Riflessioni sui lavori dei seminari
Mario Bruno – Ottobre 2005
Il XXI secolo segna l’avvento della società della conoscenza. Il mondo in cui viviamo implica la capacità di affrontare con successo problemi, attività e compiti complessi. Occorre orientare i sistemi di apprendimento, oltre che sulle conoscenze di per se stesse, anche sull’ampio ventaglio delle competenze metacognitive, ossia di riflessione critica, di consapevolezza, di conoscenza e gestione dei propri processi di pensiero.

La qualità dell’istruzione, in qualsiasi realtà sociale, è il precipitato di una serie di fattori: le risorse investite, la qualità professionale degli insegnanti, i metodi didattici utilizzati, l’adeguatezza dei curricoli, il contesto in genere. I risultati dell’apprendimento sono un campo di indagine dell’Organizzazione OCSE/PISA (OCSE = Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico; PISA = Programme for International Student Assessment) la quale verifica in quale misura la Scuola prepari i giovani per la vita.
L’indagine dell’anno 2000 interessò 265 mila studenti in 32 Paesi di quattro Continenti, e le loro capacità di utilizzare conoscenze e abilità apprese a scuola per affrontare il tipo di compiti e di problemi che si incontrano nella vita reale.
Al fine di garantire un’alta qualità dell’istruzione è necessaria la compresenza di (dal Rapporto Excellence – UK – Londra, 1997): un dirigente scolastico all’altezza della situazione e capace di imprimere impulso, uno staff motivato, famiglie coinvolte e interessate, studenti con alte aspirazioni, una buona qualità dell’insegnamento, un ambiente teso al miglioramento dei risultati.
Ciò che non si dice o è appena accennato |
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Dalle analisi estese alle Scuole di vari Paesi dell’OCSE si deduce che un aumento di investimenti finanziari non sempre è accompagnato da un incremento nei risultati scolastici. La Corea, per portare un esempio evidente, detiene un prodotto interno lordo inferiore del 30% rispetto alla media riscontrata nell’Organizzazione, ma possiede studenti che si classificano fra i migliori. Del tutto specularmene opposte stanno le cose in Italia. La questione risiede nella struttura stessa del sistema scolastico che non è stato dotato di un piano efficace di riconoscimento e di incentivazione. I livelli stipendiali, rigidi e uniformi, pongono il personale sullo stesso piano. Non c’è possibilità di differenziare i trattamenti economici in misura della capacità di raggiungere risultati ragguardevoli. L’unica attrattiva per un aumento della retribuzione è l’anzianità di servizio, fattore che progredisce in netto contrasto con la rivalutazione del merito personale. Il riconoscimento dei meriti si avvale esclusivamente delle risorse finanziarie aggiuntive al bilancio di Istituto, cioè di quelle che vanno a far parte del fondo dell’Istituzione scolastica e che riguardano le funzioni strumentali – incarichi specifici. Queste due forme di incentivazione non sono gestite in totale decisionalità dal dirigente scolastico che è il soggetto più informato e competente per valutare il peso dei meriti personali attribuibili ai lavoratori dipendenti. Inoltre subentrano le Organizzazioni sindacali e le RSU interne di Istituto. Con l’intervento delle Organizzazioni sindacali prendono corpo risvolti politici nel farsi delle contrattazioni, in quanto le OO.SS. hanno tutto l’interesse ad accattivarsi i favori di determinate categorie di lavoratori, con lo scopo principale di rimpinguare le proprie liste di iscritti. Con l’insediamento delle RSU interne di Istituto si assiste, spesso, al sorgere di conflittualità che si vanno ad impantanare su pretesti, anche assurdi, di vantaggio personale e su rivalse che nulla hanno a che vedere con il buon funzionamento dell’Istituzione, ma che, al contrario, favoriscono il formarsi di posizioni faziose e rivendicative che, con tutto il seguito di malumori, vanno a scapito del servizio scolastico. Quanto sopra si avvera soprattutto all’interno di determinate categorie di lavoratori. Un esempio: il Dirigente scolastico chiede a due operatori prestazioni di servizio in sede staccata della scuola, per soccorrere al lavoro urgente di ripristino e di pulizia a seguito di interventi edili strutturali sul complesso dell’edificio scolastico. Uno degli operatori rifiuta di accettare l’incarico e, subito dopo, se ne va a casa adducendo un acuto attacco di ansia. Il secondo operatore accetta, non senza rimostranze; pochi minuti dopo aver preso servizio nella sede staccata, telefona in ufficio comunicando che andrà a casa perché si sente male. C’è un terzo operatore, dotato di iniziativa, serietà, buona volontà, senso del dovere, che accetta di buon grado la richiesta di lavoro supplementare, cosa che si è verificata anche nei casi – più di uno nel corso dell’anno scolastico – in cui un operatore con forti inclinazioni rivendicative si mette in malattia per alcuni giorni, immediatamente seguito, nella medesima determinazione, da altri tre colleghi, con tutto il seguito di disagio nel mettere a punto la contingenza foriera di disorganizzazione. Il Dirigente scolastico, dunque, valuta che una parte più consistente del fondo di Istituto debba essere accantonata per premiare l’operatore diligente e volenteroso, al quale non ha neppure bisogno di richiedere la presenza là dove si sono create situazioni critiche di assenza dal servizio. No! Interviene qualcuno, all’interno delle RSU, e la valutazione del Dirigente scolastico va in briciole; la RSU propone e decide di distribuire gli incentivi “a pioggia”. Domanda: a che cosa servono gli incentivi in quest’ottica della distribuzione delle risorse finanziarie? Dove va a finire la discrezionalità decisionale del Dirigente scolastico, la sua autonomia in una parola, nell’atto di valutare i meriti individuali dei lavoratori? Quanto ancora potranno resistere l’entusiasmo, la volontà, la fiducia dei lavoratori seri? Si accontenteranno ancora a lungo, costoro, di essere incentivati soltanto con la simpatia del datore di lavoro e con le sue belle parole di lode e di incoraggiamento? |
Ciò che non si vorrebbe dire |
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O che si tiene in disparte, facendo finta di nulla, o che si accenna soltanto velatamente e in sordina, limitandosi a riportare le responsabilità delle male sorti che affliggono la scuola, in modo tanto vago quanto superficiale, al contesto globale del mondo così come sta camminando. Si dice che un insegnante su tre va in pensione nel giro di un decennio. A ben vedere, parlando con coloro che lavorano a contatto con gli studenti, è ben facile raccogliere un senso diffuso di delusione, di affaticamento, di impotenza a fronte dei gravi problemi che si presentano sempre più di frequente, di caduta motivazionale, sensazioni sorprendentemente bilanciate dal senso del dovere sempre presente. Perché questo abbattimento di entusiasmo nel protrarsi del tempo, nel corso dello svolgimento di carriera? Sappiamo che molti sono i motivi di cui si parla, il trattamento economico per esempio, ma non sempre vogliamo addentrarci nei meandri possibili dei motivi che spesso si lasciano a lato. Se ne parla, cioè, in ambito ristretto, fra docenti, ma di rado ci si spinge più in là, perché la cosa finirebbe per coinvolgere atteggiamenti e interessi comportamentali con grosso pericolo per il mantenimento del quieto vivere. In realtà, poi, si sa di innumerevoli circostanze, estranee all’ambito scolastico, che intervengono tuttavia all’interno della vita della scuola come elementi perturbatori e svianti del normale corso delle attività di insegnamento/apprendimento. Sono, questi, problemi di una portata effettiva ai fini della buona riuscita negli studi? Vediamo alcuni accenni in proposito. Pare stia diventando sempre più difficile il semplice “fare scuola” per la presenza di alunni indisciplinati, ribelli, rifiutanti, violenti dai quali spesso provengono minacce, vendette, danni a cose o persone, anche in forma di intimidazione e di ricatto. Da quanti insegnanti si sente affermare che sono costretti a impiegare più dell’ottanta per cento del loro tempo in classe per mantenere la disciplina e un minimo di clima adeguato a svolgere le lezioni le quali, se tutto va bene, arrivano appena a fruire del restante venti per cento del tempo orario! Poi c’è il professore che scrive una comunicazione, la famigerata “nota”, ai genitori di un alunno a motivo del suo comportamento inaccettabile o delle sue reiterate negligenze nell’assolvimento dei doveri scolastici; con l’effetto, unico e indesiderabile, che l’indomani sopraggiungono a scuola i genitori della vittima i quali non si peritano di aggredire il professore aguzzino: “Come si permette lei di mettere una nota a mio figlio?!”. Poi c’è tutta la casistica dei genitori iperprotettivi e non collaborativi, rifiutanti a loro volta, quando non autori di dileggio nei confronti dell’Istituzione, con tutto il seguito di figli viziati, perennemente super-assolti, assolutamente demotivati e privi di fiducia in se stessi. Figli maltrattati? No, a vedere da quanto viene dato loro; hanno di tutto, ma mancano dell’essenziale. Non sono maltrattati, se si vuole si può usare il termine, più appropriato, di “fuortrattati” ovvero trattati fuori di ogni misura di buon senso, elargiti di ogni cura capace di soddisfare il narcisismo primario, quello dell’ “avere” anziché dell’“essere”. Oggi la maggior parte dei bambini, dei ragazzi fa a gara per essere “come” gli altri, per “avere” le novità che hanno visto in mano agli altri; loro prima preoccupazione è quella di non apparire meno degli altri; la seconda è quella di superarli, non in bravura nello studio – privilegio concesso a pochi eletti! – ma nel sorpassarli dimostrando di avere il capo di abbigliamento più alla moda, firmato o niente, la foggia della capigliatura conciata in modo da credere di suscitare invidia, il telefonino, il gioco, gli accessori più all’avanguardia, più reclamizzati e più superflui. Sono ragazzi che reggono sulle proprie spalle un castello di carta fornito di una montagna di cose inutili se non dannose, ragazzi paurosamente vuoti dentro, privi di riferimenti solidi e duraturi. |
“Bambini/problema” o “I problemi dei bambini”? |
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Studenti che non sanno più ragionare, che non vogliono ragionare, che sono demotivati, rinunciatari senza riserve, che hanno smarrito dal loro vocabolario termini come sforzo, fatica, rinuncia, perseverazione, sacrificio, ma anche come orgoglio, ambizione, amor proprio, desiderio di conquista culturale. Per fortuna non tutti, sarebbe un disastro! Ma il fenomeno di anno in anno va prendendo spazio, in modo seriamente preoccupante. Gli esiti scolastici nei giovani lo stanno a dimostrare. E, quand’anche gli esiti scolastici lascino intravedere una definizione non proprio scoraggiante su base statistica, ci pensa comunque il livello reale di cultura e di pensiero a fare infine cattiva mostra di sé. All’interno dell’ambiente scolastico, come pare constatare, si va parlando con sempre maggiore insistenza di un declino dell’impegno osservato da lungo tempo ormai in una fascia sempre crescente di popolazione scolastica. Mi riferisco, più concretamente, al fattore “energia individuale” che ogni singolo studente metterebbe a disposizione nella ricerca di progresso lungo il percorso culturale che la scuola prevede e organizza sulla scorta dei Programmi didattici, delle Indicazioni nazionali e del Profilo che dovrà assumere in sé fisionomia definita al termine del primo ciclo di istruzione. Un complesso di atteggiamenti nel quale convergono la volontà, la determinazione, la chiarezza d’intenti, la fiducia nel sistema educativo in genere, la ricerca del significato, l’ambizione personale per la formazione di una mentalità critica e aperta, ma anche il superamento dei traguardi raggiunti per puntare a mete di realizzazione culturale più gratificanti: è la grande assenza che pare vada affermandosi con una progressione costante fra i giovani. Più che mai, oggi, si fa urgente volgere gli sforzi verso la creazione di itinerari interattivi capaci di favorire una presa di coscienza di validi motivi sia culturali sia socio-esistenziali sia etico-morali per approdare a una consapevolezza, all’indirizzo di tutti e di ciascun alunno, del proprio essere e del proprio ruolo in una prospettiva di incremento per quanto possibile ottimistica verso la realizzazione e la stabilizzazione di una realtà aperta alla convivenza, alla collaborazione, al rispetto reciproco. Ancora una considerazione che tocca da vicino chi nella scuola lavora a contatto diretto con gli studenti: quella che può essere tradotta nel dualismo ossimorico sempre presente “onnipotenza/impotenza” della Scuola. I nostri Programmi/Indicazioni nazionali sono ottimi nell’enunciato, ambiziosi negli obiettivi e nei contenuti. L’istituzione Scuola pare godere di una autorevolezza che consente a tutti gli effetti di svolgere il ruolo educativo-formativo e di alfabetizzazione che le è assegnato. È doveroso, è necessario perseguire i grandi obiettivi, portare a realizzazione e a forme di concretezza fruibile le grandi finalità: formazione dell’uomo e del cittadino, alfabetizzazione culturale, sviluppo armonico e integrale della personalità; punti di arrivo che in alcuni casi, ultimamente in sensibile crescita, restano, almeno per alcuni aspetti, pure utopie. L’insegnante si guarda intorno, guarda se stesso, scruta dentro se stesso e incontra l’ansia della risposta non trovata: faccio del mio meglio e il riscontro che riesco ad ottenere è un comportamento deludente sul piano dell’affermazione culturale. Poi i fatti gli spiegano, a poco a poco, che la responsabilità di questo insieme di defezioni non è neppure interamente ascrivibile agli alunni che gli sono stati affidati. Si chiede ancora perché e che cosa stia succedendo che egli non riesca a comprendere. Poi, ancora, qualche informazione di taglio sociologico gli svela una realtà calcificata e amara, epilogo delle dinamiche incorse da un paio di generazioni in qua: il crescente benessere economico, la disponibilità materiale di acquisto, la crescente tecnologia dei consumi e delle comodità, quando non dell’illusorio e del superfluo, ma anche un pericoloso allentamento di un certo rigore morale passato di moda e rimpiazzato da più comode impostazioni permissiviste, tolleranti o impaniate addirittura nell’assuefazione al degrado, hanno indotto un modo di pensare profondamente mutato e hanno dato vita ad atteggiamenti inattesi nei confronti di una realtà in rapida trasformazione. Da una parte genitori poco oculati e piuttosto distratti che, per non incappare in inusitati sensi di colpa agli occhi della società, danno tutto il possibile ai propri figli, non fanno loro mancare alcunché, spianano loro la strada e abbattono ogni benché minimo ostacolo; genitori che, talvolta, concedono anche il troppo e il non necessario ai propri figli, pur di essere lasciati in pace a godere delle opportunità che la vita è ancora in grado di offrire loro; genitori, ancora, ambiziosi ed esigenti oppure incapaci e sprovveduti, latitanti di fronte alle proprie responsabilità ma sempre pronti nel delegare alle strutture sociali ciò che essi non sanno fare o, peggio, l’oneroso compito di porre tardivamente riparo ai danni spesso pesanti arrecati a un promettente sviluppo personale dei figli già dalle prime fasi dell’esistenza. Dall’altra bambini avvezzi alla logica del “carpe diem”, male equipaggiati nel far fronte ai grandi temi attinenti alla vivibilità sociale, alla cooperazione, alla creazione del proprio futuro; bambini che crescono per lo più disorientati, privi di saldi punti di riferimento, ignari, accecati da un falso ottimismo di facciata e a loro volta irresponsabili, incapaci di produrre quella minima quantità di sforzo e di fatica che la conquista dell’esistenza richiede loro; bambini abituati ad avere sempre ragione, disinvestiti da qualsiasi senso di colpa o di vergogna, liberati da inibizioni, pronti nell’avanzare pretese e facili alla perdita del rispetto umano fondamentale; figli, infine, sempre più soli e incompresi, avidi di risposte che rincorrono senza potersene impadronire. Non è una bella considerazione quella appena delineata, e nemmeno molto coerente con quanto le altisonanti declamazioni profuse dalla politica dell’istruzione vanno ribadendo, se vogliamo. Ma non possiamo nasconderci dietro un dito quando vediamo molto chiaramente che il compito della Scuola, in questa panoramica, assume connotazioni sempre più vicarianti e mirate al recupero di qualcosa che, in molti casi, ha smarrito le occasioni per affermarsi in veste di struttura di personalità. |
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