Che succede alla nostra morte? Gente attorno alla bara, silenziosa, che osserva, scruta per riconoscere la “persona” che era e che non c’è più. Dov’è finita quella capacità di ragionamento, di deduzione, di analisi, di comunicazione che faceva di quella persona una “persona” riconoscibile?
C’è chi pensa che la nostra esistenza, poggiata su una concezione dualistica, si componga di corpo e anima. Sarebbe quest’ultima, al momento del trapasso, a separarsi dal corpo e a seguire un itinerario evolutivo tutto suo particolare, a noi incomprensibile perché ineffabile e inafferrabile. C’è chi, per altro verso, non vede altro all’infuori dell’aspetto materiale, essenzialmente fisico dell’essere: il nostro corpo sarebbe concepito, verrebbe alla luce, crescerebbe e andrebbe infine verso la dissoluzione semplicemente perché non può far altro che obbedire a una serie di disposizioni che gli sono state imposte per necessità. Come un robot.
E, allora, torniamo ai robot. L’automa si presenta come una bella macchina mirabilmente composta di elementi ossequienti a precise funzioni da assolvere, ma ferma e immobile se non riceve impulsi e informazioni comportamentali su un fondo di energia vitale. Ecco allora che abbisogna di due risorse perché i propri meccanismi si mettano in moto e lavorino nella direzione di uno scopo da raggiungere.
La prima risorsa è definita da un programma che stabilisca ogni atto possibile richiedibile al robot, nei limiti strettamente fissati delle informazioni configurate, ossia una scheda, si direbbe in termini informatici. Ma non basta, perché le informazioni contenute nella scheda si traducano in comportamenti occorre l’energia proveniente da una fonte esterna, ovvero, nel caso considerato, l’elettricità.
Vogliamo procedere a un confronto ardito fra le due espressioni suesposte di un’esistenza alla quale attribuire un senso? Ebbene, i meccanismi sofisticati di cui si compone il nostro corpo sono le parti vitali, i sistemi, gli apparati, tutti pronti, in potenza già all’atto del concepimento, a entrare in azione perfezionandosi, sviluppandosi gradualmente in sinergia reciproca, facendo altresì tesoro dell’apprendimento e dell’esperienza.
La scheda contenente le informazioni da diramare alle varie componenti dell’organismo potrebbe essere assimilata al cervello. Ma poi occorre l’energia capace di mettere in moto tutto il complesso della struttura e di controllarla nei suoi processi. Potrei azzardarmi a vedere un tale tipo di energia nella coscienza che ciascuno di noi ha di se stesso, in quella che, a lungo andare, prende le sembianze di autoconsapevolezza e che ci rende conoscibili a noi stessi, in forma sempre più completa e sofisticata, nello scorrere delle fasi della nostra vita.
Consapevolezza: un termine assolutamente astratto che si presta a più di una fra le definizioni possibili. Consapevolezza, in quanto so di esistere, di poter intessere rapporti verbali ed emotivi con altri miei simili, perché possa prefigurarmi attese, tuffarmi in speranze ed entusiasmi in progetti futuri, immaginare che ci sarà ancora un domani che mi potrà riservare sorprese, rivelazioni, conoscenze insperate. Soprattutto perché avverto il possesso di mie capacità illimitate di ricercare negli abissi del conoscere.
Anche la consapevolezza, tuttavia, non è una prerogativa affidabile in assoluto. Essa è intimamente legata alla mia coscienza, alla memoria degli eventi sperimentati. Così che la mia consapevolezza può altresì abbandonarmi. Un caso non insolito è quello che l’analisi clinica valuta con il nome di “sincope”, vale a dire un arresto momentaneo della luce che mi tiene sveglio, seguito a breve da una ripresa della coscienza. In quel lasso di tempo si spegne la luce sia sulla mia autoconsapevolezza sia sulla continuità della mia memoria che, al risveglio dei sensi, accuserà un vuoto, un “non sapere che cosa” sia successo. Ora, se torno al tentativo di accostamento delle due definizioni considerate, dovrei chiedermi quale sia la fonte esterna dalla quale proviene l’autoconsapevolezza di un individuo, il suo riconoscersi e riconoscere. Qui mi imbatto in un problema veramente serio. Intanto incespico se cerco di dire che cos’è, di quale natura sia questa autoconsapevolezza, ma, subito dopo, incappo nel tentativo parimenti arduo di scoprirne la provenienza.
Noi sappiamo a grandi linee come si svolge il processo evolutivo che dai gameti conduce alla formazione di un feto e, conseguentemente, di un essere via via sempre più autonomo, ma nulla sappiamo del “come” si verifichi la straordinaria catena di trasformazioni somatiche che non finisce di sorprenderci. Ci accontentiamo di sapere che ciò avviene e si ripete in modi prevedibili perché così, da che ne sappiamo, è sempre stato. Fin qui, pur limitandomi alla realtà sensibile. Ma se la mia analisi si sposta sulla forma ineffabile della consapevolezza individuale, allora mi perdo nelle mille congetture che la mente umana è riuscita a partorire in altrettanti vani tentativi di vederci chiaro. Una cosa è certa: se vogliamo accettare la supposizione che la nostra autoconsapevolezza sia l’energia che mette in moto tutto il nostro esistere, dobbiamo anche umilmente affidarci a una visione d’insieme del problema che esuli dalle nostre limitazioni sensibili e si adatti a soluzioni di altro genere.
Una di queste soluzioni potrebbe essere inclusa nella domanda “Abbiamo un programmatore?”. Sì, perché, volendo tornare un po’ semplicisticamente al robot, potremmo avere una macchina formidabile e tutta l’energia del mondo per farla muovere, ma, se prima non si dà una mente capace di ideare un programma adeguato a seguire precise intenzioni realizzabili in obiettivi prestabiliti, allora tutto resta immobile, tutto si riduce a niente.
Non posso inoltrarmi nello specifico, perché non vedo la strada che mi potrebbe indirizzare, perché non riconosco nel bagaglio delle mie competenze e capacità quelle che potrebbero portare anche soltanto a un parziale successo. Perché, se un programmatore esiste, allora è lecito pensare a qualsiasi tipologia alla quale ascriverne le caratteristiche. Un Demiurgo di platonica o socratica supposizione, oppure nella visione che ne fa Plotino di un’anima del mondo, non già creatrice ma organizzatrice della realtà materiale, oppure, ancora, una partecipazione di spirito e materia come ultima emanazione dell’Essere originario, secondo l’ottica adottata dagli Gnostici.
Comunque la si voglia intendere, la speculazione non può fermarsi al puro caso, perché allora sarebbe il Caso medesimo ad assurgere in prima istanza nella gerarchia delle cose create. Né si può pensare che il caso, rimanendo caso con tutti gli attributi che gli si addicono, sia così preciso, pur nel volgere dei millenni, da orchestrare una catena di cause ed effetti ossequiente a canoni di funzionamento rigidi e ripetibili senza soluzione di continuità. Il caso, inoltre, non si prefigge uno scopo da raggiungere, non è sospinto da un’intenzione, non predispone pertanto un progetto mirato. Non è ascrivibile soltanto al caso il fatto che nelle dinamiche dell’Universo conosciuto vigano leggi ferree, così perfettamente circoscritte da consentire agli studiosi di inferire deduzioni altrettanto credibili. Non è soltanto un caso che la vita sul nostro pianeta debba la propria esistenza a una serie di condizioni in perfetta armonia fra di loro. Non è per puro caso che la nascita di ciascuno di noi ha alla propria base certi comportamenti indotti da affetti, sensazioni, appetiti e pulsioni ormonali. Tiro in ballo quella molecola birichina, l’oxitocina che, opportunamente distribuita nell’organismo umano, dà il “la” a tutto un susseguirsi di trasporti affettivi che si risolveranno nella concezione di un nuovo individuo. Se eliminassimo l’oxitocina dal nostro mondo e dal nostro modo di vivere, allora dovremmo dedicarci interamente a una procreazione pianificata artificiale, senza affetto, senza amore, senza quella soddisfazione che lo stesso atto procreativo, con la liberazione di endorfine nel sangue, produce inducendo una diffusa sensazione di benessere. E che razza di intelligenza programmatrice avrebbe dimostrato di possedere quel Demiurgo nel dare ordine all’oxitocina di agire sul trasporto alla tenerezza, sulla fiamma della sessualità, sulla meccanica del parto e dell’allattamento? E, prima ancora, per dare all’oxitocina le facoltà che possiede, quale scienza e lungimiranza avrebbe usato per costruire la molecola in ballo, distribuendo in una geometria inconfondibile e in una architettura complessa atomi di carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto e via dicendo? Una maestria incomparabile davvero. Pensiamo un po’: se nel dare forma a quella molecola il suo ideatore avesse commesso un piccolo errore?
Già, perché la complessità strutturale che stava creando è per qualche aspetto assimilabile alla formazione di un castello signorile dell’età rinascimentale: ogni mattone al proprio posto e nessun vuoto che non sia richiesto dal progetto di costruzione. Così per l’oxitocina: ogni componente, di qualità e di quantità determinate, al proprio posto nel disegno stabilito; guai sbagliare collocazione o dimenticare qualcosa nello stabilire lo schema delle componenti atomiche, la molecola non avrebbe più svolto la propria funzione oppure sarebbe diventata dannosa all’organismo stesso.
Avvenne infatti che, per far sì che quella molecola adempisse per bene al proprio dovere, il suo ideatore la costruisse con sensata oculatezza, senza trascurare il minimo particolare: otto amminoacidi diversi, ossia glicina, leucina, prolina, cistina, tirosina, isoleucina, acido aspartico e acido glutammico. Chissà perché, mi torna alla mente quello stregone della compagnia di Asterix e Obelix, inventore di una pozione formidabile che attribuiva a chi l’avesse bevuta una potenza muscolare sovrumana. Sull’onda dell’immaginazione, allora, il nostro Demiurgo fece qualcosa di simile: prese l’ormone completo delle sue microcomponenti, lo guardò bene, se ne compiacque e decise, finalmente, di assegnargli una sede all’interno dell’organismo umano, la neuroipofisi ovvero il lobo posteriore dell’ipofisi da dove, al momento richiesto, quello entra in circolo nella infinitesimale rete di vasi conduttori. Poniamo il caso fantastico di uno svarione grossolano e che il Demiurgo abbia inserito nella catena dell’oxitocina un amminoacido in più di glicina e uno in meno di tirosina oppure ne abbia scambiato la collocazione all’interno della sequenza geometrica: come l’ingranaggio di un orologio che abbia perso un dente per usura, causando l’arresto dell’interno sistema, così avverrebbe in natura all’interno dell’organismo per quella determinata funzione dipendente. Ma poi, ancora, quella porzione infinitesimale di glicina, in un ciclo preordinato di interazioni con i suoi simili, che cosa fa realmente per portare al risultato atteso? Ossia che cosa contiene in sé, come se si trattasse di una leva, di un grimaldello e di un altro attrezzo da noi conosciuto, perché proprio a lei sia demandato il compito che va svolgendo? Ovvero, che cosa succede al suo interno e nell’essere in comunicazione con i suoi compagni di catena perché le sue potenzialità incontrino attuazione? Ancora: di che cosa si tratta se parliamo di interazione fra particelle? Qualcosa di tangibile? di osservabile? di misurabile? di classificabile?
Guardiamo ora a quanto sofisticate siano sia la struttura sia la funzionalità di queste neuroparticelle. Il mondo del loro essere non fa che destare meraviglia e sorpresa. L’oxitocina, questo ormone peptidico che si produce nell’ipotalamo, è anche un neurotrasmettitore ed entra in gioco in tutte le relazioni interpersonali.
Di più: l’ormone entra in circolo e l’organismo, di conseguenza, al suo apparire fornisce risposte appropriate, quelle che sono previste dal programma nel suo insieme. Domanda d’obbligo: come avviene la trasmissione dell’ordine dall’ormone all’organo destinatario? Sul piano del quotidiano un direttore d’orchestra produce certi gesti, assume certi atteggiamenti e la percezione di questi da parte dei musici induce comportamenti di una fattura determinata; se saluto un amico per strada so che la mia voce desta la sua attenzione e ne ottengo una risposta; se lancio in alto una pietra so che dopo pochi secondi raggiungerà un culmine di ascesa, poi ricadrà. Tutto questo sul registro comportamentale “stimolo-risposta”, una sorta di filo che si dipana su canali diversi: motorio, vocale-uditivo, fisico-dinamico. Qui sorge il problema: su quale filo si svolge la comunicazione dall’ormone agli organi deputati a fornire una risposta congruente allo stimolo? Forse solo su una matrice di trasformazioni chimiche e di impulsi neurali? Ma queste trasformazioni e questi impulsi di quale natura sono? A quale struttura originaria molecolare o quantica obbediscono? E perché lo fanno, e sempre, infallibilmente, allo stesso modo? Già, la risposta è semplice, viene da sé: sono programmati così.
E dunque abbiamo compiuto un bel giro attraverso congetture senza approdo per tornare, chiuso il cerchio, al punto di partenza. Vorrei piuttosto pensare che questo cerchio non si chiuda, ma continui a svilupparsi a spirale ascendente, ossia in orizzontale e in verticale allo stesso tempo, come farebbe una molla d’acciaio così modellata: a ogni giro si porterebbe un gradino più in altro e probabilmente arricchirebbe di un ulteriore tassello il campo di ricerca, senza soluzione di continuità e senza fine.
Nella sorprendente famiglia delle particelle-guida dei nostri processi somatici, senza escluderne dal beneficio altre specie animali, prime fra tutte quelle dei primati superiori, furono scoperte, per procedere nell’esempio qui portato avanti, le endorfine, altre sostanze onnipresenti nel nostro ciclo vitale, prodotte dalla ghiandola pituitaria (ipofisi) e dall’ipotalamo. Sono sostanze adibite all’inibizione delle sensazioni dolorose, a influenzare l’emotività e il comportamento. Inoltre agiscono per moderare l’appetito, liberano gli ormoni sessuali a tempo debito, in altre situazioni concorrono a diminuire lo stress, più generalmente inducono sensazioni di euforia e felicità ossia si comportano come proteine ad alto potere eccitante e analgesico.
Nel contesto dei richiami suaccennati non posso trascurare la dopamina, una molecola organica con funzione, anch’essa, di neurotrasmettitore, capace di esercitare controllo sul movimento, sulla memoria di lavoro, sul senso di piacere, sui meccanismi sottesi al sonno, ad alcune capacità cognitive, all’apprendimento, al potenziale di attenzione e all’umore.
La serotonina è un altro esempio della famiglia dei neurotrasmettitori, agisce sull’umore delle persone provocando la contrazione delle arterie, contribuendo al controllo della pressione sanguigna, stimolando la contrazione della muscolatura liscia dei bronchi e della vescica, producendo effetti inibitori sulla sensibilità al dolore, sull’appetito e sulla temperatura corporea, promuovendo infine il buon umore e la tranquillità.
Chiudo la breve rassegna su queste mirabili sostanze che lavorano dentro di noi, a nostra insaputa, con la più conosciuta e forse la più famosa fra le tante, l’adrenalina, sintetizzata nella porzione midollare del surrene. È un ormone, ancora, con la funzione di neurotrasmettitore, che sappiamo fare la propria apparizione in quella che fu definita “reazione di attacco-fuga”. Qualora un pericolo veramente grave ci si presenti, come un tentativo di aggressione a mano armata per portare un esempio, il nostro primo istinto, dopo la sorpresa e il timore, è quello di fuggire per porre la maggior distanza possibile fra l’aggressore e noi, oppure possiamo decidere di reagire al primo momento di sgomento e attaccare, nella speranza di aver ragione dell’aggressore. In entrambi i casi è l’adrenalina a entrare in circolo scatenando alcune condizioni a livello organico, favorevoli nell’abbracciare una reazione adeguata: accrescimento istantaneo delle funzioni organiche, incremento delle capacità muscolari.
Mi avvedo che il termine “neurotrasmettitori” è diventato ormai di casa nell’analisi che sto cercando di portare avanti. E mi domando: che cosa significa essere “neurotrasmettitore”, come vengono veicolati i suoi ordini alle varie parti dell’organismo? Torno qui a calcare il significato recondito che si lega al filo di trasmissione, al canale conduttore degli input rilasciati. Se parlo al telefono fisso, ecco che la mia voce viene tradotta in impulsi elettrici e incanalata su una complessa rete di fili metallici perché compia il suo rapidissimo viaggio sino all’orecchio di chi riceve. Con la radiofonia e l’impianto cellulare di cui godono i nostri telefonini personali l’impulso vocale iniziale cambia veste e si adagia su un flusso di onde elettromagnetiche capaci persino di passare attraverso il nostro corpo, sino a raggiungere la cella di smistamento prevista. Sono realizzazioni che sanno quasi di magico, molto avanzate sul piano delle dinamiche nella trasmissione di informazioni.
Per arrivare al dunque, però, quel traguardo che consentirebbe di capire su quale filo o canale, a prescindere dall’attivazione di particolari componenti chimiche a livello micro cellulare, possa viaggiare il segnale che trasporta quell’ordine per tutto il percorso assegnatogli, per arrivare a tanto, dicevo, la mia mente ancora una volta si perde e si limita a provare meraviglia e stupore, se vogliamo, “con animo turbato e commosso”.
Che cosa ci stiano a fare tutte queste sostanze nei meandri del nostro organismo è stato appena accennato dalle scoperte scientifiche degli ultimi decenni, ma perché esistano e si trovino collocate con determinati compiti da svolgere, questo resta ancora da capire e forse si colloca al di là della pura epistemologia scientifica. Quel Demiurgo misterioso e ipotetico a cui mi sono riferito potrebbe aver costruito l’uomo con una certa affinità al robot, ossia un automa biologico, dotandolo persino di una sua peculiare capacità di scelta, lasciando nel buio più assoluto la conoscenza di chi vuol sapere, se costui ardisca mai interrogarsi sul motivo di una creazione di tal fatta. E mi piace immaginarlo, il Demiurgo, nella sua fucina dotata di una miriade di attrezzi e di schemi di lavoro, nel provare e riprovare le varie connessioni fra atomi e particelle sub atomiche, sperando affannosamente di trovare la combinazione che sortisca gli effetti sperati. Ma per giungere a tanto quel Demiurgo dovrebbe possedere già nella propria mente un abbozzo preciso delle conformazioni presenti e future, come anche degli effetti a esse collegati.
Arrischierò, ripetendomi, un accostamento azzardato: il nostro cervello sarebbe la scheda madre attraverso la quale vengono diramati e controllati gli ordini. I neurotrasmettitori, gli ormoni, le proteine che tanta parte giocano nel funzionamento della totalità organica della persona sarebbero una serie ben congegnata di microprocessori in azione sinergica fra di loro con lo scopo di mantenere l’equilibrio della struttura complessiva.
Sono sufficienti i pochi esempi sopra riportati, credo, per dare un’idea di quanto siano complessi il nostro organismo e le cose che in esso si avvicendano per il suo buon funzionamento. Resta incomprensibile in base a quale ordine si muovano le innumerevoli componenti molecolari e molari per dirigersi senza sbagliare percorso verso la ricerca degli esiti ascritti alle caratteristiche funzionali. E resta ancor meno comprensibile immaginare l’esistenza, al vertice della catena di comportamenti, di una Volontà preordinata, cosciente di sé e delle proprie emanazioni, mossa da una circostanziata intenzione.
Da un altro punto di vista, sempre nella prospettiva di comprendere il “come”, ma anche il “perché” di tutto ciò che ci sta intorno e che accade, viene spontaneo tirare in ballo un mirabile sistema di processi, di comportamenti, di trasformazioni entro il quale si inseriscono le apparenze più piccole, dalla perfezione con la quale il ragno tesse la tela all’architettura di rara ingegneria con cui le api costruiscono le celle esagonali, alla struttura pressoché inconoscibile del micro e del macrocosmo.
Nel micro, per esempio, abbiamo a che fare con particelle così piccole tanto da non riuscire a vederle, così impalpabili che non possiamo trattenerle tra due dita, così sfuggenti che riusciamo a percepirne l’esistenza soltanto attraverso i calcoli, come le particelle che vengono fatte collidere negli acceleratori. E, poi, l’Universo che conosciamo, così limitato in estensione da far pensare a una serie indefinita di Universi paralleli, oltre il confine dei 13 miliardi e 831 milioni di anni luce di cui attualmente possediamo i segni. Non solo, ma la voracità dei buchi neri che divorano, in un vortice fantastico, persino la luce, e l’antimateria opposta alla materia che occupa una proporzione predominante, e l’energia oscura che presiede all’espansione dell’Universo a dispetto della forza di gravità, pervadendo la maggior parte dello spazio e superando di gran lunga tutta l’energia di cui siamo a conoscenza, e lo spazio stesso e il vuoto immenso che di esso è eterno compagno, e le abissali domande sull’onda delle quali ci perdiamo quando pensiamo a che cosa sarà un giorno di tutto l’Universo. E, infine, il nostro esserci nella speranza di non trovarci soli nel novero di centinaia di miliardi di stelle che popolano la nostra Galassia e di centinaia di miliardi di Galassie sparse nell’Universo conosciuto.
Immagine di copertina tratta da Youth Pro Lab.