Aldous Huxley – La Filosofia Perenne (Parte 4 di 5)

Nella mente dei Pensatori

Adelphi Editore SPA – Milano 1995
Originale: The Perennial Philosophy, Mrs. Laura Huxley 1945
Stampato Ottobre 1995 da Techno Media Reference S.R.L., Milano

Il miracoloso. Le rivelazioni sono le aberrazioni della fede, un diversivo che rovina la semplicità nel rapporto con Dio, che imbarazza l’anima e la fuorvia nella sua relazione con Dio; sono per essa fonte di dispersione e la occupano con altre cose che non sono Dio. Per la FP i miracoli accadono, ma sono considerati cose di poca importanza, essenzialmente negative e antispirituali.

Incarnazioni divine. Vi sono periodiche “discese” della Divinità in una forma fisica e a ogni epoca; sono futuri Buddha pronti, alla soglia della Luce Intelligibile, a rinunziare alla beatitudine della liberazione immediata e a tornare più volte come salvatori e maestri nel mondo delle sofferenze e del tempo e del male, finché ogni essere senziente sia stato liberato nell’eternità.

Conoscenza di sé. Il progresso spirituale si dà attraverso la conoscenza sempre maggiore di se stessi come un nulla e della Divinità come Realtà onnicomprensiva. Per essere efficace deve essere realizzata come un’esperienza immediata, intuitiva. – Tre elementi formano il nucleo della personalità individualizzata: paura, preoccupazione, angoscia. Non ci si può liberare dalla paura con uno sforzo personale, ma solo con l’assorbimento dell’ego in una causa più grande dei suoi interessi. L’assorbimento in una causa qualsiasi libererà la mente da alcuni dei suoi terrori; ma solo l’assorbimento nell’amore e nella conoscenza del divino Fondamento può liberar da ogni paura.

Libero arbitrio. La hybris, che è il peccato originale, consiste nel considerare l’ego personale autosufficiente in rapporto allo Spirito interiore e alla Natura esteriore.

Il bene e il male. Dice William Law: “La cupidigia, l’invidia, la superbia e l’ira sono i quattro elementi dell’io, o della natura, o dell’inferno, tutti quanti inseparabili da esso, sono precisamente l’io e l’inferno. Queste quattro proprietà generano il loro stesso tormento. Esse non hanno causa esteriore né alcun potere interiore di modificarsi. E pertanto ogni io singolo o natura deve essere in questo stato finché qualche bene soprannaturale non viene a esso o non nasce in esso.

La preghiera. La parola preghiera si riferisce ad almeno quattro procedimenti distinti: petizione, intercessione, adorazione, contemplazione. La contemplazione è quella condizione di vigile passività in cui l’anima si schiude al divino Fondamento all’interno e all’esterno, alla Divinità immanente e trascendente. La contemplazione è uno stato di unione di tutto l’essere con il divino Fondamento. L’adorazione è un’attività della singola persona, amante ma pur sempre separata. La preghiera più alta è la più passiva. È inevitabile, poiché quanto meno vi è dell’io tanto più vi è di Dio. Si deve morire alla vita dei sensi come fine in se stessa, alla vita del pensiero e della credenza personale e alla vita della volontà individualizzata e separata, fonte profonda di ogni ignoranza e di ogni male.

Contemplazione. Per la Filosofia Perenne il fine della vita umana è la contemplazione ossia la consapevolezza diretta e intuitiva di Dio e l’azione è il mezzo verso quel fine. Per la filosofia popolare della nostra epoca il fine della vita umana è l’azione e il mezzo per quel fine è la contemplazione, soprattutto nelle sue forme inferiori di pensiero discorsivo. Solo colo che praticano coerentemente le Quattro Nobili Virtù (rispondere all’odio con l’amore, rassegnazione, “santa indifferenza” o assenza di desideri, obbedienza alla Natura delle Cose) possono sperare di giungere alla consapevolezza liberatrice del fatto che saṃsāra (il tempo) e nirvāṇa (l’eternità) sono una cosa sola. Tre sono le vie principali di liberazione: la Via delle Opere, della Devozione e della Conoscenza. Se le vie della devozione e delle opere portano alla liberazione, è solo perché introducono alla Via della Conoscenza. La liberazione totale si dà, infatti, solo attraverso la conoscenza unitiva. Ripetitività. La terza proposizione del Pater Noster viene ripetuta ogni giorno da migliaia di perone che non hanno la minima intenzione di permettere che sia fatta una qualsiasi volontà che non sia la loro. – Da Augustine Baker: “La preghiera è l’azione più perfetta e divina di cui sia capace un’anima razionale”.

Mie personali considerazioni dopo la lettura del libro

Aldous Huxley, scrittore inglese, in seno alla propria produzione saggistica annovera il lavoro dal titolo La Filosofia Perenne (Adelphi Editore SPA – Milano 1995) la lettura del quale apre a nuove suggestive analisi del concetto di Chiesa cattolica su cui mi pare istruttivo fermarmi in atteggiamento critico. Ecco dunque le mie personali considerazioni

Ho trovato una serie di indizi positivi e negativi secondo il mio punto di vista, e che, ovviamente, condivido o tengo in sospeso, anche per il fascino che esercitano sulla mia voglia di sapere.

Il primo riguarda la postulazione dell’esistenza di una Realtà divina consustanziale al mondo reale, alle vite e alle menti, per cui si presenta il fine ultimo dell’uomo nella conoscenza unitiva del Fondamento immanente e trascendente per l’intero Universo. La conoscenza della Realtà, tuttavia, sorge soltanto qualora si abbandonino le vie del mondo, della carne, della tradizione (persino i riti religiosi e le lettere delle scritture). Del divino Fondamento non si può dare una definizione, ma Esso può essere direttamente sperimentato e compreso da parte dell’essere umano. Non conosciamo Dio, ma ci resta la possibilità di anelare a Lui, di credere in Lui come la Mente originaria di tutto ciò che c’è e della sua complessità in termini di perfezione e finalità. È bello e vitale decidere di pensare a Lui con amore, come anche nella definizione che ne viene data di “Luce del Vuoto” (Buddhismo Mahāyāna).

Dio deve essere amato per se stesso, e così le persone e le cose del mondo devono essere amate per amor di Dio. È tuttavia indubitabile che possiamo amare soltanto ciò che conosciamo, e qui il cerchio sembra chiudersi perché torniamo al punto precedente, quello che ha a che fare con la conoscenza del Fondamento ossia di Dio. E deve trattarsi di una conoscenza del tutto intuitiva, dove il razionale va a occupare un posto di secondaria o addirittura nulla importanza. La forma più alta d’amore per Dio è, infatti, un atto di intuizione spirituale immediato che porta a essere una cosa sola fra il conoscente, il conosciuto e la conoscenza. Per raggiungere la consapevolezza liberatrice del fatto che il tempo e l’eternità sono una cosa sola è necessario praticare con coerenza quattro virtù nobili, che sono: dare amore anche se si riceve odio, accettare la rassegnazione, disporsi a una “santa indifferenza” o assenza di desideri, ubbidire alla Natura delle Cose. A questo scopo si devono percorrere tre vie nella stessa direzione: le opere, la devozione, la conoscenza. La liberazione totale si raggiunge soltanto attraverso la conoscenza unitiva. Questo mi pare possa considerarsi il passo più difficile, fattibile soltanto da persone estremamente pure di spirito e del tutto avulse dalle attrazioni del mondo.

Amare Dio è sinonimo di carità, la virtù che si acquisisce attraverso tre forme di atteggiamento: il disinteresse, la tranquillità e l’umiltà. È forse quest’ultima la più difficile ad accettarsi, in un mondo che va avanti a spallate e ad atti di prepotenza, che spinge a reagire ogni volta che ci sentiamo offesi o vilipesi. Esisterebbero due vie che possono aiutare alla conquista dell’umiltà: la prima è la contemplazione del profondo abisso da cui la mano di Dio ci ha tratto e sul quale ci tiene quotidianamente sospesi; la seconda è la presenza di Dio stesso. Anche qui incontro forti difficoltà a concettualizzare questi passaggi. Prima di tutto quello che riguarda la conquista dell’umiltà quando siamo immersi in un contesto sociale che ci consente di sopravvivere e andare oltre soltanto impegnando al massimo la lotta e la forza d’animo. Umiltà può significare, d’altra parte, rinunciare a lottare e abituarci alla sottomissione, cosa inconcepibile ed estremamente autolesiva di fronte alle richieste della società odierna. In secondo luogo si parla di amare Dio e, come già detto, non si può amare chi o che cosa non si conosce, se non nel puro immaginario mediante la costruzione mentale di una Entità o di una sua controfigura che trascenda ogni cosa. Infine si dovrebbe avere la capacità di contemplare quel profondo abisso che viene annoverato, un po’ come se tutti ne fossero a conoscenza, ma che risiede soltanto nelle lettere di un enunciato verbale. Se non si fugge dalla realtà presente per raggiungere quel declamato e incomprensibile stato di contemplazione non si arriverà a impadronirsi dell’umiltà né a praticare la carità: soltanto i santi potrebbero arrivare a tanto. Per l’uomo comune ossia non santo il primo passo dovrebbe essere quello di vincere la tentazione di assoggettarsi al culto idolatrico delle cose del mondo che porta nella direzione opposta a quella della carità. Per culto idolatrico si intende il culto rivolto alla Chiesa, allo Stato, il culto rivoluzionario sospinto al futuro e il culto dell’autoadorazione umanistica.

Immagine di copertina tratta da <a href="http://<a href="https://www.vecteezy.com/free-photos">Free Stock photos by VecteezyVecteezy

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