Un uomo sulle vette – Parte 1 di 3

Il 21 maggio nasceva a Cuneo un promesso illustre conoscitore delle montagne che si protendono a guisa di corona su vallate simili a un ventaglio e solcate da fiumi e torrenti scroscianti da tremila metri di quota e oltre, in corsa verso il ‘padre’ Po.

Michelangelo Bruno trascorse la propria esistenza nella contemplazione e nello studio di queste “sue” montagne che amò con purezza di cuore e con entusiasmo mai scalfito da timori. Le sue montagne, che egli abbracciò e della cui pace si nutrì nel profondo anelito a conoscere e a scoprire, con la passione che soltanto un innamorato dallo spirito ardente sa e può esprimere.

Michelangelo Bruno è stato autore di una copiosa serie di libri che riportano le sembianze dei valichi, delle cime, dei nomi di luogo, delle caratteristiche meno note e più avvincenti dei suoi monti. Tutte pubblicazioni di enorme interesse sia alpinistico sia paesaggistico, corroborate da un fondo culturale di notevole spessore innovativo. Mi piace citare almeno una delle sue opere, la vorrei considerare nel suo aspetto di capolavoro per la meticolosità e precisione, per il rigore di ricerca che vi traspare e che ne ha accompagnato la stesura, per la sua insuperabile funzione di guida alla conoscenza e alla effettuazione di percorsi sulla catena alpina occidentale. La copertina ne riporta il titolo: Monte Viso, Alpi Cozie Meridionali, della collana “Guida dei Monti d’Italia”, a cura del Club Alpino Italiano e del Touring Club Italiano, anno 1987, dal Colle della Maddalena al Colle delle Traversette.

Nella valutazione di esperti del settore.

Nella presentazione al volume Guida dei Nomi di Luogo delle Alpi Cozie Meridionali, 1991, a cura di Matteo Campia (C.A.A.I. – Gruppo Occidentale) e di Elio Allario (Presidente C.A.I. – Cuneo) si trovano le seguenti espressioni: “Tutte queste opere testimoniano la bravura dell’autore per le chiare notizie che ogni alpinista o amante della montagna può attingere e, soprattutto, per la precisione di ognuna di esse. Queste numerose opere di Michelangelo Bruno sono state portate a termine con caparbietà, serietà, professionalità che si riscontrano molto raramente in altre opere analoghe, con grande sacrificio personale, con una meticolosità e, diciamolo pure, con una pignoleria che fa onore all’Autore stesso”.

“Per quanto ci compete, come Sezione di Cuneo del C.A.I. – aggiunge Elio Allario – abbiamo la fortuna di avere un collaboratore serio ed instancabile come Michelangelo Bruno, autore di guide alpinistiche, cartografo e studioso per l’appunto anche di toponomastica alpina”.

In copertina del libro Guida dei Nomi di Luogo delle Alpi Marittime, 1992, il Presidente della Provincia di Cuneo, Giovanni Quaglia, così si esprime: “Bruno apre il nostro sguardo su un mondo che ci è familiare per le sue straordinarie bellezze naturali, svelandocene un lato originale e curioso: il legame fra una civiltà, di cui siamo eredi, e questi luoghi; un rapporto che passa attraverso l’assegnazione di nomi, nomi che diventano concetti, modo e stili di vita che rinviano al nostro più lontano passato. Michelangelo Bruno ha in realtà compiuto un viaggio nella cultura, nella storia, nella memoria di un popolo, per farci comprendere come alle “nostre” montagne non ci leghi solo l’occasionale escursione di un giorno ma il filo non reciso di millenarie esperienze”.

Dalla prefazione di Sergio Arneodo (Coumboscuro) al testo alpi sud-occidentali tra piemonte e provenza, i nomi di luogo, etimologia e storia, dizionario toponomastico, 1996: “Sì, di Bruno conoscevamo già le sue due ‘Guide’: ai nomi delle Alpi Cozie ed ai nomi delle Marittime: due volumi densi di toponimi, una concatenazione di richiami e di rimandi, una cascata di citazioni, di valutazioni, di tesi e di controtesi, un gioco lucido e appassionante, condotto su un terreno delicato, controverso e ingannevole. Punte, valli, pendii, colli, rupi paesi, borgate, pianori, dossi, creste, torrenti, conche, casolari, insediamenti vari… Con tutte le loro varianti e parentele e composizioni e ricomposizioni. Ma qui, appunto, entra in gioco Michelangelo Bruno ed il suo invidiabile mestiere di ricercatore, di camminatore, di osservatore, di lettore, di compulsatore dei dati raccolti. Discorrendo con lui, ho l’impressione che egli abbia letto tutto il leggibile in materia di toponomastica dell’arco alpino sud-occidentale ed oltre: indagatori, specialisti, saggisti, raccoglitori, interpreti, linguisti d’area neolatina e germanica per lui non sono un segreto. Più volte m’è successo di capitargli in casa e di trovarlo chino su volumi e carte e documenti e annotazioni, da perderci intelletto e pazienza. E lui a dirmi: «Ho camminato tanto, sono stato dappertutto, su per le valli, ho chiesto, ho osservato i posti, ho interrogato. La natura sì, ti aiuta, montagne e valli e creste e rupi e casolari a loro modo ti rispondono, ma la gente ormai è all’oscuro: i nomi della sua terra non li sa più, guai se non ci metti il pelo del tuo fiuto critico. E tanto meno sa collegare i nomi a etimologie e significati originari. Ho sentito le spiegazioni più incredibili e più bislacche».

Proprio qui, tuttavia, emerge il profilo del lavoro di Bruno, l’ispida fatica che egli ha affrontato, il suo rimboccarsi le maniche di fronte ad ogni toponimo, in un vero e proprio derby non di un giorno, ma di lunghi anni, per scavarci dentro, sezionare, confrontarsi con geologia, paesaggio, collocazione, storia locale e costume locale (là, dove ancora possibile): in un gioco teso, sottile, incerto, spesso inappagante, ma sempre appassionante. Appunto nell’intento di rimontare quelle indicazioni, che le fonti vive non sono più in grado di fornire. Forse questa fatica toponomastica di Bruno è come l’inutile rincorrere l’inafferrabile sarvàn (simile a folletto) dei boschi, o è realismo di ricercatore e di pensatore serio, innamorato della sua materia ed armato per scrutarne i segreti fino in fondo? Va detto francamente che dei tre strati storico-linguistici di evoluzione dei toponimi – Prelatino, Latino, Romanzo – all’autore appare importante soprattutto il terzo, quello romanzo. Che in area neolatina-mediterranea vuol poi dire ‘provenzale’ e dintorni, dal momento che la lingua provenzale è stata il trait d’union tra latino e neolatino. Di Michelangelo Bruno, oltre al corredo di preparazione, conosciamo la tenuta di carattere. Da tempo egli collabora a Coumboscuro”.

Una splendida opera di Michelangelo Bruno, Valichi di Provenza, 2001, in versione italiana e francese, si apre con una presentazione di Sergio Arneodo, dalla quale traspaiono, parlando dell’autore, le seguenti considerazioni: “L’idea lo conquistò via via, gli appassionò mente e cuore. Bruno non è certamente l’uomo delle improvvisazioni, non gioca a divagare sul piacevole formato cartolina. No! Sulle Alpi del Cuneese (e non solo su quelle) egli possiede un’esperienza antica e vissuta. Una valle, una cresta, un colle sono cose che lui ha visto, toccato, contemplato. Le ha considerate ed intimamente godute col tempo buono; le ha magari sfidate col tempo contrario, piovoso, nevoso. I suoi colli, le sue creste e vette e dossi e valli e paesi, sono per lui terra e pietre e forme percorse, calpestate, disegnate nell’anima a furia di sudore e di pensiero. Frutto d’una vita in cui la montagna, con le sue varianti anatomiche e plastiche, diventa cultura. E non è certamente casuale che a casa sua Bruno disponga d’una fornitissima biblioteca di studi e ricerche consacrati alle Alpi ed alle loro vicende nei secoli.

Vi figurano autori – noti o meno noti – che dai primissimi approcci storici dei tempi lontani fino ad oggi hanno lasciato decisive testimonianze sulla montagna alpina: da Esiodo ad Erodoto a Polibio e Plinio giù, giù, fino agli storici dell’Otto-novecento e ai contemporanei. Al di là di tali ragguagli, ne viene richiamata con lucida chiarezza la storia, dai primordi leggendari alle età classiche, medioevale, moderna e contemporanea. Sì, un’ottica sempre nuova, quella individuata da Michelangelo Bruno. Qui gioca la sua esperienza diretta del territorio. Ma vi gioca non meno la sua consuetudine di studio e di lettura. Ne fa prova il ricco corredo bibliografico, che egli richiama via via in corso di scrittura e che elenca a chiusura di ogni capitolo. Né meno eloquente ed utile l’elenco dotato degli avvenimenti e dei nomi reperibili in fondo al volume”.

Nel 91° della nascita di Michelangelo Bruno mi pregio di ricordarlo, onorarlo e ringraziarlo per il generoso e prezioso contributo con il quale ha voluto diffondere l’amore per la montagna, e lo voglio fare riportando tre dei suoi articoli che trovo sulla rivista culturale Coumboscuro. Ricordo Michelangelo con profondo affetto fraterno, mentre mi soffermo con una certa emozione sulla sua figura di persona schiva, semplice, profondo amante della cultura locale e della montagna, senza aneliti di gloria, la mente illuminata da un senso perenne di chiarezza e di rigore scientifico nel produrre ricerche accurate, nell’avanzare ipotesi anche ardite, nell’immergere le proprie scoperte in un bagno di genuina passione. La sua personalità, non di grido, non ha fatto breccia nel volgo, forse proprio per la ritrosia di Michelangelo il cui lavoro si svolgeva in un silenzio quasi religioso, ammirato, lungi dal voler emergere sulla scena e dal voler far colpo sui lettori. Chi conosce l’animo umano in genere, e quello di Michelangelo in particolare, ne può leggere il carattere di fondo nella sua intima schiettezza. Si scopre l’indole artistica di Michelangelo e la si assapora nello sfogliare le pagine dei suoi prodotti bibliografici dalle quali emerge il non comune talento di ricerca, di indagine, di catalogazione dei dati e di capacità descrittiva sulla scia di una mirabile precisione e fedeltà nel porre in risalto le idee maturate. Riporto fedelmente quanto apparve sulla rivista Coumboscuro con gli interventi di Michelangelo Bruno, quale corollario alla pubblicazione dei suoi dotti volumi di toponomastica alpina, tutti lavori che richiedono “intuito e passione sempre rinnovati”, qualità, queste, che l’autore Michelangelo Bruno “possiede in misura eminente”.

Il suo primo contributo toponomastico su Coumboscuro riguarda Blins in Val Varacho (Bellino in Valle Varaita). Michelangelo Bruno esordisce con una introduzione assai appropriata, tratta dalle parole di Giovanni Paolo II: “Le montagne suscitano nel cuore il senso dell’infinito, con il desiderio di sollevare la mente verso ciò che è sublime”.

Ed ecco il contenuto, in versione originale.

“Quando lo sguardo si tuffa dall’alto in una valle verdeggiante dove il sole e l’ombra ne evidenziano le sinuose ondulazioni macchiate qua e là da gruppi di casolari protetti dalle “lauses” (squadrate lastre di pietra), scende nell’animo un sentimento infinitamente bello di serenità e di pace. L’ambiente stesso, nella sua eterna immobilità ingannevole, richiama l’impellente desiderio di localizzare con un ‘nome’ l’interesse della nostra osservazione: qui la Val di Blins (la Valle Varaita di Bellino). Questo Comune copre una superficie di 6219 ettari, che si sviluppa su di un piano altitudinale variante tra i 1400 metri, del suo limite inferiore, ed i 3340 metri, corrispondenti alla montagna culminante, il Mongioia, che chiude la testata settentrionale dell’alta valle. Il territorio comunale è diviso in due rioni o parrocchie: il “Cartier n’aval”, corrispondente al Quartiere inferiore o di San Giacomo, con centro nella frazione Chiesa (Ruà la Guieiso) ed il “Cartier n’aut”, Quartiere superiore o di Santo Spirito, con centro a Celle (Celles).

“Storicamente Blins (Bellino) costituì dal X secolo fino all’anno 1713 (Trattato di Utrecht), la più meridionale delle comunità che componevano la Repubblica di Briançon o federazione del Gran Escartoun, “La Castellata”. Bellino, nome di valle, è culla del Comune amministrativo omonimo che conta nove ordinate borgate distribuite lungo il suo talweg [secondo il diritto internazionale, un talweg è il mezzo del canale navigabile principale di un corso d’acqua che definisce la linea di confine tra gli stati]: Ribiera (La Rubiero), Mas Bernard (Mai de Barna) , Chiesa (Rouha la Gueieiso), Fontanile (Lou Fountanil), Bals (Lou Bals), Pleyne (Lou Pleiné), Celle-Prafauchier (Celles), Chiazale (Lou Chasal) e Sant’Anna (Sant’Ano). L’insieme delle borgate spicca per l’uniformità e l’ordine architettonico delle sue costruzioni in pietra, con le ampie coperture di ardesie (le lauses), molto ben conservate e, non di rado, ornate da colonne, affreschi, meridiane, portali e blocchi megalitici, unitamente alle famose quanto enigmatiche têtes coupées, teste o volti di pietra dall’impressionante e sbarrata fissità visiva, sculture di misteriosa origine, che parrebbero ricordare, secondo alcuni storici, barbare consuetudini di antichissime tribù celto-liguri. Strabone stesso descrive l’usanza dei Celti della Gallia Cisalpina, che si vorrebbe collegare ai volti di Pietra: “… i Celti presentano una certa crudeltà barbara, che si riscontra in particolar modo nei popoli del nord, in quanto, al momento di lasciare il campo di battaglia, essi legano al collo dei cavalli le teste dei nemici e, tornati a casa, inchiodano questi trofei all’ingresso delle proprie dimore”.

“I nomi di luogo sono la più tangibile testimonianza di una lunga presenza umana che, nei millenni, dai primi insediamenti stabili di genti pre-indoeuropee di origine mediterranea, ha generato un grandioso patrimonio toponimico. Il significato di molti di questi toponimi si presenta attualmente impenetrabile e distorto dall’usura nel tempo e nello spazio; anzi, frequentemente esso è addirittura irriconoscibile. Bellino è un toponimo chiaramente italianizzato, lo si riscontra ripartito in poche località alpine quali il Gias Blin nel Vallone Ischietto (Valle Gesso d’Entracque), nel Monregalese ed in alcune zone sparse. Questa voce, la cui interpretazione etimologica risulta tutt’ora incerta e difficile, si è prestata quindi a svariate ipotesi. La documentazione medievale si apre nell’anno 1255 con Belinus, tale dizione venne mantenuta in seguito senza varianti degne di nota. Nell’anno 1891 il sacerdote Claudio Allais, nel volume “La Castellata, Storia dell’alta Valle Varaita”, scriveva: “Bellino può considerarsi come diminutivo di bello, ma in verità la sua posizione topografica in confronto di quella di Casteldelfino e Pontechianale non risponde adeguatamente a tale interpretazione, pare anzi più probabile che tragga la sua origine dalla parola latina belluinus, perché luogo adatto a dare buon pascolo alle bestie… Da belluinus può essere derivato per la soppressione di una semplice vocale: Bellinus, Bellino”. La connessione con l’aggettivo latino bellus avanzata dall’Allais e, a maggior titolo, l’ipotesi della derivazione da belluinus o beluinus, formulata anche da Aegidio Forcellini in “Lexicon Totius Latinitatis”, dove l’Autore spiega brevemente l’etimologia corrispondente a “luogo di buon pascolo” (ad belvas pertinens), sono da verificare attraverso riscontri tuttora non possibili.

“Il chiarissimo glottologo Vittorio Bertoldi, negli anni ’50, prende invece in esame (pur non trattando specificatamente del nome Bellino) il gallico Belenuntia nel quale è riconoscibile il nome della divinità Belenos, della anche Belinus, identificata con Apollo, il dio splendente. Bel-enos è quindi una parola gallica significante “dio lucente, splendente”, simbolo di un’immagine greca in abito linguistico celtico. Infatti numerosi sono, particolarmente sul versante provenzale, i nomi di località che si ispirano alla diffusione del culto di Belenus il dio luminoso e brillante, etimo connesso con la forza vitale solare. Bel-enus è inoltre un nome formato dal radicale bel che corrisponde anche ad antica voce provenzale significante “fulmine, arco nel cielo”; presenta affinità con l’italiano balèno (a arcobaleno), facilmente riconducibile all’idea della pioggia anticamente ritenuta di origini divine.

“Anche Sergio Ottonelli, nell’eccellente “Guida della Val Varaita” (1979) da lui curata, pur spaziando ampiamente nell’ambito delle ipotesi, esprime un parere di incertezza sull’etimo della voce Bellino: “C’è chi lo ricollega al nome di un’antica divinità celtica, Beleno, divinità degli Arveni, abitanti dell’attuale Auvergno (Alvernia), una delle popolazioni più famose per la resistenza contro Roma e Cesare. Beleno, chiamato anche Apollo gallico, è costantemente collegato ad antichi culti solari di cui non mancano nelle nostre valli sicure tracce… Altre ipotesi si rifanno all’onomastica (e ancor oggi sopravvive, principalmente a San Peire, il cognome Bellino) o a ricordo di una popolazione gallica denominata Belin (in latino Belindi), c’è poi chi osserva che nel francese del medioevo in termine belins significa pecore e che nel popolare Roman de Renart il personaggio della pecora si chiama appunto Belin. È infine curioso notare come in certe zone della valle le primule vengono indicate ancora oggi proprio con il termine blin”.

“Originario della borgata Chiesa di Bellino, lo scrittore Giovanni Bernard (Jano di Vielm) nel volume “Uomo e ambiente a Ballino” (1983) si accosta, in parte, alle precedenti interpretazioni: “Blinso Bellino è una trasformazione di Belins. L’etimologia del nome è controversa e potrebbe egualmente risalire a Belenos, celtico dio del sole, ricordando che, da evidenti segni, Blins sarebbe stato da sempre un centro di culto, oppure a belin voce dell’antico francese con il significato di pecora”. Il francese, guida alpina e scrittore, Paul Louis Rousset, autore di un recente e dotto volume dal titolo “Les Alpes et leurs noms de lieux” (1988), così si esprime: “C’è chi fa derivare il nome Bellino dal dio celtoligure Belenus; ma, anche se così fosse, si tratterebbe sempre dell’arcaica radice bel, usata in questo caso per indicare una divinità delle altezze, come il dio Pen (radice pen) dei Salassi, divenuto Giove Pennino in bocca ai Romani”. Nume, questo, identificato anticamente con il dio Pan, divinità mitica della pastorizia, cantata da Omero quale protettore delle greggi e dimorante, con le ninfe danzanti, le alte cime dei monti.

“Dopo questo veloce excursus sulle ipotesi etimologiche enunciate, il toponimo Bellino (Blins), se analizzato alla luce dei più recenti studi di tecnica linguistica, parrebbe riconducibile al radicale prelatino bel “altura”, in relazione quindi all’aspetto geo-morfologico del territorio, con valore di “luogo isolato tra le montagne” (alla base del superbo versante settentrionale del Pelvo d’Elva, 3064). In assenza di convincenti riscontri storico-archeologico-linguistici, sono quindi precariamente persuasive le varie ipotesi che si pongono in riferimento sia all’onomastica (Bellinus, Belinus, Bellini, etc.), sia quelle rispecchianti antiche ritualità pagane e riguardanti divinità celto-liguri connesse con le altezze o con il culto del sole (eliolatria) quali: Belenus, Belacus, Bel, Baigorix, Beccos, Baginus, etc., sia infine con quelle che parlano di realtà ambientali, che peraltro si riscontrano con una discreta ripetitività in nomi di luogo ed in oronimi che, per assonanza, si richiamano al nome in oggetto: Bego, Begon, Bèigua, Baigus, Beonia, etc. Tutti questi nomi (e derivati) probabilmente hanno una comune origine di significato e fanno parte di un sinuoso intreccio, che lega il pensiero mitico a quello linguistico, i cui modi sicuramente furono dominati anch’essi dal medesimo denominatore spirituale.

“Il senso recondito della voce Bellino e della sua sacralità, prevalentemente ritenuto legato alla divinità celtica Belenus (Bellinus), rimane comunque aperto alla ricerca, quella induttiva, che si fa strada solo lentamente attraverso tentativi (ed anche errori), ma con costante e coscienziosa metodica, che tuttavia, in questo caso, si muove attorno ad un significato dai contorni ancora indefinibili. Si è quindi indotti a pensare ad un’etimologia molto arcaica e celata principalmente nella “percezione” dei primi colonizzatori della valle, riflesso delle loro condizioni di non facile sopravvivenza in quel primitivo mondo pastorale, del quale poco o nulla sappiamo, al di là di una probabile inferenza per il timoroso e intenso rispetto che essi portavano all’ambiente, fonte del loro sostentamento.”

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