati dalle nostre truppe e destinati al fallimento.
Si stava entrando in quella fase critica della guerra caratterizzata dalla determinazione assunta dai Comandi austriaci verso un definitivo colpo alla resistenza delle forze italiane per un’invasione a vasto raggio di tutto il territorio. Sarebbe stata una manovra talmente fulminea e travolgente da essere paragonata all’effetto di una valanga, tant’è che gli Austriaci la battezzarono con la denominazione “Operazione Lawine” che ha, appunto, il significato di “valanga”. Era il tempo in cui si stava preparando la grande offensiva austriaca che avrebbe dovuto riscattare il fallimento della “spedizione punitiva” scatenata contro il braccio forte dell’Esercito Italiano nella primavera di due anni addietro. Nel mese di giugno 1918 l’Esercito austro-ungarico aveva schierato 37 divisioni di soldati dallo Stelvio a Fener (sulla grande ansa del Piave, a ovest, contrapposto a Valdobbiadene) al comando del generale Conrad von Hötzendorf e altre 23 divisioni da Fener al mare, sotto il comando del generale Boroevic von Bojna, sostenute da un’artiglieria che dislocava circa 5.000 cannoni dall’Astico (occidente di Asiago) al mare.
Noi schieravamo dal Col d’Echele a Canal del Brenta il XX Corpo del gen. Ferrari, con in prima linea il 2° regg. Bersaglieri della 10a divisione e la brigata Livorno (33° e 34° Fanteria) della 2a divisione; in riserva la brigata Toscana (77° e 78° Fanteria) della 10a divisione e la brigata Regina (9° e 10° Fanteria) della 2a divisione; inoltre la 52a divisione in Riserva d’Armata. Nelle prime ore del 12 giugno 1918 gli Austriaci concentrarono un violentissimo fuoco d’artiglieria dallo Stelvio all’Adamello. Le operazioni principali dell’attacco austriaco erano state fissate per il 15 giugno (Operazione Radetzky), giornata in cui, alle 3 della notte, gli Austriaci scatenarono un bombardamento di inaudita violenza, della durata di quattro ore, su tutto il fronte dall’Astico al mare.
Era iniziata la possente offensiva austriaca andata poi sotto il nome di “Battaglia del Solstizio” o “Battaglia del Piave”, che costituì il culmine dell’eroismo e della volontà di riscossa dei soldati italiani, tra i quali le giovani leve dei “Ragazzi del ’99”, nello sforzo finale di ricacciare l’invasore al di là del Piave e dei confini d’Italia, ma che costò anche a noi Italiani perdite risalenti alle tristi cifre di 5.800 morti e 26.000 feriti.
Al bombardamento seguì l’attacco delle fanterie che si mossero attorno alle sette-otto del mattino. Per noi era mutato completamente il modo di concepire le azioni di guerra: si misero in atto strategie vincenti che affidavano a piccoli reparti (plotoni, squadre, drappelli) e ai loro comandanti il compito di valutare rapidamente la situazione in sviluppo e di assumere tempestive iniziative per resistere e muovere al contrattacco. Non era più la guerra di posizione con lunghe soste in trincea e attacchi frontali a ondate successive, ma una guerra di movimento dove più valevano la decisionalità e la sorpresa dell’attacco.

La massa avanzante degli austro-ungarici riuscì inizialmente a penetrare nel territorio presidiato dai nostri difensori. Il nemico poté così farsi vedere nei pressi di Col del Rosso e di Col d’Echele, sforzandosi di impadronirsi della zona di Pizzo Razea, ma qui i nostri avversari si scontrarono con un fronte impenetrabile e furono contenuti, come anche in altri punti dell’Altopiano di Asiago. Gli Austriaci, che dal 22 giugno avevano insistito con poderosa pressione offensiva, inutilmente estesa su tutta la fronte di battaglia, già dalla sera del 20 giugno avevano dato segni di parziale rinuncia. In zona Zenson di Piave, nordovest di Fossalta, si lanciarono in un forte attacco locale, ma furono sanguinosamente respinti dai nostri Fanti. Il fuoco delle armi divampava violento sul Montello e a nordovest del Grappa, senza che il nemico potesse avvantaggiarsi. In località così detta Cava Zuccherina (Anche Cavazuccherina: era il nome, fino al 1930, dell’attuale Jesolo, alla foce del Piave, teatro di sanguinosi combattimenti dal novembre 1917 all’ottobre 1918) fecero insormontabile barriera le batterie della Marina, mentre Marinai e Bersaglieri penetrarono negli avamposti nemici catturando centonovanta fra gli uomini di presidio e impadronendosi di armi e materiale bellico. Sull’Altopiano di Asiago un nostro reparto fece irruzione, in pieno giorno, nel bel mezzo di un posto avanzato nemico; unendo la sorpresa all’ardimento ingaggiò con gli armati che lo presidiavano una lotta vivace che si concluse con la cattura dell’intero nucleo. Nel corso di combattimenti aerei furono abbattuti dieci velivoli nemici e tre palloni frenati. (da Mario Bruno, La Grande Guerra. Dai Balcani a Vittorio Veneto, IBN Editore, Roma 2014)
Immagide di copertina tratta da Atlante Grande Guerra.