RELIGIONE – RELIGIOSITÀ (in quattro puntate)

1. Guardiamo in alto


Gli inizi. Con l’espansione dell’Universo e con l’aumento del volume si ebbe contemporaneamente un incremento dell’energia del vuoto, la così detta “energia oscura”. Si valuta che la densità del contenuto di tutto l’Universo conosciuto sia per il 70% costituita da questa energia oscura. Quando noi, desiderosi di scoprire e di sapere, spingiamo il nostro sguardo negli spazi più profondi del cosmo, dobbiamo inevitabilmente accontentarci di scrutare soltanto il 4% di ciò che si presume esserci, perché il 23% è occupato da materia oscura, pertanto invisibile, mentre il restante 73% dovrebbe essere costituito da energia oscura, qualcosa che a tutt’oggi resta ancora avvolta nel mistero. Di essa sappiamo soltanto che dovrebbe essere una forza capace di esercitare un’azione repulsiva sulla materia, in senso contrario alla gravità nella quale siamo immersi per tutta la nostra esistenza.

All’inizio eravamo così piccoli da poterci paragonare a un nulla se, appena trascorso il tempo che ci condusse all’era di Planck, cioè la frazione di un secondo diviso il numero formato da 1 seguito da 43 zeri, l’Universo intero doveva avere la dimensione appena pari a quella di un protone diviso 1 seguito da 20 zeri, per raggiungere la grandezza di una palla che sarebbe stata comodamente nel palmo di una mano dopo il tempo di un secondo diviso 1 seguito da 33 zeri. Stavamo però nel caldo, in una fornace da capogiro: qualcosa come quindici miliardi di gradi centigradi alla tenera età di un secondo del nostro Universo. Le cose andavano però pian piano normalizzandosi per noi, tanto che la temperatura, a causa dell’espansione dell’immenso ammasso cosmico, dopo 380.000 anni era scesa a 3.000/4.000 gradi. E fu proprio questo repentino abbassarsi della temperatura media a causare la rottura protratta di simmetrie in quella che era stata una bolla originaria di energia, con il conseguente avverarsi di sconvolgimenti che saranno responsabili dell’evoluzione e della futura struttura cosmica.
Si va supponendo che il cosmo deputato a ospitarci, dopo una prima gigantesca esplosione di luce, abbia attraversato un periodo di buio, come accade in certi spettacoli pirotecnici, per poi riaccendersi, forse cento milioni di anni dopo la nascita dell’Universo, in agglomerati enormi ciascuno dei quali avrebbe potuto contenere cinquecento o più masse come quella del nostro sole. Poi anche questi giganti dello spazio, superato il periodo di crescita e di attività loro attribuito, sarebbero esplosi dando luogo a un’infinità di “supernovae”. Si sarebbero dunque formati agglomerati enormi che avrebbero preso la forma di primitive galassie. Queste ultime sarebbero apparse quando l’Universo compiva appena mezzo miliardo di anni.
Da come si stava comportando, l’Universo autorizzava a congetturare che il suo muoversi potesse essere rappresentato come un evento evolutivo. In certi punti il caos andava organizzandosi in sistemi dotati di un certo ordine e governati da una certa logica matematica. I grandi ammassi trasformavano la loro mole dando origine a stelle e a complessi stellari formati da nuovi elementi fisici, gli antesignani forse delle prime molecole organiche.
Il concetto di evoluzione apre un ulteriore vastissimo capitolo nel libro che spinge il presentarsi di numerose domande. Sarebbe l’evoluzione creatrice ad attribuire ulteriore perfezione a quella complessità dell’Universo che da un insieme caotico tende a formare strutture sempre più significative. Ma quel binomio “evoluzione creatrice” si dimostra pericoloso nella forma stessa dell’enunciato, dal momento che l’attributo “creatrice” implica un soggetto creatore e il sostantivo “evoluzione” rimanda a un progetto supportato, nel suo concepimento e nella sua realizzazione, da un’intenzione e da un piano. Concetti che riconducono a un primo principio dotato di intelligenza, a una spiegazione che non c’è e rischiano di mandare in frantumi quel diaframma quanto mai fragile che separa la scienza dalla fede. Perché, ogniqualvolta si ricorre al termine “evoluzione”, non si può fare a meno di attardarsi a chiedersi: che cos’è questa direzionalità che pensiamo imprima un ordine evolutivo in una realtà dai confini irraggiungibili e inimmaginabili? A chi o a che cosa è dovuta? Poi ci guardiamo intorno e la scena che ci si presenta ci rivela che siamo immersi in una realtà instabile, precaria, imprevedibile, poiché il nostro esistere, con tutto ciò che ci sta intorno, può essere parte di un insieme che guizza all’interno di una serie di probabilità tutte proiettate verso il ritorno al nulla.
In quanto alla comparsa dell’uomo partiamo dalle lontane ere secondarie e terziarie quando, all’incirca 65-70 milioni di anni or sono, quell’essere terrestre che ancora non si era appropriato delle caratteristiche vere e proprie dell’ominide iniziò poco per volta a liberare le proprie mani dalla esclusiva funzione di locomozione. Ne seguì la progressiva conquista dell’ambiente arboricolo che selezionò alcune caratteristiche essenziali, come il meccanismo di acquisizione della postura verticale, l’incremento della capacità cranica, la riduzione del senso dell’olfatto a tutto vantaggio della stimolazione dell’apparato visivo, la dislocazione degli occhi da una primitiva posizione laterale a quella frontale.

Quest’ultimo fatto generò, come naturale conseguenza, una forte riduzione del campo visivo, ma, al tempo stesso, rese possibile un notevole perfezionamento della funzione stereoscopica, una funzione in vero indispensabile per un essere che doveva valutare tempi e distanze nel momento in cui balzava da un ramo a un altro.
Lungo il corso dell’evoluzione, ancora, questo originale abitatore terrestre che si stava avviando a grandi passi verso la conquista della dimensione umana dovette assistere alla graduale scomparsa degli artigli e all’apparizione del polpastrello e dell’unghia piatta. Motivo non indifferente, come è facile constatare anche attualmente, il polpastrello possiede la funzione di aumentare l’aderenza.
La stessa muscolatura del “candidato uomo” subì sensibili modificazioni. La liberazione completa della mano, tuttavia, si compì a grandi linee fra i quindici e i sei milioni di anni fa. Jerome Bruner (Jerome S. Bruner, Il significato dell’educazione, Roma, Armando Armando Editore, 1973) parla del processo di rappresentazione della realtà attraverso tre sistemi: l’azione diretta, l’immagine, il simbolo. Dall’azione, attraverso l’immagine, si giunse alla conquista del concetto. Ritroviamo lo svolgersi di un percorso simile nello studio effettuato da Jean Piaget (Jean Piaget, L’equilibrazione delle strutture cognitive, Torino, Bollati Boringhieri) a riguardo delle strutture cognitive operazionali in costruzione progressiva nel corso dell’età evolutiva. La conoscenza, afferma J. Piaget, segue una linea di sviluppo che, a partire dall’azione, perviene al concetto attraversando uno stadio intermedio nel quale vengono interiorizzati gli schemi delle azioni, gli schemi degli oggetti e si strutturano le prime rappresentazioni mentali.
Attraverso la deambulazione eretta e l’osservazione l’uomo andava via via conquistando l’ambiente. Sotto l’imperversare degli elementi naturali e delle minacce costituite dai predatori avrà forse rivolto lo sguardo lassù sugli alberi dove in precedenza si era trovato più al sicuro. Bisognava dare una spiegazione ai fenomeni paurosi che imperversavano. Si passò dall’uomo collocato al centro dell’universo alle divinità terribili che lo sovrastavano; dapprima ricorrendo alla magia rituale per subordinare il corso degli eventi e la volontà degli dei alle proprie aspirazioni; quindi dal terrore di fronte ai cataclismi naturali alla postulazione di divinità responsabili di ciò che travalica il controllo dell’uomo sulla natura, sino alla scoperta di leggi fisiche e costanti universali; dalle convinzioni astronomiche di ingenuo sapore geocentrico ai principi di indeterminatezza e di illimitatezza.
L’uomo iniziò a porsi una serie di domande su che cosa fosse tutto ciò che lo circondava, sul modo del suo svolgersi e sullo scopo che ne costituiva le premesse.


Abbiamo un padrone? Credere – Pregare


Un padrone, già, perché poi, a monte di tutti i bei discorsi, quella che intimamente percepiamo è una perenne situazione di dipendenza. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci sorregga. Sappiamo fin troppo bene che non siamo immortali e che un giorno dovremo lasciare tutto, ma questo è un pensiero che ci sforziamo di tenere alla larga. Allora ci creiamo sostituti di quella fonte di energia assoluta che potrebbe farci sentire simili a Dio oppure, ed è quel che accade singolarmente in ciascuno di noi, di farci essere Dio, sopra tutti e sopra tutto. L’insensatezza di simile atteggiamento cognitivo ci conduce il più delle volte all’inanità, alla stupidità, al fatalismo più animalesco se non sappiamo soffermarci con la dovuta riflessione e ponderatezza di pensiero; ma anche ci svia verso itinerari fallaci e ci porta ad abbracciare convinzioni, comportamenti a effetto anestetizzante-consolatorio-allucinatorio qualora accettiamo di creare autoconsapevolezza, per poi subito correre ai ripari assicurando il nostro passo con l’aiuto di puntelli e protesi mentali; oppure, ancora, ci sprofondiamo nell’abisso accettando di arrovellarci furiosamente per cercare di capire ciò che non si può capire, rasentando quella soglia che può gettarci nella palude infuocata della pazzia.
Trovare un equilibrio, nella ricerca del perché di questa nostra esistenza, di questo strano mondo che ci ospita, di questa misteriosa realtà cosmica che ci circonda, ecco una probabile soluzione. Ma tutto ci dice che dobbiamo sempre e comunque rifarci a un padrone.

Un padrone che è ora impersonato dai calcoli freddi di una mente razionale, la nostra; ora presente in veste di sentimenti profondi che sappiano dare colore e calore alla nostra vita; ora personificato dalla corsa alla conquista del potere, del prestigio, del denaro. L’avere che prevale sull’essere, l’apparenza che vince sull’interiorità dei valori, il rumore che soffoca la voce grave di una mente che non si accontenta. Siamo comunque, ancora, in balìa di padroni, di entità sacro-profane, divino-mondane, sensibili e manipolabili, che ci dominano mentre crediamo di essere noi i dominatori.
“Cogito ergo sum” diceva il buon Cartesio. Io direi “penso a quel che c’è e ciò a cui vado pensando è qualcosa a cui ho accordato il diritto di esistere”. Dunque se tanto mi tormenta l’idea di un Dio primo principio di ogni cosa, ciò può significare che quel Dio ci sia, in qualche forma, in qualche luogo.
La risposta, molti diranno, la fornisce la Chiesa cattolica; è lei che conosce Dio, per via diretta, per ispirazione, è lei che con Dio ha un rapporto privilegiato, immediato e confidenziale.
Pregare Dio? Perché, forse che ha bisogno di preghiere dai suoi sudditi infedeli, forse che non sa da solo, avendolo scritto nei suoi disegni universali, ciò che deve e dovrà fare? E noi, con il solo strumento della supplica, saremmo così bravi da sconvolgere i suoi piani, da dirigere la sua volontà a nostro gradimento, quasi che Dio fosse un tantino sprovveduto o, che so, distratto, al punto da dover ricorrere a qualcuno che gli sovvenga le cose da farsi? Così pure le pomposità rituali nel volgere la preghiera a Dio sarebbero discordi con l’insegnamento di Gesù. Lo stesso Vangelo cita l’ammaestramento che Gesù rivolge ai suoi discepoli: “Ma tu, quando vuoi pregare, entra in camera, e, chiuso l’uscio, prega il tuo Padre in segreto, e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa. E quando pregate, non vogliate usare tante parole… poiché sa bene il Padre vostro, avanti che gliene chiediate, di quali cose avete bisogno” (Matteo, VI, 6,7,8).
Se credi in Dio, premessa necessaria per proseguire in questa chiave analitica, devi ammettere che lo puoi immaginare sotto due apparenze che, peraltro, si pongono fra di loro in aperto contrasto.
Vediamo la prima: Dio è padre buono e misericordioso, ci attende a braccia aperte; un padre potente e misericordioso, quella figura di cui abbiamo estremo bisogno, e che ci serve, ci torna utile, nel momento di affrontare le nostre debolezze e la nostra meschinità. Ma si tratta comunque di una divinità ferma, contemplatrice, in attesa dei dovuti ossequi capaci di creare occasioni sufficienti per l’elargizione di grazie e favori. Una replicazione del Dio d’Israele che, per tutto il racconto svolto sulla storia del Vecchio Testamento, attende di essere propiziato con olocausti di vittime arse sugli altari.
Possiamo prendere in considerazione la seconda apparenza sotto la quale si potrebbe immaginare Dio. Un Creatore, Mente assoluta, occupato in ben altro da fare e da pensare che non sia il dare ascolto alla stupidità e ai fatui interessi degli uomini. Lui c’è e sta realizzando il proprio piano. Inutile cercare di penetrare le ragioni e le finalità che sottendono il suo essere e il suo agire. C’è e fa ciò che crede sia meglio fare.
Dio sa che cosa è meglio che sia, nulla di più saggio che affidarsi con fede estrema alla sua infinita intelligenza e volontà. Insistere presso di lui con formule insignificanti e mute è pertanto cosa illusoria, pretenziosa e sciocca.
Se Dio è, come mi piace credere, l’essenza assoluta di tutto ciò che è Bene, che è Vero, che è Bello, che è Giusto, allora nessuno meglio di lui vede lo scopo di un processo che si va sviluppando in modo irreversibile.

Eppure io prego. Prego perché sento questo insaziabile bisogno di rivolgermi a qualcuno/qualcosa che mi sovrasta in modo grandioso. Prego perché ho bisogno di lui, perché so, penso di sapere, credo di poter pensare di sapere che in lui risieda la spiegazione di ogni cosa, la risposta non data a ogni mia assillante domanda. E dunque posso ammettere l’atto del pregare come un volgersi dell’individuo verso un’entità sconosciuta, per un trasporto ideale, vuoi anche idealizzato, nel formulare pensieri e stabilire un colloquio andando vagamente con l’immaginazione al proprio lontano interlocutore. Una cosa privata, dunque, che ciascuno gestisce con le formalità che più gli sono confacenti, con le quali più si sente a proprio agio. Non una pressione collettiva, che ha tutto l’aspetto di un sobillamento travestito di fede e amore.
Mi soccorre, a questo proposito, il punto di vista di Armando Pavese, espresso nel suo modo di concepire la parte di noi che si muove nell’atto di mettersi in contatto con Dio. Pavese cerca di fare una distinzione nel momento di definire la dimensione non corporea della persona umana. Comunemente si dà a questa dimensione l’appellativo di “anima”, ma Pavese mi pare vada più a fondo nello specificarne la natura complessa. Il ricercatore si pone a postulare una duplice manifestazione in cui l’anima umana potrebbe esprimersi (in Guarigioni miracolose in tutte le religioni, Piemme Ed., Casale Monferrato 2005): l’anima psicologica ovvero la parte psichica, emanazione encefalica che ci accompagna nelle nostre conquiste culturali e nelle nostre creazioni artistiche, una sorta di interfaccia fra l’organico e lo spirituale, destinata tuttavia a dissolversi con la morte del corpo; l’anima spirituale, quella che mette in comunicazione l’uomo direttamente con Dio, proiettata verso l’immortalità. Ebbene, così vado congetturando, quest’ultima è anche l’espressione della mia fede che cerca Dio e che, nel corso della sua ricerca, costruisce embrioni di rapporti con lui.
Ma questo Dio non piace alla Chiesa cattolica, è troppo distante, troppo difficile a concettualizzarsi, troppo poco consolatorio, a volte persino scomodo, men che meno attuale, concreto, visibile, comunicabile o manovrabile (da Mario Bruno, Regno celeste, Impero terreno – Volume III – La ricerca di un Dio introvabile, IBN Editore, Roma 2020).
Non è tanto importante sapere se Dio esiste. Intanto dovremmo porci una domanda preliminare: chi o che cosa intendiamo per Dio, quale definizione potrebbe renderci plausibile una sua idea, Non ne abbiamo avuto conferme probanti e forse non ne avremo; è piuttosto essenziale, vitale e incoraggiante lo sforzo prodotto nella ricerca di Dio, visto che il nostro intelletto questo problema se lo pone da sempre e, come penso di poter credere, la mia mente partorisce concetti e immagini soltanto in quanto è in grado di dare loro dignità di esistenza.
C’è, ancora, chi è convinto della presenza di un Universo perenne, qualcosa che è sempre stata e sempre sarà. Può andare bene, ma io sono abituato a concettualizzare ogni fenomeno all’interno di un processo dove il divenire parte da un principio e presume l’azione di una causa. Non riuscirei a rappresentarmi qualcosa che sia sempre esistita di per sé proprio per il motivo che mi verrebbe da obiettare: questa cosa compie il proprio ciclo vitale, ma poi?, ma prima? – Di più, ci sarà pure uno scopo perché l’Universo abbia fatto la propria comparsa, diciamo qualcosa come tredici o più miliardi di anni fa, e ci appare oggi in determinate fattezze. Se uno scopo c’è – altrimenti ci sarebbe spazio soltanto per il caso o per il caos assoluti – esso deve necessariamente, così penso io, essere stato prefigurato da una mente pianificatrice. Una mente dotata di un’intelligenza smisurata, al solo vedere le meraviglie rivelate dalle leggi fisiche, matematiche, cosmiche, chimiche, biologiche e via dicendo, di cui ancora molto poco conosciamo. Una mente, inoltre, dominatrice di una potenza così grande da lasciarci completamente storditi, se soltanto prendiamo in considerazione l’energia sviluppata da una carezzevole onda marina su un lido sabbioso e, via via, sino all’energia sviluppata al momento della nascita dell’Universo, a confronto della quale tutte le nostre superbe conquiste fanno sorridere men che niente.
Certo, possiamo convincerci di non credere a tale mente, ma allora ricadiamo all’interno del problema e non riusciamo a trovarvi soluzioni alternative, perché del caso o del caos facciamo il nostro nuovo padrone.

Il fatto che Dio esista o meno non è cosa che sia alla portata del nostro potere cognitivo né, tanto meno, inquisitivo. Cognizione ed emozione insieme mi stimolano piuttosto a spingermi nella ricerca, esaltante e sofferta, tanto da indurmi ancora a sostenere che, allo stato attuale delle cose e in conformità alla nostra limitata natura, esista soltanto la ricerca di Dio.
Continuo a provare disagio, tormento, sofferenza, senso di estrema incertezza, di bisogno e di abbandono. Ma preferisco vivere questo stato di dolorosa ricerca piuttosto che rinunciare a me stesso e sacrificare la mia voglia di conoscere a uno stato mentale alterato da terapie rassicuranti e dubbie, quando non velate di perversione.

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