Famiglia e responsabilità – parte 1 di 2

12 Agosto 2018. Leggo su Televideo qualcosa che suona come una nuova proposta e che sottende l’intenzione di reintrodurre per alcuni mesi il servizio militare, il servizio civile per i nostri ragazzi e le nostre ragazze perché imparino l’educazione che “madri e padri non sono stati in grado di insegnare”.

Su quest’ultimo enunciato mi sono attardato con preoccupata riflessione, tanto che mi tornano in mente alcune considerazioni che avevo raccolto in un mio lavoro dal titolo Dove vai Pensiero?, inedito, considerazioni che qui riporto in sintesi. Perché il problema sta alla radice e riguarda l’essere educati di coloro che avranno la responsabilità di trasmettere educazione, valori e certezze alle nuove generazioni.

La famiglia, nei confronti dell’educazione dei bambini, agisce nel volgere della fascia temporale più favorevole in assoluto, in forza dei periodi critici che la sequenza evolutiva va attraversando nei primi anni di vita dell’individuo e in forza della estrema plasticità con la quale il sistema nervoso centrale si va organizzando in quello stesso periodo. È lì che si costruiscono le fondamenta della persona, è lì che si dà forma ai tratti di personalità, è lì che vengono stabiliti schemi di pensiero, di affettività e di comportamento sociale secondo un’impostazione che sarà determinante e veicolante del successivo comportamento per tutto il resto della vita dell’individuo.

Questo significa che la famiglia costruisce lo zoccolo dell’edificio, e quel che verrà edificato sopra dipenderà dalla consistenza e dalla struttura di quel basamento? Come dire che quello dei genitori è un mestiere fra i più importanti!?

Il più importante, senza dubbio, e il più delicato, il più determinante e anche il più compromettente. Sono numerosi gli studi della psicologia dell’età evolutiva a convergere verso questa convinzione. 

In che modo sarebbe il mestiere più importante? Posso portare uno fra una nutrita serie di esempi: la presenza. Tutto sta in questo termine. Essere genitori significa essenzialmente essere presenti.

Essere presenti credo possa consistere nello stare molto tempo con mio figlio, proteggerlo, seguirlo, insegnargli tante belle cose, non fargli mancare ciò che gli è necessario. E giocare con lui.

Giocare? Giocare, sì. Il gioco per un bambino piccolo è la sua stessa vita, il suo modo di essere, di esprimersi, di pensare, di immaginare, di creare legami affettivi, di costruire il proprio sé. Le cure dettate da preoccupazione o da senso di responsabilità soltanto non sono sufficienti. Il malanno, o malessere, più diffuso e più ansiogeno fra i bambini è quello del sentirsi soli. Magari circondati da ogni attenzione, dalle cure più assidue, da oggetti di gratificazione d’ogni genere: i bambini, si dice, hanno tutto. Ma spesso manca loro la cosa più importante, infinitamente più grande anche della somma di ogni cosa che già possiedano, e insostituibile: l’amore. Sentirsi amato, per un bambino, è l’equivalente del non sentirsi solo quand’anche sia fisicamente solo, è come un rispecchiarsi continuo in un’identità personale in costruzione che riassume in sé e riflette le sicurezze innestate su una serie confortante di identificazioni fondamentali.

S’è capito, ultimamente, che la matrice di quella che sarà la persona con una ben definita personalità si stampa in seno alla famiglia, nei primi mesi e anni di vita dei bambini. Questi ultimi, è stato detto e ridetto, insieme al latte materno succhiano un latte affettivo che non ha odore né colore né sapore, ma che lascia impronte indelebili per il corso che sarà successivamente impresso alla vita emotiva e affettivo-relazionale del bambino diventato ragazzo e poi adulto. Il latte è un elemento di straordinario significato nell’economia evolutiva dell’individuo. Non è soltanto un caso che il latte materno sia l’unica sostanza escreta dal corpo umano a essere desiderata e apprezzata. Per tutte le altre, sudore, orina, feci, muco, sangue, sperma, saliva, forfora, squamosità, cerume, emanazioni gassose, persino capelli caduti, alito e lacrime si prova, in diversa misura, repulsione se non proprio schifo. Il latte invece piace, è dolce, gustoso, profumato, tiepido, nutriente. Non sempre è la stessa cosa per il latte affettivo, con la differenza che il bambino riottoso può rifiutarsi di succhiare il latte organico, ma nessuno riesce a respingere il latte affettivo; quello entra per i pori, per tutti i canali di senso, per gli invisibili recettori dell’anima. E se non è buon latte affettivo assume tutte le caratteristiche del latte andato a male. Nulla di più repellente che il puzzo del latte andato a male o il lezzo del latte bruciato sulla fiamma. Con questo sono anch’io a rimarcare la fondamentale importanza e l’enorme responsabilità della famiglia dal momento in cui si trova a far crescere e a educare un essere umano sin dai primi giorni di vita. Ciò che sarà più tardi dipende in larga misura dal tipo di latte – mi riferisco in particolare al latte affettivo – che il bambino avrà succhiato e metabolizzato.

Oggi, che cosa accade? Il crescente benessere economico, la disponibilità materiale di acquisto, la sofisticata tecnologia dei consumi e delle comodità, quando non dell’illusorio e del superfluo, ma anche un pericoloso allentamento di un certo rigore morale passato di moda e rimpiazzato da più comode impostazioni permissiviste, tolleranti o impaniate addirittura nell’assuefazione al degrado, hanno indotto un modo di pensare profondamente mutato e hanno dato vita ad atteggiamenti inattesi nei confronti di una realtà in rapida trasformazione. Da una parte genitori poco oculati e piuttosto distratti che, per non incappare in inusitati sensi di colpa agli occhi della società, danno tutto il possibile ai propri figli, non fanno loro mancare alcunché, spianano loro la strada e abbattono ogni benché minimo ostacolo; genitori che, talvolta, concedono anche il troppo e il non necessario ai propri figli, pur di essere lasciati in pace a godere delle opportunità che la vita è ancora in grado di offrire loro; genitori, ancora, ambiziosi ed esigenti oppure incapaci e sprovveduti, latitanti di fronte alle proprie responsabilità ma sempre pronti nel delegare alle strutture sociali ciò che essi non sanno fare o, peggio, l’oneroso compito di porre tardivamente riparo ai danni spesso pesanti arrecati a un promettente sviluppo personale dei figli già dalle prime fasi dell’esistenza. Dall’altra bambini avvezzi alla logica del “carpe diem”, male equipaggiati nel far fronte ai grandi temi attinenti alla vivibilità sociale, alla cooperazione, alla creazione del proprio futuro; bambini che crescono per lo più disorientati, privi di saldi punti di riferimento, ignari, accecati da un falso ottimismo di facciata e a loro volta irresponsabili, incapaci di produrre quella minima quantità di sforzo e di fatica che la conquista dell’esistenza richiede loro; bambini abituati ad avere sempre ragione, disinvestiti da qualsiasi senso di colpa o di vergogna, liberati da inibizioni, pronti nell’avanzare pretese e facili alla perdita del rispetto umano fondamentale; figli, infine, sempre più soli e incompresi, avidi di risposte che rincorrono senza potersene impadronire.

Eppure una soluzione ci deve essere a queste situazioni di estrema conflittualità. Sta in una parolina, tanto breve quanto semplice e risolutiva. È la parolina “NO”. I genitori, se sanno bene quel che si fanno, devono dotarsi di tanta autorevolezza e di tanta ponderata determinazione da saper dire “no” al momento giusto.

Già, più facile a dirsi che a farsi con i figli. Non trascuriamo di valutare il contesto. Qualora un genitore accorto decidesse di ricorre a un no pienamente motivato, quel no sarebbe simile a un fiammifero acceso sotto una pioggia scrosciante di “sì” provenienti dalla massa di altri genitori e dal sistema propagandistico manipolato con estrema facilità dai maghi della persuasione.

Non ho dubbi sull’efficacia del “no”. Se c’è una cosa che manca nel rapporto educativo, e la cui assenza produce spesso effetti devastanti, è il senso del limite. Saper dire no significa porre dei paletti alle pretese, alle domande, alle risposte, ai gradi di libertà creati all’infinito dalla società dei consumi a portata di chiunque abbia quattro soldi in tasca. No perché non è indispensabile, no perché non è necessario, no perché non serve, no perché le conseguenze prevedibili me lo sconsigliano, no perché in tal modo sottrarrei parte di un bene che viene negato ad altri, no perché ubbidirei unicamente a un bisogno indotto, no perché non ha senso fare le cose soltanto perché tutti gli altri le fanno, senza riflettere sulle motivazioni delle nostre scelte e sulla validità degli scopi che desideriamo raggiungere. Erano i nostri padri o, meglio, i nostri nonni e bisnonni che si sentivano buttare addosso quei no come se si trattasse della cosa più naturale al mondo. Perché i vecchi sapevano, prima, imporre i dovuti no a se stessi. I genitori che non sanno dire di no a se stessi come mai potrebbero trovare la ragione, e la faccia, per dire di no ai propri figli? E così si crea uno strano connubio tra genitori e figli per cui, agli ostentati diritti dei secondi si sposano le licenze dei primi. Non solo, ma certi genitori giocano addirittura la carta dell’arrendevolezza qualora, avvertiti del comportamento inadeguato dei loro figli, poniamo, a scuola, rispondono con quanta disinvoltura posseggono in corpo: “Oh, ma anche a casa è così, non riusciamo a comandarlo”, come se la cosa fosse del tutto naturale!

Sabato 7 aprile 2018, da Televideo: Un docente di 50 anni, ipovedente, è stato picchiato e ferito gravemente dal padre di una studentessa di Terza Media a Palermo. Dopo che la ragazza aveva raccontato al padre di essere stata rimproverata dal professore, questi è caduto vittima dell’aggressione di quel genitore che, con un pugno al volto, ha provocato al docente un’emorragia cerebrale. In un Istituto Tecnico di Torino un altro docente è stato malmenato dai genitori di un ragazzo che, giunto in ritardo a scuola, era stato mandato in biblioteca anziché essere accolto in classe.

Venerdì sera, 6 aprile 2018, ho seguito la trasmissione di Rai Storia sulla crisi generazionale tra genitori e figli. Presenti al dibattito la Prof. Anna Oliverio Ferraris, nota Psicologa e gli Storici Bruno Maida e Maurizio Quilici. Si sono dette cose verissime, tutte condivisibili. L’impressione conclusiva che il programma mi ha lasciato è, tuttavia, che non si vada sempre in fondo a cercare quali dinamiche possano aver portato a situazioni del genere descritto, non si vada ad addentrarsi verso il centro del problema, magari seguendo un filone di indagine socio-psicologico. Questo l’avrebbe potuto fare benissimo la Prof. Oliverio Ferraris, ma invero le sono state offerte ben poche occasioni di intervento e le è mancato il tempo occorrente per sviluppare una visione più completa del problema. Affidare dunque le nostre disquisizioni a un ambito ampiamente storico e politico, dove si afferma, a ragione, che certe cose accadono perché è la società a essere radicalmente cambiata ai giorni nostri, mi sembra ancora alquanto riduttivo; come dire che fatti gravissimi, vedi quelli menzionati, vanno valutati entro una cornice multifattoriale che finisce per far risaltare la figura degli artefici quasi nel ruolo di vittime incolpevoli di un contesto in buona parte coattivo e perverso.

La famiglia patriarcale era dominata dal padre-padrone, amorevole e dominatore, imponente e impositore. I figli avevano soltanto l’obbligo di obbedire e di tacere. Nessuna contestazione, nessun incoraggiamento al colloquio e nessun adito al confronto culturale. Erano, i figli, cellule separate dalla potestà paterna, segretamente animati dall’ambizione a sottrarsi a quel dominio indiscutibile per rinnovare, a loro volta, la stessa sequenza adottando gli stessi atteggiamenti appresi nella famiglia d’origine.

A questa condizione di taglio socio-familiare seguì un periodo di progressiva emancipazione delle dinamiche rapportuali tra genitori e figli, nel senso che i genitori, in gran parte, sentirono il bisogno di aprirsi un po’ di più ai figli, ponendosi persino in ascolto dei loro problemi e i figli assunsero maggiore consapevolezza della propria posizione nella cerchia familiare.

Più avanti ancora subentrò quella che potrebbe essere denominata la “rivoluzione copernicana della famiglia” apparsa sulla scena sociale unitamente all’altro contemporaneo e parallelo fenomeno determinante, quello del miracolo economico, della più snella circolazione di denaro, di una maggiore disponibilità di risorse volte alla ricerca del benessere. È qui, credo, che si venne a creare una biforcazione nello sviluppo delle possibilità sia sociali sia formative sia di rapporto nell’educazione familiare. Il denaro, reso dall’economia in rapido sviluppo più facilmente accessibile e spendibile, fu l’apparato di scambio di un binario che, sul piano economico e addirittura morale, avrebbe visto affiorare la biforcazione a cui vado accennando.

In questa nuova panoramica le possibilità di ulteriore sviluppo, su larga scala, furono essenzialmente due. Le migliori condizioni economiche in cui le famiglie si erano venute a trovare indussero, oltre al possesso di maggiori comodità, una più larga veduta nel novero delle aspirazioni che, da fantasticate com’erano state fino allora, andavano promettendo terreno fertile per il loro concretarsi in tempi brevissimi. Fu a questo punto che il possesso di denaro facile, il vero dio in cattedra di questo mondo, sfoderò tutte le proprie armi per blandire la gente comune con lusinghe fallaci e prolungamenti del ventaglio dei desideri.

Ed ecco la biforcazione: da una parte il binario scelto da coloro che di questa nuova ricchezza seppero fare buon uso, con moderazione, con senso di equità, con uno sguardo sempre rivolto a chi era meno fortunato e più oberato da problemi esistenziali. Sull’altro binario s’incamminarono coloro che avvertirono i propri occhi spalancarsi di botto e scorsero defilarsi di fronte a sé un palcoscenico ricco di possibilità da sempre ambite, da sempre oggetto esclusivo di insoddisfazione e di invidia per non averle potute trasformare in realtà. Ora questo stava diventando possibile. Successe dunque che molti adulti trovarono facile accesso a ciò che sino a quel momento era stato circondato da proibizione, e vi si buttarono dentro come per saziarsene, finalmente! Crebbero le disponibilità a spostarsi, a dotarsi di attrezzi, mezzi e prodotti della migliore tecnologia per comunicare, per dilatare i confini della propria esperienza. Tutto bene fin qui, se il fenomeno fosse stato assunto con l’intelligenza e il dovuto senso della misura, ma si diede il caso che alcuni preferirono fare uso meno provvido di quanto erano stati capaci di raggiungere. Sì, perché quel meccanismo che portò alla svolta di cui dicevo era alimentato da una più o meno presente capacità di saper fare buon uso di quanto stava davanti come potente richiamo verso una scelta precipitosa e avventata oppure oculata e razionale.

Immagine di copertina tratta da <a href="http://<a href="https://www.vecteezy.com/free-photos">Free Stock photos by VecteezyVecteezy

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