Riflessioni sui lavori dei seminari
Mario Bruno – Ottobre 2005
Non solo scuola |
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Si parla tanto di Scuola, ma quale peso di responsabilità si suole dare alle famiglie degli alunni che a scuola proprio “non vanno bene”? Che cosa si può dire di quelle famiglie che si disinteressano, coprono all’eccesso, giustificano tutto e sempre, si autocompiangono, che non rispondono alle sollecitazioni e agli inviti della scuola, che vorrebbero essere loro a insegnare ai docenti come s’ha da fare con gli scolari? All’interno della rubrica “Prima pagina” di Radio Rai 3 dell’otto settembre 2005 si sentì riferire, da un articolo del giorno apparso su un quotidiano, che le famiglie non insegnano più o non insegnano con la stessa intensità di prima; non si redarguisce un bambino perché getta la carta a terra, non gli si spiegano i motivi per cui si devono pagare le tasse. Allora queste cose finisce che le deve fare la scuola: la delega all’infinito. Ma c’è di più: c’è che, in questo modo, si va creando quel “doppio legame” che le scienze psichiatriche individuano come uno dei primi responsabili del disorientamento psico-affettivo e, per eccesso, del rischio di dissociazione mentale. Già, il mondo è cambiato, si sente dire. Ce ne accorgiamo tutti, anche quelli di una certa età che vedono “uscire” di casa il sabato sera i giovani alle ventitre, quando, ai loro tempi, quella era l’ora in cui si andava a letto o già si stava dormendo. I tempi sono cambiati… troppo in fretta, e con conseguenze troppo caotiche. Di doppi legami, ai giorni nostri, ne abbiamo così tanti da poterne fare un’indigestione. Chi ne porta il peso sono i bambini: non c’è quasi più coerenza d’intenti; di qua si interviene per vicariare ciò che di là si rinuncia a fare e da questa confusione va ad ingenerarsi una diffusa trascuratezza per quella che dovrebbe essere un’educazione sana e genuina. Il bambino, preso in questo vortice, si sente strappare da due forze opposte, quindi si disorienta, si smarrisce, finisce per disconoscersi nel proprio intimo vissuto e nei rapporti inter-relazionali. E che dire, allora, delle “licenze” accordate ai figli? Il parlare sboccato, la mancanza di rispetto verso gli altri, lo spirito fuori luogo, la facile trasgressività sono legittimati, spesso, con bonario sorriso e con sottaciuta condiscendenza da parte di certi adulti. Un tempo erano i bambini a “non osare”; ora pare siano gli adulti a non osare contravvenire ai desideri più o meno imperiosi dei bambini. Di più, se desideri non vengono palesati, sono gli stessi adulti che si fanno premura nel creare bisogni indotti, spinti da subdoli richiami propagandistici che ricorrono ai mezzi più estrosi, da inflessioni di voce sdolcinate, mielate, vellutate, “da sirena” a cascate di parole concitate all’esasperazione, all’imbecillità più assoluta pur di indurre efficaci condizionamenti nella psiche del popolo. E che dire, in aggiunta, del tasso di libertà concesso a ragazzi di dodici-quattordici anni che, per una festa di compleanno, si fermano in casa del festeggiato sino a tarda notte, facendo un chiasso infernale, fumando e consumando come se nulla fosse una paurosa quantità di alcolici, dedicandosi a giochi pericolosi, fisicamente pericolosi, in assenza degli adulti perché questi, nel rispetto della libertà e della “privacy” dei loro figli, hanno pensato bene di intrattenersi in casa di amici e di lasciare, colpevoli e latitanti, la propria abitazione a completa disposizione dei riti di festeggiamento? Che cosa dobbiamo dire, ancora, sotto un più vasto punto di vista sociale, di quelle famiglie che, per una miseria di reddito, vivono in un vero e proprio stato di povertà, con il problema di mantenere i propri figli a scuola, a fronte di quelle altre che fanno dello sperpero il loro motivo di vita? Che cosa spiega agli studenti la Scuola qualora si presenti in classe la contraddizione discendente dall’analisi dei redditi stipendiali, redditi che, in un Paese civilissimo e industrializzato come il nostro, si dispongono su una scala che rappresenta rapporti di valore da uno a trenta, a cinquanta e oltre? L’affrettata analisi sin qui condotta non sta certo a significare che la nostra società sia prossima allo sfacelo; sta, piuttosto, a indicare che è lo stesso tessuto sociale a indebolirsi, perché perde maglie, lascia aprirsi sfaldamenti. Il fenomeno interessa, per buona sorte, la parte minore di questo tessuto, ma la tendenza è per un dilagamento piuttosto rapido, a vedere da come stanno andando le cose. La parte più consistente della società, che coltiva senza dubbio ambizioni sane, deve muoversi con decisione, scrollandosi finalmente dalle spalle quel brutto vezzo del “far finta” che, con persino troppa disinvoltura, finisce sempre con lo sfociare nella sorda affermazione “Ma sì, andiamo avanti, va bene così!”. No, non va bene. E allora partiamo dalle radici dei mali sociali, ammesso che riusciamo a isolarli. Iniziamo a recuperare la famiglia ai valori educativi: è un imperativo che la Scuola stessa non può ignorare. La scuola, ancora la scuola. Certo, nulla è più facile che delegare alla scuola tutto ciò in cui la società in generale, e le famiglie in particolare, hanno fallito. Se andassimo a individuare tutti gli ingranaggi che non funzionano nella colossale struttura sociale, e che – ultima speme – vengono affidati alla scuola perché ne curi il recupero e il ripristino, avremmo da compilare un elenco lungo assai. Alla scuola si affida l’educazione di casi personali che non di rado sono stati valutati gravissimi e di improbabile recupero. Sono pochi, sarebbe la fine del mondo se fossero la maggioranza, ma carichi di tale e tanta problematicità da indurre un vero impedimento, comunque la si pensi, non solo per il lavoro dell’insegnante, ma anche – e qui la cosa si fa anche più grave – per il rispetto dovuto al diritto allo studio di tutti gli altri studenti della classe. Si dice, a buona ragione, che esistono alcuni fattori capaci di influenzare le prestazioni degli studenti, e questi fattori risiederebbero nel clima disciplinare che si riesce a stabilire all’interno della classe, nella capacità che l’insegnante possiede di influire sul clima stesso della classe e di dargli forma, nel rapporto che si stabilisce fra insegnanti e studenti e nella qualità dell’infrastruttura scolastica. Sono tutte belle parole, declamazioni di valore, nessuno lo può negare, ma, se vogliamo andare veramente a fondo della problematica generale, non possiamo certamente fare a meno di accorgerci che ciascuna di queste parole apre un capitolo e dà luogo a un discorso molto ampio, articolato e aperto all’approfondimento. Pur tuttavia il dito viene puntato con vigore vincente sul “pianeta Scuola”. Dunque, per un breve riepilogo proverò a mettere insieme una tassonomia di ciò che occorre fare perché i nostri figli diventino cittadini responsabili: contrastare radicalmente la violenza, innanzitutto; poi incrementare gli atteggiamenti positivi: la motivazione, l’impegno, la curiosità culturale, l’interesse, la partecipazione, il senso del dovere, dello sforzo, dell’abnegazione, del differimento e della rinuncia quando occorra, una sana ambizione a superare e a migliorare se stessi, la possibilità di dare un senso a ciò che si va facendo, di scoprire significati; la trasmissione di una cultura dei valori; ultimo, ma non meno importante, la fiducia: nel proprio futuro, degli alunni negli insegnanti, degli insegnanti nella scuola, delle famiglie negli insegnanti e nella scuola. Sono obiettivi veramente ambizioni, ma si possono realizzare, a patto che a lavorare insieme si trovino insegnanti competenti e famiglie educativamente adeguate. |

Due esempi di microanalisi |
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Il primo è tratto da un comunicato del Giornale Radio 1, diffuso alle ore otto del ventidue settembre 2005. Si parlava, in argomento di inizio dell’anno scolastico, di bambini stanchi e affaticati oltre misura a scuola, bambini che hanno il consenso dei genitori di vegliare, la sera, sino a tardi, per assistere a programmi televisivi, forse anche ad alcuni fra quelli non proprio raccomandabili per ragazzini di quell’età, per bruciare tempo nel giocare con le play-stations e con lo scambio di sms; bambini che, stando alle statistiche, dormirebbero da un’ora a un’ora e mezzo in meno del necessario. Poi, il mattino successivo, dormono a scuola, nel senso che sonnecchiano colti da stanchezza e da torpore intellettuale. Il secondo esempio. La RAI/TV3 diffondeva, il quindici settembre 2005, verso le ore 23,30 – quando proprio nessuno o quasi nessuno si ferma ancora di fronte allo schermo televisivo – il conosciuto programma “DOC.3” che, in quell’occasione, portava il titolo “A scuola”, presentato dall’agenzia “Fandango” in collaborazione con “Les Films d’Ici”, “VOI Sénart”, “I.N.A.”, “ARTE France”, scritto e diretto da Leonardo Di Costanzo. Siamo alla periferia di Napoli, presso la Scuola Secondaria di primo grado “Cortese”, La panoramica che si dispiega all’occhio della telecamera è, a dir poco, impressionante per i non addetti, ma, per chi vive e lavora nella scuola, nulla dice che non sia stato già sperimentato. Vediamo di farne un breve riassunto. La Scuola in questione si presenta, da subito, come un luogo dove albergano conflittualità acute che prendono tosto le sembianze di uno scontro verificatosi tra la legge del quartiere, i comportamenti che ne discendono e l’uso incorreggibile del dialetto locale nei rapporti degli alunni con i professori da una parte e, dall’altra, la necessità istituzionale di garantire sia il rispetto delle regole attinenti al senso di cittadinanza sia l’uso della lingua nazionale nei rapporti comunicativi in scuola. La Scuola di cui sto parlando aveva, in precedenza, abolito l’applicazione della sanzione disciplinare dell’allontanamento temporaneo dalle attività didattiche degli alunni responsabili di comportamenti gravemente negativi. La pena era stata abolita in osservanza del diritto all’istruzione, uguale per tutti, dal quale deriva il dovere, per la Scuola, di insegnare a tutti. Una prima impressione di impotenza da parte della Scuola a gestire una situazione divenuta ormai pesante deriva dall’atteggiamento di alcuni genitori, dal quale trapelano apatia, noncuranza, disappunto e delega. È chiaro fin da qui che, quando c’è accordo fra scuola e famiglie, l’operato della prima procede su un ponte dalle solide fondamenta; in caso contrario viaggia su un ponte sospeso di giunco, sottoposto alle bizzarrie del vento e alla instabilità dei sistemi di ancoraggio. Il D.s. (dirigente scolastico) convoca Y, un ragazzo ripetente, segnalato dai professori per il suo comportamento negligente e di disturbo in classe. Alla domanda rivoltagli dal D.s. “Cosa vorresti che la scuola non ti dà?”, Y non sa trovare una risposta. È chiaro, non è a lui che va rivolta una simile interrogazione, ma al sistema scolastico stesso e a quegli altri fattori di impronta familiare di cui s’è detto. Il D.s. convoca la madre di Y, le illustra la situazione, ma la madre, dopo aver ben ascoltato, non sa fare altro che proferire queste parole: “Fossero tutti questi i problemi… Più di dirvi di dargli addosso non posso fare!”. Ma si verificano anche atti di violenza, con tanto di botte scambiate fra compagni di classe. Il D.s., di fronte ai docenti riuniti, parla di falle, di concessioni elargite, magari occasionalmente per una volta agli alunni dietro loro pressanti insistenze, ma che poi finiscono per giungere a far parte di una prassi stabile: “I ragazzi si sono accorti che potevano fare sempre di più… Rispetto ai problemi ognuno di voi li affrontava in modo diverso e quindi magari si sono anche divertiti a provocarci… sentono la mancanza della norma… hanno capito che in una situazione senza legge chi vince sono loro, e voi andate allo stremo… hanno capito che ci sono delle falle, hanno capito che non avete comportamenti omogenei rispetto ai problemi, tutti quanti e quindi lì vanno a colpire, dove trovano i buchi… A che serve quello che facciamo, ma ve lo chiedete? Per capire il mondo, la realtà, per capire i rapporti fra le persone? Per capire il rispetto della norma? Come contribuisco io con la mia disciplina?… Ripristinate la sospensione… perché non c’è il rispetto delle regole. Poche regole, che siano dieci regole, ma che si osservino, con chiarezza!”. Il filmato termina con la chiusura dell’anno scolastico e l’esposizione degli elenchi degli ammessi e dei non ammessi a cui seguono commenti, esultazioni, recriminazioni da parte degli studenti, non senza un atto inconsulto perpetrato alla presenza del D.s.: alcuni studenti stracciano dalla parete gli elenchi, buttandoli a terra, poi tornano a strapparli dalle mani dell’operatore scolastico che li ha appena raccattati. |
Chi, che cosa, come valutare? |
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C’è da riflettere anche su che cosa si vuole intendere per “valutare”. Un alunno rende o non rende, in scuola, in risposta al concorso di un’ampia serie di fattori. Primo fra tutti: l’impegno. Ma anche l’impegno è sotteso da elementi intervenienti che spesso sfuggono al controllo. La politica scolastica ha di fronte a sé un compito di complessità non indifferente nel momento in cui si richiede di valutare i singoli alunni. Perché si tratta di addivenire a una condivisione di criteri da adottare affinché possa essere realizzata una valutazione il più possibile rispondente al merito personale degli studenti. Valutare con serietà e obiettività gli esiti delle prove individuali va bene, ma di per sé non è sufficiente perché si possa esprimere un giudizio di valore. Ciò che si riveste di importanza maggiore è la determinazione dei miglioramenti fatti registrare da ogni alunno nei confronti di se stesso, detto in altre parole, il valore aggiunto o, in termini statistici, il tasso di incremento. Ma l’atto del valutare deve dispiegarsi, ancora, su due fronti: il primo riguarda l’autoanalisi, effettuata dal gruppo dei docenti, sulla coerenza, sull’efficacia, sulla comune intesa nel portare avanti il percorso educativo verso obiettivi condivisi; il secondo ritorna alla persona dello studente, ma prende in considerazione variabili di altra natura, quali possono essere lo sforzo profuso, gli ostacoli superati nel mantenere l’impegno nello studio, la presenza di impedimenti effettivi e di motivi contrastanti. Per garantire una valutazione ponderata e fedele occorre lavorare su almeno quattro parametri, ovvero sul contesto scolastico nella sua specificità e caratterizzazione, sul complesso delle risorse disponibili, sui risultati che si riesce a conseguire nella scuola e, infine, sui processi attivati per approdare agli obiettivi prefissati. Una breve analisi su quest’ultimo elemento, quello che riguarda i processi, può aiutare a gettare un po’ di chiarezza in più sul significato del fare scuola e dell’attribuire valore a ciò che si sta facendo e/o che si è fatto. Nello sforzo di analizzare i processi in atto, dunque, la procedura valutativa viene a contatto con un oggetto di studio per certi versi sfuggente, nel senso che è pressoché impossibile impostare una situazione che consenta di osservare, monitorare, attribuire un peso e un valore ai fatti, alle circostanze, ai comportamenti nel loro divenire quotidiano e nel loro progredire. Vale a dire che non si può dare un “occhio” che osservi e registri ciò che accade in classe. La stessa presenza episodica del dirigente scolastico o di personale in visita alla classe predispone, quasi per un automatismo genetico, coloro che vi lavorano ad assumere atteggiamenti particolari che non sempre e non del tutto corrispondono a quanto di genuino e di spontaneo in classe si verifica giorno dopo giorno durante le attività didattiche. Prova ne sia l’esempio che segue: Un gruppo di genitori si reca dal D.s. con una rimostranza piuttosto energica e con una richiesta parimenti recisa: “Questo professore tratta, con i nostri figli, argomenti che non sono adatti alla loro età, che hanno molto di tendenzioso e per questo possono indurre sconcerto, disorientamento, turbamento, curiosità morbose che non hanno proprio niente a che vedere con le materie che è tenuto a insegnare”. Il gruppo di genitori non rappresenta la maggioranza della classe; alcuni di questi genitori sono stati informati da altri, perché pochi fra gli alunni hanno riferito i fatti a casa: le conversazioni impostate dal professore in classe, in genere, “piacciono” ai ragazzi e questi, avvertendone l’attrattiva in quanto in esse c’è qualcosa di vagamente proibito, preferiscono non farne oggetto di confidenza in famiglia. Come valuta la situazione il D.s.? In primo luogo con l’assicurazione, data ai genitori, che si muoverà immediatamente per far luce sulla vicenda e porvi rimedio. Poi convoca il docente incriminato, ne parla con lui: la versione, anche senza sospettarlo, è diversa da quella che dei fatti era stata data dai genitori. Il D.s. rivede la programmazione educativo-didattica predisposta dal docente, controlla i piani di lavoro giornalieri: tutto a posto. Si reca in classe un paio di volte, con il pretesto di firmare il registro, e vi si sofferma per assistere alla lezione: tutto a posto, ancora. Anzi, a un certo punto il docente rappresenta con un certo disagio la propria sensazione di essere diventato oggetto di osservazione, al punto da accampare l’inalienabile diritto alla libertà di insegnamento; si sente colpevolizzato, controllato, braccato, privato dello spazio che egli stesso deve gestire nel rapporto con i propri alunni. Ed è proprio questo spazio a costituire qualcosa di inafferrabile per un osservatore esterno, in quanto luogo del tutto privato all’interno di una struttura che è pubblica per elezione. Dunque il D.s. non incontra motivazioni abbastanza evidenti per intervenire… tutto va bene così, e i genitori non sono più tornati a lamentarsi. Ma qualcosa ribolle nella testa del D.s.: che fare, impiantare un occhio di telecamera, ben nascosto alla vista e che nessuno lo venga a sapere? Ma non provateci, non pensateci neppure lontanamente, c’è un Decreto legislativo, il n° 196, che vi farebbe sbattere in galera. Già, e gli alunni? Siamo convinti che tutto vada bene così, facciamo finta di niente nel momento stesso in cui siamo consapevoli che, per alcuni di loro, in quella classe, in certe circostanze, prendono corpo atteggiamenti sedicenti educativi che potrebbero essere loro di danno? Ma no, inutile pensarci, prima di tutto c’è la garanzia, garanzia alla “privacy”, garanzia alla libertà di insegnamento, garanzia alla tutela personale sul versante della serietà professionale. E chi si azzarda a tentare di scalfire questa granitica serie di garanzie?! E, come conclusione piuttosto prevedibile del senso di quanto sopra detto, la valutazione, alla fine, deve accontentarsi di muoversi attorno alle dichiarazioni rilasciate dal personale, poggiarsi sulla fiducia dunque. Quanto spesso, con la saggezza del poi, molti responsabili di Istituti scolastici si sono avveduti di aver recepito dichiarazioni ben costruite ma poco veritiere, talvolta tendenziose in veste di autodifesa e inclini all’autoassoluzione: “… ho fatto tutto il possibile, ma…”. Le cose potrebbero andare molto meglio se, come si fa nel Regno Unito, la valutazione fosse affidata all’operato di un gruppo di persone addette ai lavori che – vedi il R.U. – si pone ad analizzare i risultati, le politiche scolastiche, i programmi e l’intero impianto organizzativo del lavoro. Non solo, ma, dedicando una bella settimana alla permanenza nella scuola, spende la maggior parte del tempo per assistere alle lezioni, osservando gli alunni intenti nel loro lavoro ed esaminando le loro produzioni. Quindi si dedica a intervistare i responsabili dell’attività educativa, gestionale e didattica. Infine crea opportuni rapporti con le famiglie degli alunni, attraverso la somministrazione di un questionario e incontri realizzati per veicolare scambi di opinioni. L’effetto completo si otterrebbe assommando, alla valutazione esterna, opportunità di autovalutazione, con la probabile diminuzione del rischio che un procedimento autovalutativo senza confronti possa scivolare verso la minimizzazione degli effetti negativi e una compresente enfatizzazione di quelli positivi, dando luogo, in questo modo, a una distorsione della situazione in atto fortemente sfuggente alla lettura della stessa. |
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