È una bella invocazione quella della Preghiera dell’Alpino, certamente condivisibile. Con una eccezione, tuttavia, là dove esprime, quasi a conclusione, una filiale richiesta: “E tu, Madre di Dio, candida più della neve…”. Mi piace “candida più della neve” e sicuramente l’espressione ancora non arriva a dipingere nella sua pienezza sacrale la figura di Colei che ha dato al mondo e all’umanità intera quel Gesù, venuto fra noi per insegnarci la Via. Ma è il sintagma precedente quello che sopravviene a creare turbamento e a destare in me da subito una ridda di contraddizioni concettuali.
Termini come “Madre di Dio” e “Vergine” cominciarono ad apparire relativamente tardi negli anni. Baima Bollone riferisce (Sindone: la prova), a questo proposito, di un Vangelo apocrifo di Nicodemo, composto in un greco usato in epoca molto avanzata e costellato di numerosi latinismi; ma anche di un’omelia del vescovo di Al-Bahass che non può essere anteriore al V-VI secolo. Lo stato verginale perpetuo della madre di Gesù fu sancito dal Sinodo Lateranense del 649 e riconfermato dal Concilio di Trento nel 1555.
Apro una breve parentesi sull’argomento. L’enunciazione “Madre di Dio” crea non poche perplessità in chi si domanda: “Com’è possibile? Non può esistere una madre di Dio; altrimenti, di quale Dio parliamo? Un Dio che ha una madre non è più un Dio”. È bastato, tuttavia, che nel 325, con il Concilio di Nicea, l’imperatore Costantino muovesse nella direzione di far proclamare la verità della duplice natura di Gesù, quella umana e quella divina, perché Maria diventasse madre dell’uomo Gesù e, per trasposizione di significato, anche di Dio. Un po’ come se Flavia Elena, moglie (se non proprio concubina) di Costanzo I Cloro, avesse detto: “Sono madre di Costantino” oppure “Sono madre dell’imperatore di Roma”. Con la distinzione che la prima affermazione era ovvia fin dalla nascita del figlio, mentre la seconda avrebbe dovuto attendere la proclamazione di Costantino al trono imperiale, dunque due cose ben distinte, almeno temporalmente. Ossia, Elena generò Costantino, e solo dopo anni poté affermare di essere madre dell’imperatore, perché la Storia così aveva decretato: è logica stringente; che Costantino a un certo punto della sua vita fosse diventato imperatore si poteva toccare con mano. Maria, per conto suo, aveva generato un bambino al quale fu dato nome Gesù. Nella vita di Gesù nulla venne a rivelare e a confermare la sua identità sostanziale con Dio padre. Un’identità, peraltro, la cui proclamazione sopravvenne trascorsi alcuni secoli e assolutamente per opera dell’uomo, più precisamente per volontà politica e di potere. Un’identità fondamentalmente controversa, tanto da scatenare dispute, scissioni, conflitti e spargimenti di sangue. Si tratterebbe, nel caso indicato, di una identità nata e cresciuta su un terreno pregno di dolori, sofferenze e sopraffazioni; nulla di divino è venuto mai a darne conferma fra gli uomini: una verità di fattura tutta terrena e artificiosa dunque, spinta da mire politiche e imposta sulla scorta di un potere di persuasione che con il divino nulla aveva da compartire.
Dirò di più: quando papa Francesco, nell’omelia della domenica, invoca Maria con le parole “Dei genitrix”, le si rivolge assegnandole la genitura di Dio creatore addirittura; ossia Maria, nell’atto di generare un Dio, nel vero senso etimologico di dargli vita attraverso il travaglio del parto, viene sollevata in una dimensione divina, diventa ella stessa una Dea. Ora, non penso sia esagerato affermare che il far assurgere una creatura umana a livello di divinità sia sinonimo dell’osare l’idolatria e, nello stesso tempo, non discosto da un parlare blasfemo. Tutto e sempre in onore di Costantino comunque, e dei vescovi che aderirono alla sua versione teologica della consustanzialità, scampando così all’esilio in terre lontane dagli agi e dal potere, oltre Danubio.
Ma non è ancora, questo, il paragone che calza a pennello nella circostanza che vado trattando. Restiamo piuttosto un momento su Costantino, il potente imperatore romano così affannosamente immerso in verità di fede, che per affari di stato arrivò al punto di far uccidere il proprio figlio, alcuni parenti e la moglie Fausta nel 326. La sua adesione alle nuove idee religiose o, meglio, la sua ampia tolleranza in quel senso, non fu invero conseguenza di una improvvisa conversione, ma bensì un aspetto del suo opportunismo politico spinto a rinsaldare il potere personale ai vertici dell’Impero. Costantino il Grande non si era peritato di autodefinirsi vescovo universale, vicario di Cristo.
Dunque una prima necessaria conclusione: che Maria fosse madre di Dio provenne da una parte della Chiesa cattolica riunita nel Concilio di Nicea, ma neppure fu da ascriversi in prima istanza ai vescovi partecipanti all’assise, fallibili nella loro natura umana. La nuova verità di fede fu proclamata da un uomo, Costantino, animato esclusivamente da mire politiche fatte valere con l’imposizione e le minacce, un uomo con le mani e la coscienza lorde del sangue dei suoi stessi congiunti. Quale verità, allora?
Ancora qualcosa sul Concilio di Nicea. Riunitosi nel 325 sotto l’egida di papa Silvestro I, il Concilio vide subito contrapporsi la tesi che poneva Gesù Cristo in una zona che potremmo dire di interfaccia, una zona che si colloca fra le nature create e la natura increata, alla tesi di stampo più ortodossa relativa all’identità di Gesù Cristo con Dio Padre. Quest’ultima posizione era sostenuta dai vescovi Alessandro e Atanasio. Alla prima aderivano invece Eusebio, con l’appoggio di altri diciassette vescovi, il prete Ario e numerosi altri sacerdoti. La disputa, divampata con toni assai aspri, si concluse con l’affermazione dell’attuale “Credo” per il consenso di 299 vescovi contro il parere avverso di 18, ma duemila persone del secondo ordine condividevano la versione di Ario. Da qui la grande divisione storica del popolo cristiano. Da una parte prendeva origine l’Arianesimo. Dall’altra l’ortodossia di Atanasio doveva dar luogo a una serie di precisazioni e di affermazioni che presero forma di dogmi.
Intanto il demone dell’eresia non si stancava di premere ai fianchi. Restiamo ancora un attimo ad Ario con il suo rifiuto di ammettere la perfetta identità di Dio con il Figlio, e al concilio di Nicea a cui parteciparono dai 250 ai 300 vescovi, trasportati, fra l’altro, a spese dell’Impero, quasi tutti provenienti dalle Chiese d’Oriente, dato che delle Chiese occidentali se ne contavano appena tre o quattro. Per contrastare l’eresia ariana si doveva fornire una risposta forte e definitiva, e questa fu rappresentata dal “Credo” che ancor oggi conosciamo. Il motivo centrale del dibattito, che ruotava attorno al concetto di consustanzialità (neppure Paolo, per il vero, dichiara esplicitamente l’identità fra Dio Padre e il Figlio, distinguendo la persona di Gesù come l’unica al mondo capace di mediare fra noi e il Padre. E neppure lo stesso Gesù si dichiara incontestabilmente identico a Dio)rifiutato da Ario, vedeva proponente del nuovo dogma il vescovo Ossio di Cordova e incontrò i favori dell’assemblea soltanto nel momento in cui fu Costantino a farne personale richiesta. Il concilio, certamente, non avrebbe mai e poi mai osato volgere le spalle all’imperatore, anche perché Costantino si era ormai espresso con eloquente chiarezza: chi, fra i presenti, avesse rifiutato di sottoscrivere il testo del nuovo Credo sarebbe stato immediatamente sollevato dall’incarico curiale e punito con l’esilio. Nessuno, come sarebbe stato ovvio aspettarselo, avrebbe voluto perdere il posto privilegiato e gli agi che deteneva con sicurezza. Soltanto Ario e i suoi si opposero, decretando così il proprio allontanamento verso le lontane lande danubiane. Mentre gli altri, chinato il capo in segno di sottomissione, quand’anche avessero intravisto in quella nuova declamazione i segni di un’espressione eretica, accarezzati dalle promesse di nuove allettanti elargizioni da parte dell’imperatore, furono trattati, come si dice, coi guanti. Non tutti per l’esattezza, poiché alcuni quanto prima si ravvidero e si pentirono della decisione abbracciata nel momento conciliare, ma non poterono fare a meno di seguire la medesima sorte di Ario o di cedere infine sotto la pressione di ulteriori pesanti minacce.
D’altra parte senza Costantino si sarebbero potuti mettere dei seri “forse” al successo del cristianesimo nella società imperiale romana. Ed è per questo che, a mio modo di vedere, dal 325 in poi sarebbe meglio parlare di “costantinesimo” su matrice paolina anziché di cristianesimo.
Conversione delle genti, dunque, non raggiunta per riflessione interiore e ricerca individuale della Verità, ma per imposizione calata da una mano potente. E un istituto religioso che cresceva a dismisura, infarcito e sovrastato da interessi politici.
Gli esiti del Concilio di Nicea diedero la stura al protrarsi per tre lunghi secoli di una vera e propria guerra civile all’interno dell’Impero romano. Guerra che, a sua volta, generò altri conflitti, e così via in una catena senza fine.
Ma perché Nicea? Quali interessi di ordine spiccatamente materiale si nascondevano all’ombra del Concilio? Perché un’assemblea maestosa di uomini di chiesa attorno alla persona di un regnante terreno ambizioso e privo di scrupoli? Quali le conseguenze nell’ordine storico del tempo e nelle economie dei poteri temporali?
Perché, infine, questo insistente interesse della parte politica imperiale per quella che era una religione nata e cresciuta fra un manipolo di poveri pescatori?
La compenetrazione di interessi fra Chiesa e Impero aveva fatto grandi passi alle soglie del quarto secolo. Costantino aveva buon agio a intromettersi negli affari della Chiesa e lo dimostrò in occasione del ricorso prodotto dai donatisti (seguaci di Donato, vescovo africano. In seguito alla persecuzione ordinata da Diocleziano, Donato si era scagliato contro Mensurio, vescovo di Cartagine e contro il di lui diacono Ceciliano a motivo del loro atteggiamento indulgente usato verso i cristiani che avevano tradito con il consegnare i libri sacri ai pagani) nei confronti del vescovo Ceciliano di Cartagine, là dove l’imperatore si occupò della designazione di un arbitraggio adeguato allo scopo accollandosi, nella stessa occasione, l’autorità di convocare di propria iniziativa un concilio generale in cui confluissero tutti i vescovi di sua giurisdizione. Era il 313, un anno che doveva segnare la fortuna per la Chiesa cattolica la quale, tacitamente consenziente, lasciava fare, anche perché nelle sue casse stavano confluendo pingui contributi che premiavano in larga misura le perdite subite in precedenza.
Si profilava in modo quasi subdolo un atteggiamento di scambievole approvazione e sostegno che si sarebbe affermato con crescente vigore nei secoli successivi: un bel modo per comprare l’avversario, blandendolo e rendendolo socio in affari, visto che è diventato così importante e potente, e constatato che a nulla sono valsi i tentativi per metterlo fuori scena. In parte si può vedere il campo d’azione come dominato da approcci ben riusciti per corrompere, con l’elargizione del solito sterco del demonio, il denaro, per la maggior parte sottratto con la prepotenza e l’inganno ai poveri diavoli. Come ricorda Trocmé (in AA.VV., A cura di Henri-Charles Puech, Storia del Cristianesimo), le attenzioni imperiali per il clero cattolico erano ricamate da così alta disponibilità che i vescovi chiamati al concilio di Arles del 314 vi si erano recati, anche quella volta, a spese pubbliche e garantiti durante il viaggio da una scorta di cinque addetti per ciascuno di loro. Si dava via libera a una copiosa serie di privilegi: le Chiese ottennero, nel 321, l’autorizzazione a incamerare eredità in beni materiali; ai sacerdoti veniva accordato il diritto di affrancare i propri schiavi (avevano schiavi al loro servizio?!!). Impero e Chiesa cattolica crescevano e si ergevano come due giganti affratellati, ognuno nel proprio orto ma sempre disponibili a scambievoli servigi e tributi onorifici. L’Impero aveva trovato la via per non cedere alle crisi incombenti e la Chiesa non si opponeva quando l’imperatore metteva piede in casa sua. Come si può trasformare il messaggio di Gesù, traboccante amore e umiltà, in asservimento a quel dio irresistibile che ha nome “potere-denaro”?!
Fu tutto il periodo costantineo, dal 312 al 324, a giocare a favore della crescita della Chiesa-istituzione temporale. L’anno 321, entro questo periodo, segnò il momento in cui Costantino accordò ai cattolici la piena libertà di coscienza e di culto.
Fatta questa necessaria premessa, torniamo a Maria. Dopotutto, nel caso di Gesù, l’affermazione si sdoppia andando a coinvolgere qualcosa che sta oltre la nostra natura. Sarebbe stato molto più corretto e incontrovertibile, secondo me, che Maria fosse stata invocata, nella preghiera a lei rivolta, con l’attributo di Madre di Cristo, o di Gesù, o del Salvatore. Il termine “madre”, peraltro, si riferisce a “donna che ha messo al mondo uno o più figli”. Dunque madre di Gesù suona bene, ma non così “madre di Dio” perché Maria, diciamolo ancora una volta, non ha partorito Dio. Ha dato alla luce un corpo che prima non esisteva, ma non ha potuto dare la vita a una divinità che a lei preesisteva da sempre.
Volgendo gli occhi al passato, pare che già nel IV secolo in Alessandria d’Egitto si ricorresse, nella liturgia cristiana, all’accezione “Madre di Dio”. Il Concilio di Nicea (325), infatti, adottava, nella formulazione del Credo cattolico e con stretto riferimento alla persona di Gesù, le affermazioni “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero” dando origine a quel garbuglio semantico secondo il quale a fronte della duplice natura di Gesù da una parte e, dall’altra, della proclamata inscindibilità di tali nature in lui, ci sarebbe voluto un intervento di legittimazione per dare una definizione inattaccabile alla difficile questione.
Dopo Nicea stava sorgendo una disputa assai accesa fra chi riteneva Maria madre di Dio e chi, come Nestorio e i suoi seguaci, si limitava a venerare Maria nel suo attributo puro e semplice di madre di Gesù. La legittimazione accennata trovò sede nel Concilio di Efeso, tenuto in Asia Minore nel 431, con l’attribuzione a Maria del titolo theotokos che significa, per l’appunto, “Madre di Dio”. Punto e basta: Maria era madre di Dio.
Il Concilio di Efeso, dunque, aveva sancito l’inscindibilità delle due nature, umana e divina, di Gesù. Conseguenza necessaria: Maria ha partorito un uomo e anche un Dio. Ecco uno dei primi motivi di discordia, afferrato a piene mani da Nestorio con il portarsi nella posizione di chi negava essere Maria anche madre di Dio. Naturalmente, scomunica immediata, come immediata fu la scissione della Chiesa assira che approvò la tesi di Nestorio. Sollevò intanto il capo un’altra teoria, eretica ovviamente, propugnata da Eutiche di Costantinopoli, fondata sulla convinzione dell’unica natura di Gesù, rappresentata tuttavia in un corpo non soltanto umano, quindi con qualcosa di diverso da tutti gli altri uomini. Il verdetto di eresia partì dal Sinodo di Costantinopoli nel 448, ma venne tosto annullato dal Sinodo di Efeso dell’anno successivo e riportato in vigore dopo appena altri due anni con il Concilio di Calcedonia. Altra separazione: questa è la volta della Chiesa Ortodossa Orientale. Quasi per conciliare animi così contrapposti si fece largo Sergio I, patriarca di Costantinopoli, che pensò bene di ricorrere a una mezza misura: facciamo che vada liscia una teoria, la chiameremo “monotelita”, che concordi con coloro per i quali Gesù possedeva due nature, ma che sostenga anche essere stata in lui una sola volontà. Ma il papa che accolse con favore quella teoria, nel 634, incorse anch’egli nel reato di eresia.
Tanto per fare il punto sulla fallacia di certe verità di fede, nella proclamazione delle quali il conclamato Dio è assolutamente assente, soffermiamoci un momento al Credo: nato dal primo Concilio di Nicea si concludeva con la formula “Credo nelle Spirito Santo”. La prima modifica apportata alla preghiera in occasione del primo Concilio di Costantinopoli nel 381 riguardava l’affermazione che lo Spirito Santo “procede dal Padre”. Pareva che ciò bastasse, tanto che nel 431 il Concilio di Efeso dava il placet al Credo così composto, se non che ci fu un successivo ripensamento da parte di papa Leone I il quale nel 447, corrente il Sinodo di Toledo, fece approvare la clausola secondo la quale lo Spirito Santo “procede dal Padre e dal Figlio”. Non è tutto, poiché la decisione abbracciata a Toledo fu sconfessata da Leone III al Concilio di Aachen dell’809 e successivamente riabilitata da papa Benedetto VIII il quale se ne servì nel 1014 per l’incoronazione dell’imperatore Enrico II. Ma la questione tornò sul banco degli imputati quarant’anni dopo con la contesa fra i pareri avversi del patriarca Michele I e di papa Leone IX i quali non trovarono di meglio che estrarre dalla faretra taglienti scomuniche da lanciarsi l’un contro l’altro come in un duello all’ultimo sangue, tanto acceso da aprire infine la strada allo scisma.
La preghiera Ave Maria, che qui occupa il centro dell’interesse, data le proprie origini, per quanto riguarda la prima parte dell’enunciato, quella che contiene soltanto il saluto dell’angelo e di Elisabetta, al VI secolo. Tra il IX e il X secolo era ancora priva dell’invocazione “Madre di Dio” che sarebbe stata introdotta dalle autorità ecclesiastiche soltanto verso la fine del secolo XIV. A muovere dal XIII secolo, infatti, la preghiera terminava semplicemente con il saluto dell’angelo e di Elisabetta. Bisogna portarsi all’inizio del XVII secolo per trovare la preghiera completa delle due parti, inclusa dunque la seconda che comprende l’invocazione “Madre di Dio”. Come dire che da Efeso in poi occorsero ben dodici secoli perché la Chiesa stabilisse che l’Ave Maria venisse contemplata per la liturgia cattolica nella versione usata ancora oggi.
Ecco dunque Maria, la donna che diede la vita a un uomo che era lo stesso Verbo di Dio incarnato in lei. Non facile a intendersi. Il tutto si risolve con un sottomesso atto di fede, nessuna obiezione, ostracismo al dubbio, pace nell’anima e… che Dio ci aiuti!
C’è un altro aspetto che, con il volgere del tempo, valse a dare ragione alle posizioni assunte dalla Chiesa cattolica in materia di dogmi di fede: la Chiesa nel periodo medioevale era ormai penetrata in tutte le espressioni sociali che caratterizzavano la vita europea: dalla cultura alla forma mentale, alla sensibilità. In questo senso andava progressivamente abbandonando la propria missione di redenzione dei poveri, nell’affievolirsi sempre più marcato del peso attribuito alle promesse escatologiche, per badare in modo assolutamente privilegiato a tutto ciò che concorreva alla salvaguardia dello sviluppo economico e alla garanzia di stabilizzazione sul piano delle politiche. Le si riconobbero ingenti proprietà terriere. Deteneva ricchezze quasi da capogiro in manufatti preziosi e denaro contante. Disponeva di una forza-braccia pressoché inesauribile. Portava in auge l’ordine ecclesiastico sopra ogni altra fascia della società. Correva a grandi falcate verso l’instaurazione di un potere monarchico sostenuto da una fiscalità possente. Si avvaleva della superiorità attribuita al potere spirituale su qualsiasi altro potere temporale. Primeggiava in campo artistico, culturale, didattico. I beni materiali che, prima di Costantino, venivano curati in clandestinità, nel quarto secolo si mostrarono alla luce del sole e godettero di piena protezione, prudentemente amministrati dai vescovi.
Come non porsi, di fronte a questo colosso temporale in crescita, alcune semplici domande? “Il mio regno non è di questo mondo…”. Ancora, chi ha assassinato la Verità annunciata da Gesù? Chi ha seppellito per sempre il suo esempio?
Se, poi, vogliamo portarci oltre e, che Dio mi perdoni, tuffarci nella sfera del blasfemo, possiamo sempre ricorrere a un aspetto particolare e quanto mai grottesco nella fattispecie, della logica linguistica, la semantica di per sé, che ci apre nuove prospettive.
Muoviamo dall’accettazione dei postulati sanciti dal Concilio di Efeso e ammettiamo senza riserve che Maria fosse veramente Madre di Dio. Ohibò, una definizione di tale risma, mi pare, non può esimersi dal porre in campo uno sciame di considerazioni di tono strettamente parentale. Qualcuno, presagendo ciò che sto per far uscire dalla mia lingua, si affretterà a obiettare: Madre è un appellativo sacro che pone Maria in una sfera ermetica, impenetrabile, all’interno della quale è possibile soltanto un rapporto diretto con la Divinità. Dunque Lei è Madre di Dio perché ha dato la vita a un Uomo che è anche Dio, ma la sua persona rimane costantemente avulsa dalla realtà umana che la pone come vivente sulla Terra. Qui, fra gli uomini, appare a tutti come madre di Gesù, ma nella sfera privilegiata della sacralità Ella è veramente Madre di Dio.
Un ragionamento che non fa una grinza, ma per accettarlo bisogna avere una fede grande come il mare, anzi, non basta.
Io preferisco attenermi alla logica linguistica e abbandonarmi a una considerazione che ha del madornale: Maria è Madre di Dio perché ha dato alla luce, ossia ha generato, un Essere che è anche Dio. E qui si instaura quella catena di proposizioni che ha naturale derivazione dalla semantica espressa.
Immaginiamo, per sillogismi. Madre è un titolo che parla di un ruolo all’interno di una famiglia, sia questa composta soltanto dalla madre e dal suo figliolo partorito, sia formata da un’organizzazione allargata perché circondata da tutta una serie di persone con vincoli di parentela più o meno vicina.
Ora solco la linea di confine con la liceità stabilita dai canoni cattolici e poso il piede nel terreno infuocato dell’eresia. Mi spiego e vengo al dunque, affrontandone il paradosso. Se Maria è Madre di Dio, e Madre di Dio rimane a dispetto di tutti i suoi detrattori, allora Dio è suo figlio, ma un figlio ha non soltanto una madre nel proprio contesto familiare: ci sono tutti gli altri componenti di una famiglia allargata di dimensioni tribali. Così Sant’Anna, madre di Maria, è nonna di Gesù ma, per la stessa asserzione coniata ad Efeso, è anche nonna di Dio. Non posso pensarla diversamente. Pure San Gioacchino diviene nonno di Dio il quale, grazie alla connotazione efesina di Maria, si circonda, partecipando della natura umana, di una vastissima parentela. Forse potrebbe essere l’ammissione che in ciascuno di noi regna incontrastata la natura divina del nostro Creatore, questa possibilità mi libererebbe almeno un po’ dal peso con il quale il sospetto di sacrilegio grava sulle mie spalle e sulla mia coscienza. Ossia, Dio è in ciascuno di noi, come a sua volta era nelle persone di Gesù e di Maria.
Con tutto ciò non arrivo a una conclusione promettente e mi piace rimarcare quanto sia improponibile e assurdo immaginare che una donna possa aver partorito un Dio, perché di questo si tratta e di questo è stato fatto testo nei dogmi che seguirono il Concilio di Efeso. Detto in poche parole, se Maria non ha potuto partorire un Dio, cosa razionalmente inimmaginabile, allora non le si attribuisca l’epiteto di “Madre di Dio”, semanticamente inconsistente; ma questa impostazione porterebbe a una rivoluzione dai risvolti impensabili. Mi piace inoltre sottolineare che, comunque la si pensi, tutti i problemi sin qui trattati non sono stati altro che materia di disquisizioni, di scelte, di definizioni e di asserzioni puramente umane. L’affermazione, poi, della Chiesa cattolica secondo la quale le decisioni assunte nei secoli della cristianità furono e sono sorrette da ispirazione divina, secondo il mio modesto modo di valutare non costituiscono altro che un comodo alibi per cingere con verità ideologiche forgiate da mente umana tutto un sistema di potere e di supremazia con il quale perpetuare l’edificio di credenze e di riti su un filone di collusione tra potere politico ben visibile e una realtà fatta di fede dai confini ineffabili.
Ispirazione: facile dire “sono ispirato da Dio”, e anche quanto mai comodo. Chi o che cosa me ne dà garanzia? Le lotte, le controversie, le alterne scomuniche lanciate a chi la pensava diversamente, le persecuzioni? Forse che Dio, bontà infinità, avrà deciso di porre in campo la questione della consustanzialità sapendo degli orrori terreni che ne sarebbero derivati? Siamo proprio fuori strada. Il male non viene da Dio, viene dagli uomini e, se l’idea della doppia natura di Gesù si è accompagnata alle più feroci espressioni della malvagità in terra, allora quell’idea ha nulla a che fare con Dio, è pertanto un parto diabolico. Uomini sedicenti ispirati nel produrre tanto male fra le genti sono responsabili di uno dei più truci inganni con i quali i potentati hanno da sempre creduto di soggiogare le folle inermi. Ma io stesso posso scendere in piazza domattina e mettermi a predicare con fervore una nuova dottrina assicurando di parlare per ispirazione divina. Saulo di Tarso lo poteva fare, giocando sulla cultura e sui timori di ordine escatologico padroni della mentalità generale ai suoi tempi. Io, rivolgendomi a un mondo disincantato, scanzonato quanto mai, materialista e incredulo, verrei preso per pazzo e sottoposto a terapia psichiatrica intensiva. Eppure si continua a credere in verità monche e fosche, rivelate sul filo di congetture incredibili, da mille e una notte.
A fronte di questa assurda giostra di rivolgimenti para-fideistici non posso fare a meno di affermare il mio personale orgoglio nel riconoscere e nel ribadire la provata coerenza, che voglio e sento di dover difendere, con i contenuti del “mio credo”. E la Preghiera dell’Alpino, fin tanto che resterà così com’è, non la leggerò più.
Immagine di Copertina tratta da Regina del Rosario.