I Presocratici (VII-V secolo) parte 2 di 5

Un poderoso passo avanti e raggiungiamo Talete di Mileto (Talete, 640 o 625 – 548 o 545; il primo, o uno, dei sette Sapienti dell’antichità greca) che, già 600 anni prima di Cristo, arriva a comprendere che la Luna è più vicina alla Terra di quanto lo sia il Sole, dà dunque forma alla profondità dello spazio e in essa colloca la ragione delle eclissi, tanto da creare le condizioni per prevedere l’eclisse solare che si verificò il 28 maggio del 585 a.C., quel fenomeno da tutti ritenuto terrificante e presago di ire divine al punto da decretare l’interrompersi di una cruenta battaglia che al momento divampava tra i Medi e i Lidi (I Medi abitavano le terre che si trovavano nella regione a Nordovest di quello che oggi chiamiamo Iran, fin dal secolo X a.C. –  Ciàssare, re dei Medi, dopo aver sconfitto gli Assiri nel 612 a.C. distruggendo la città di Ninive, aveva mosso guerra alla Lidia protraendo il conflitto per diversi anni finché nel 585 fu fissato il confine tra i due Stati al fiume Halys. La Lidia, regione ricca e feconda, estesa dal fiume Halys all’Egeo, godeva di terreni fertili, di floridezza economica, di scambi commerciali avviati al successo e di una forte flotta. Si rammenta la proverbiale ricchezza del re Creso. I Lidi furono i primi a praticare l’arte di coniare le monete e di tingere la lana). Per Talete l’Acqua è il principio unico generatore di tutte le cose. Sua fu l’intuizione che la natura è animata e vivente. Possedeva vaste conoscenze in astronomia e geometria: iscrizione del triangolo in una circonferenza, metodo per calcolare l’altezza di una piramide a partire dalla misura della sua ombra e per calcolare la distanza di una nave dalla costa attraverso le relazioni fra gli angoli.

Anassimandro, 610-546, fu discepolo di Talete. Intuì l’esistenza di un “infinito” in cui i contrari si trovano fusi e indistinguibili. L’infinito è anche eterno. Anassimandro nello sforzo di rendere tale elemento più onnicomprensivo, lo identifica nell’Apeiron, l’indeterminato, e avanza una prima ipotesi evoluzionistica (i singoli individui si evolvono dall’Apeiron). Nascere era una conseguenza della separazione dei contrari. La morte era considerata come riunificazione dei contrari nell’infinito. La vita sul nostro pianeta ha avuto origine dal fango marino. L’uomo ha come progenitori i pesci. C’è un altro termine che riesce a spiegare su quale terreno si muoveva il pensiero dei Presocratici, ed è il vocabolo Archè (termine che designa il principio originario di tutte le cose, ripreso in seguito da alcuni fisiologi per indicare il principio immateriale della vita, diverso dall’anima e considerato come la base di tutti i fenomeni vitali), introdotto da Anassimandro della Scuola di Mileto. La Scuola Ionica, nella quale si inseriva Mileto, presupponeva l’esistenza di una materia indeterminata e indifferenziata, capace di racchiudere in sé tutti i contrari, come “caldo-freddo”, “bello-brutto” e così via. Questi contrari, a loro volta, si manifestano nel momento in cui si separano l’uno dall’altro. Così, ad esempio, la nascita di una creatura proviene dalla separazione dei contrari, mentre la morte si manifesta come la loro unificazione in quello che Anassimandro definì Apeiron ossia l’infinito. Anassimandro, nei suoi tentativi di designare il principio originario di tutte le cose, condusse persino ricerche sulla distanza e sulla grandezza relative degli astri visibili, ponendosi il problema del principio di tutto, che andò a risolvere con il concetto di Infinito. Anassimandro coniò quella parola, Apeiron, con la prerogativa di infinito, quasi si trattasse di un contenuto ideale nel quale riporre tutti i problemi con le loro soluzioni palesi, occulte o impossibili. Quasi come parlare di Dio, restando a un concetto senza che nulla se ne sappia della sua vera essenza. Gli viene attribuita l’invenzione dello gnomone o orologio solare che lo portò a scoprire l’obliquità dello zodiaco. Pare che per primo abbia tracciato una carta del mondo allora conosciuto.

Di non minore peso intravedo l’altro problema, quello degli opposti che, se così si può dire, inizialmente erano unificati in quell’Apeiron al quale torneranno, probabilmente, dopo aver assolto a un determinato compito per uno scopo che, anche qui inspiegabilmente, non conosciamo. Qualcosa di simile ce lo disvelano gli astrofisici e da essi prenderò alcuni spunti per approfondire il concetto di dualità in termini almeno un po’ più concreti. L’Universo fisico sarebbe nato dall’esplosione di una concentrazione spaventosa di materia ed energia, chiamata Big Bang. All’inizio questa concentrazione doveva godere di una perfetta simmetria. Prima dell’Era di Planck il Cosmo si trovava nello stato così chiamato “di singolarità” e tutto era straordinariamente compatto. L’Era di Planck si ipotizza collocarsi dopo il Big Bang, trascorsa una infinitesima frazione di secondo, come dire una frazione con al numeratore il numero 1 indicante un minuto secondo e, al denominatore, un numero formato da 1 seguito da 43 zeri (ossia 1/1043, in termini matematici), pressoché illeggibile. Questo soltanto per poterci immaginare quale parte di tempo fosse trascorsa. Da qui nasceva l’esistente, quello che paradossalmente, accennato in altra circostanza, dovrebbe corrispondere alla definizione di “non-Essere”. Nei primi momenti dell’esistenza del Cosmo deve essersi verificata una prima rottura della simmetria e la gravità dovette separarsi dalle altre forze che erano ancora unificate. Questa prima rottura deve essere accaduta alla fine dell’Era di Planck (10-43 s”). Poi si separarono altre forze: l’interazione forte (che tiene i protoni “incollati” in un nucleo atomico), l’interazione elettrodebole (o radioattività) e la forza elettromagnetica. Lì aveva inizio la dualità, lì c’eravamo anche noi e lì aveva inizio la nostra avventura di esseri separati nella dualità. In tutto quel caotico insieme di elementi assunsero la propria fisionomia i contrari riconducibili all’Archè di Anassimandro.

Trascorsero qualcosa come 13 miliardi e 700 milioni di anni, ed eccoci qua, noi, dotati di intelligenza, elaboratori di pensiero. Vivremo, faremo molte cose, altre ne scopriremo, ma dovremo assuefarci all’idea della nostra fine. E questa non ci voleva, tutto questo gran guazzabuglio di miliardi di anni e di lavoro intergalattico e di universi paralleli, per poi dover dire: è finita, e giù nel buio.

Ed è qui che mi è di sollecito l’ultimo problema, per ora, di questa fantastica dissertazione. Voglio dire quello dell’Io, del sentirmi, io stesso, ora e qui, in una parola la mia consapevolezza. Non so se sbaglio, ma mi pare di rammentare che fosse Rita Levi Montalcini ad affermare: “Il mio corpo faccia ciò che vuole; io sono la Mente”. Bellissimo! Alla morte fisica, dunque, il corpo tornerà alla materia informe che l’ha generato, ma si spera, io lo spero, che la Mente continui a essere, ricongiungendosi al Tutto dal quale provenne. Il bambino acquista consapevolezza allorquando, uscito da un sistema monotropico e indifferenziato dello stato fetale e peri-natale, si accorge di essere un Io separato: potrà dire “Io” e da quel momento sarà consapevole di sé e del mondo. Mente e consapevolezza sono le due facce di una stessa sfera immaginaria in rotazione su se stessa. La morte fisica si porrebbe come la fine della dualità e il ritorno all’indiviso originario. Dunque, immagino: terminata la mia esistenza fisica, del mio corpo non me ne importerà proprio niente, ma della mia consapevolezza sì, perché l’ho acquisita camminando sui sentieri dell’esperienza e l’ho fatta crescere con l’inoltrarmi nei meandri della conoscenza. Il mio corpo fu partorito da mia madre, ma chi partorì la mia consapevolezza, da cui la mia mente raziocinante? Per un certo verso viene qui a puntino persino la dottrina dell’anamnesi di Platone. Io, come Mente, c’ero già prima di tutti i tempi, vivevo nel Tutto. Nascendo il mio corpo, la mia consapevolezza di esistere si separò dal Tutto e si unì al corpo subendo tutte le sorti connesse alla dualità, fra cui la perdita delle memorie precedenti, e anche la necessità di passare attraverso esperienze e interazioni attive per nutrirsi di alimento e crescere. La volontà che è in me mi aiuta a seguire la mia Mente nella sua evoluzione ed è in questo senso che mi sento sempre più “Io”. Mi fermo qui perché il pensiero mi porterebbe troppo lontano e ho timore che non ce la farei, al momento, a tenergli il passo.

Anassimene 586-528, ultimo rappresentante della Scuola di Mileto, discepolo di Anassimandro. Riconduce tutto all’elemento aria che si muove come un gigantesco respiro dando origine al fuoco se più rarefatta, all’acqua e successivamente alla terra se più condensata. Anassimene ricerca il principio nell’aria, non solo nel suo significato meteorologico, ma anche in quello di spirito vitale, anima.

VI-V Secolo

È di questo tempo l’asserzione di Pitagora (570-496) di Samo (si trasferì da Samo a Crotone, poi a Tebe, a Creta e in Egitto), secondo la quale la Terra è di forma rotonda e si trova sospesa nello spazio. Pitagora fu il primo a immaginare un’impostazione eliocentrica del sistema solare: 10 pianeti che ruotano attorno a un fuoco comune. L’armonia dell’Universo proviene dall’equilibrio fra i contrari (es: caduta della Terra sul Sole e spinta centrifuga). Ai primi tentativi di raggiungere un principio unitario per via di ragionamento e di spiegare con esso l’esistenza di tutti gli esseri, Pitagora oppone nella sua teoria dei numeri il dualismo (numeri pari-dispari, generatori di altre antitesi: limitato-illimitato; uno-molti; maschio-femmina; luce-tenebra, ecc.). Questa “legge dei numeri“ costituisce per Pitagora la base della formazione delle cose e spiega l’esistenza del mondo fisico e morale. Scienza e mistica si legano nel suo insegnamento in stretto modo e l’ascesa verso la perfezione morale significa una nuova conquista del sapere. Ionici e Pitagorici si erano mossi su linee divergenti (spiccato naturalismo nei primi, interpretazione numerica della realtà nei secondi). Il merito a Pitagora e alla sua scuola è attribuito da importanti acquisizioni nel campo della geometria, dell’aritmetica, della medicina, della musica, dell’astronomia e della filosofia.

Ecatèo di Mileto (550 a.C. – 476 a.C.) (560 – 490)

Logografo (narratore in prosa di vicende, nell’ambito della tradizione mitico-storica greca) della Ionia. È stato un geografo e storico greco antico, uno dei primi autori di scritti di storia e geografia in prosa del mondo greco. Viaggiò molto in terre persiane e in Egitto.

Sembra che egli cominciasse a considerare razionalmente i miti e a basarsi sui fatti per valutare le tradizioni. Si può dimostrare la sua spregiudicatezza e la sua noncuranza per ciò che allora era considerato sacro e inviolabile.

Le Genealogie (Γενεαλογίαι) erano un’opera in 4 libri di natura storico-genealogica, con un’esposizione di avvenimenti mitici ordinati cronologicamente per generazioni. Restano una trentina di frammenti, un tentativo di razionalizzare gli elementi mitici della storia primitiva della Grecia. Usò per la prima volta il termine “storia”. Compose una descrizione geo-etnografica della terra conosciuta, corredata da una tavola geografica, in due libri.

Considerando leggende molte tradizioni della sua terra, Ecateo cerca di comprendere i miti, razionalizzandoli: il mito viene adattato ai tempi. Ma Ecateo non poteva “storicizzare”, proprio a causa dell’inesistenza, ai suoi tempi, di una storiografia e, perciò, di una metodologia storiografica e tuttavia, per il suo sforzo di mettere in discussione le narrazioni del passato, per la ricerca della verosimiglianza dei fatti e il rifiuto dell’autorità, merita il nome di padre della storiografia greca. Diede alla storia un fondamento scientifico con il porre in ridicolo quanto di assurdo c’era nei miti e nelle tradizioni. Fondò la geografia sulle relazioni dei naviganti, dei viaggiatori e sulle sue larghe esperienze personali.

Senofane (VI-V secolo), nato a Colofone (Asia Minore, Mare Egeo), l’abbandonò nel 545 0 540 a causa dell’invasione dei Persiani (546) e viaggiò molto. A lui si attribuiscono: la denuncia della grossolana ingenuità dell’antropomorfismo religioso; l’affermazione vigorosa dei caratteri che convengono alla divinità secondo la ragione, cioè l’essere unica, ingenerata, autosufficiente, capace di mandare tutto a compimento con la sola forza del pensiero; e, infine, la fiducia nell’uomo come autonomo indagatore della verità.

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