Anni addietro mi dilettai a comporre un lavoro di 467 pagine con il titolo “Dove vai, Pensiero?”, rimasto a tutt’oggi nel cassetto. Tratta di sei persone che discutono su alcuni fondamentali problemi dell’esistenza. Uno di questi problemi riguarda proprio la fame nel mondo e gli spostamenti di masse di persone alla ricerca di una probabile sopravvivenza.
In uno dei dieci capitoli facevo dire a uno degli interlocutori: “Disperati, hai detto. E hai detto bene! Perché le previsioni per un futuro di pacifica convivenza non cadono così rosee come da molte parti si vorrebbe far passare per certo. Io credo piuttosto che prima o poi, ma molto presto in ogni caso, si avvererà un cataclisma sociale di enormi proporzioni e di inaudita ferocia, tale da riecheggiare le parole pronunciate da Marat ai tempi della Rivoluzione Francese: “L’uomo ha il diritto di strappare all’altro non solo il superfluo ma anche il necessario; per non soccombere egli stesso, ha il diritto di sgozzare l’altro e di divorare la sua carne palpitante!”.
Ebbene, non è forse iniziata a succedere qualcosa che richiama alla mente le parole di Marat? Oggi l’immigrazione, fenomeno crescente a un ritmo impensato fino a ieri, svela la consapevolezza che il popolo degli affamati e dei disperati è immenso e sarà inevitabile, a breve, brevissimo termine, far fronte alle conseguenze incontenibili che potrebbero sopravvenire.
A metà 2014 si calcolava che, con i circa tremila migranti soccorsi nei primi giorni di giugno già si contavano quasi 47 mila gli arrivi via mare nel corso dell’anno. Si trattava del decuplo rispetto al 2013 quando, nello stesso periodo, erano arrivati 4.800 migranti. Viene superato il totale dei 43 mila pervenuti nel 2013, così a metà anno 2014. Ricordo che gli sbarchi record risalivano al 2011, allorché si raggiunse la soglia di 63 mila. Oltre il 90% dei barconi con a bordo migranti erano partiti dalla Libia. Le nazionalità più presenti risultarono essere l’Eritrea con 14 mila migranti, la Siria con 6.700, il Mali con 4.300. Le strutture funzionanti accolsero, su tutto il territorio italiano, oltre 32 mila persone. Si osservò al tempo: “L’ondata di sbarchi sembra inarrestabile a ridosso delle coste siciliane. Sono oltre 2.300 i migranti soccorsi dalle navi della Marina Militare e dalla Guardia Costiera. Circa 400 profughi eritrei ed etiopi sbarcati a Porto Empedocle; altri 611 provenienti dall’Africa sub sahariana, dal Magreb e dal Medio Oriente con la Sfinge della Marina; 513 persone approdate a bordo del pattugliatore Orione. Poi 367 a Palermo, 266 a Catania, 191 a Trapani. A centinaia sono le donne e i bambini”. Dall’inizio dell’anno, ormai, si calcola siano giunti in Italia oltre 50 mila immigrati. È forse troppo tardi per ricorrere ai ripari? Stiamo, stanno facendo il possibile e più del possibile, ma la saturazione oltre misura delle strutture di accoglienza rischia di innescare una grave crisi sul piano sociale.
L’Italia per tutti
Immigrati stranieri, quanto se ne parla! Il fatto è che si sta creando un po’ dappertutto un subdolo, ma neanche tanto, clima di tensione. Oggi senti la notizia del tipo che spara a due Nigeriani procurando loro ferite e di un gruppo di connazionali africani che scendono in piazza in atteggiamento di minacciosa reazione all’atto aggressivo.
Poi trovi il resoconto di un articolo risalente al novembre 2012, che non risparmia il ricorso a etichettature del tipo “discriminazione etnica” nei confronti degli Italiani stessi questa volta divenuti oggetto del trattamento discriminante, ossia il ribaltamento di una situazione già storicamente deprecata. La cosa si sarebbe avverata nella provincia di Trento dove, ai sensi di una legge regionale, agli extracomunitari verrebbe elargito individualmente un compenso di oltre 2.000 Euro mensili con il mantenimento in assoluta inattività lavorativa. Non solo, ma i beneficiari usufruirebbero in aggiunta di affitti agevolati, di contributi per far fronte al riscaldamento, di tesserini per il trasporto gratuito sui mezzi pubblici e di buoni pasto.
Ma poi fa capolino la contro-informazione e leggi su un sito Web che la notizia attinente ai fondi gratuiti elargiti agli immigrati non è altro che una sonora panzana. La versione dei fatti in questa nuova prospettiva si sofferma su quella legge regionale, una legge sul reddito di garanzia, precisando tuttavia che i benefici in essa contemplati non vengono distribuiti a folate di vento, ma sono condizionati alla dimostrazione del possesso di ben definiti requisiti. L’assegno gratuito, dunque, sarebbe concesso nella fattispecie di pensione sociale, quella stessa che viene garantita ai cittadini immigrati in regola con le caratteristiche richieste allo straniero. Per prima cosa il beneficiario deve avere più di 65 anni, poi deve dare prova di aver raggiunto legalmente il parentado in ottemperanza alle disposizioni previste per il ricongiungimento familiare, trovandosi in quel momento in uno stato permanente di indigenza.
L’iter per conseguire il diritto al sostentamento da parte dello Stato italiano, per di più, secondo quanto dichiarato dall’Inps, a muovere dal 1° gennaio 2009 è sottoposto a vincoli stringenti, in quanto la corresponsione dell’assegno sociale è subordinata alla dimostrazione, da parte dell’immigrato richiedente, di aver “soggiornato legalmente e in via continuativa, per almeno dieci anni sul territorio nazionale”.
Lo sconcerto viene, tutto sommato, dal vedere una palese discriminazione già all’interno della fascia di extracomunitari per le nostre contrade. Se percorri le viuzze delle campagne piemontesi, ora che è iniziato il tempo della raccolta nell’ortofrutta, ti imbatti in numerosi Africani che, a bordo di biciclette, si spostano di continuo fra i vari poderi offrendo la propria manodopera. Cercano lavoro e mettono a disposizione le proprie risorse fisiche per ricavare un onesto guadagno. Ma, per le strade di città, incontri anche una notevole folla di giovani e meno giovani ben prestanti che, individualmente o a gruppi, gironzolano decentemente ben vestiti e apparentemente ben pasciuti con telefonino in mano, al più sfaccendati o indaffarati in attività minimali il cui decorso e il cui significato sono per noi indecifrabili. Senza, peraltro, che siano soggetti a controlli sulla regolarità della loro permanenza in loco.
Pur tuttavia, come ci è stato insegnato in un’ottica di conciliazione, siamo tutti fratelli su questa briciola di Pianeta persa in un vuoto abissale, e in quanto tali dobbiamo darci una mano e prestarci scambievole aiuto. Guardare agli altri, ai bisognosi, agli indigenti, per lenire le sofferenze endemiche. Un proposito encomiabile, di sublime valenza sociale.
Sì, ma da dove incominciamo? Non ci accorgiamo che fra la gente nostra, quella che è nata fra noi, che ha condiviso e condivide la Storia, la cultura, le tradizioni e le sorti alterne del nostro Paese, quella che si fregia con vanto del nome di Italiano, non ci accorgiamo che c’è chi rischia di morire di fame, che trascura la tutela della propria salute per mancanza di mezzi? Quanti poveretti si vedono nell’atto di raccattare rifiuti dell’abbondanza negli angoli delle strade, di rovistare nei cassonetti delle immondizie con la speranza di scoprirvi un tozzo di pane o un resto degli scarti dei supermercati! E quel poverocristo che alla Stazione Termini – è toccato a me constatarlo – vagava fra i tavolini di un self-service all’aperto e, trovatone uno lasciato da poco libero ma ingombro ancora di piatti con gli avanzi di un pasto appena consumato, si sedeva e ne ripuliva i contorni?
Queste sono le miserie che urlano priorità alla nostra sensibilità umana, questa è la discriminazione che serpeggia in modo semi-occulto perché, diciamolo senza riserve, a me almeno non è mai capitato di vedere un immigrato straniero piegarsi a cercare qualcosa tra i rifiuti o a leccare il fondo dei piatti di un fine pasto, ma ciò accade per molti nostri connazionali. Anche perché, là dove le provvidenze procurano la distribuzione di beni alimentari o altro, si dirigono puntualmente frotte di extracomunitari, e fanno bene, perché almeno approfittano degli aiuti che loro sono destinati, ma molti “locali” non mostrano il viso nelle file degli assistiti; è il ritegno personale che glielo impedisce; è un sentore sempre vivo di dignità che li tiene lontani dall’accorrervi; è un germe innato di orgoglio che impedisce loro di tendere la mano.
Se la provincia di Trento, atteso che tutto risponda a realtà appurata, riesce ad accudire così bene gli immigrati stranieri, allora vien da pensare che si tratti veramente di un’isola felice, dove nessuno, e nessun altro, è lasciato nell’indifferenza.
Un forte obiettivo per la politica nazionale, dunque, assicurare a tutti, senza discriminazione alcuna, un sostegno finanziario adeguato ai bisogni essenziali, che consenta degnamente a ciascuna persona in difficoltà di sentirsi un grado più in su rispetto a quello di un cane bastonato.
Le risorse? Ma sì che ci sono, basta un po’ di buona volontà e di oculatezza per saperle distribuire in modo intelligente ed equo. Porto l’esempio delle pensioni a riguardo delle quali è l’Istat a fornirci i dati relativi, quelli del 2012. A quell’epoca abbiamo, in Italia, il 42,6% dei pensionati che non arrivano ai 1.000 Euro mensili, ossia più di 7 milioni sul totale di 16,6 milioni di pensionati. Ma c’è di più: anche i pensionati fanno parte di quel patto trascendentale di fratellanza che vorrebbe vederci tutti uniti per mano. Abbiamo dunque – sempre l’Istat a parlare – il 38,7% dei pensionati che arriva a prendere tra i 1.000 e i 2.000 Euro al mese; ma il 13,2% si colloca tra i 2.000 e i 3.000 Euro; il 4,2% tra i 3.000 e i 5.000; mentre il rimanente 1,3% supera i 5.000 Euro mensili, l’equivalente di 210.000 fortunati. Infine ci soffermiamo sulla cifra, di per sé rivoltante, di coloro che vanno a casa con oltre 10.000 Euro al mese, e sono, a conti fatti, 11.683 persone, pari allo 0,1% del totale.
Dunque, fatta un po’ di giustizia, è evidente che il denaro basterebbe per tutti. Senza dilungarmi oltre, ora e qui, sugli sprechi, sugli imbrogli, sugli inganni, sulle evasioni fiscali, sulle gestioni mafiose delle opportunità di guadagno, sulle fughe di capitali all’estero, sui costi pazzi della politica, sugli ingenti conti finanziari destinati a coprire le retribuzioni ai mostri sacri dello sport e dello spettacolo. Senza sfiorare, che potrebbe portarci molto, troppo lontano, l’erogazione di stipendi d’oro e l’elargizione di privilegi da favola a una percentuale di popolazione che procede su una sopraelevata nel corso della propria esistenza e si limita a lasciarsi sfuggire qualche furtiva occasionale occhiata al mondo del volgo da una prospettiva distorta e quanto mai distratta.
Ancora sempre e ancor più la questione dei migranti.
Le fonti di informazione del 30 aprile 2022 rendono noto che sono più di tremila i migranti morti lo scorso anno in mare mentre tentavano di raggiungere l’Europa, il doppio di quanto registrato nel 2020, come suggeriscono i rilevamenti dell’Onu.
Così si esprime il presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim: “È solo la punta dell’iceberg” e non vede altra soluzione se non nella ferma volontà di “sviluppare i Paesi d’origine attraendo capitali privati e investimenti, usare la tecnologia per creare innovazione”.
Parole sante e sagge, sennonché piovute con un ritardo madornale sui tempi storici. Pensare a immettere innovazioni tecnologiche e culturali nei Paesi poveri è cosa di grande provvidenza, solo che lo si sarebbe dovuto fare come minimo almeno settant’anni fa. È come seminare oggi per avere un buon raccolto fra ventiquattr’ore: ci vuole il tempo necessario perché la messe maturi e la semina deve avvenire con congruo anticipo sull’emergere dei bisogni effettivi. Oggi come oggi i provvedimenti tampone servono a ben poco, mentre una programmazione intelligente per il futuro richiede un lavoro di non pochi decenni.
Intanto la gente dei Paesi martoriati da piaghe d’ogni genere ha fame e voglia di vivere. Spingerà sempre di più alle nostre porte.
La soluzione, credo, sta in una diversa dimensione del problema stesso e del modo di considerarlo ossia in un capovolgimento della prospettiva, drastico e pervicace. Sappiamo che l’Africa è un Continente ricco di risorse naturali e di opportunità di sviluppo, ma si dà anche il caso che la maggior parte delle ricchezze giaccia nelle mani di una minoranza di famiglie potenti, sceicchi, grossi magnati, regnanti crapuloni e cose di questo genere. Costoro non hanno mai o quasi mai voluto impiegare le ricchezze per promuovere sviluppo attraverso l’istruzione, la preparazione di personale qualificato a tutti i livelli sociali, la sicurezza del lavoro per tutti e la garanzia, attraverso l’occupazione giustamente retribuita, di un tenore di vita dignitoso. L’Africa, su questa linea, è in grado di nutrire le bocche dell’intera popolazione, e con soddisfazione di ognuno, ma la distribuzione delle ricchezze e delle opportunità di crescita, a dispetto delle valutazioni dei nostri esperti in economia, continua con fermezza pressoché assoluta a disattendere le promesse che potrebbero sollevare le sorti di milioni di persone reiette. Quel che si dovrebbe fare, con i ritardi che ci pesano addosso e con le priorità che premono senza sosta sa finanche del rivoluzionario. Non vedo altra via che “costringere”, da parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, i detentori delle ricchezze sovrabbondanti a investire socialmente per dare lavoro, istruzione e dignità alle popolazioni.
Possiamo immaginare che questo proposito funzioni? Ci sono troppi interessi fra i potentati della finanza, interessi che intessono una rete fitta dai nodi inestricabili per cui, nella morale del secolo, diventa plausibile scaraventare la maggioranza della popolazione ignorante nella disperazione e immettere le proprie risorse in un mercato estremamente redditizio, quello che consente di creare megalopoli nei deserti e strutture di faraonica architettura, futuristiche nello slancio innovativo dettato da menti super originali. In Africa c’è anche denaro sufficiente per liberare le popolazioni dalle piaghe delle malattie più devastanti, se soltanto chi può farlo volesse investire nuovi capitali per sconfiggerle. Come riferisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, è riapparso il virus “Ebola” che tra il 2014 e il 2015 aveva ucciso 11.000 persone, con intensità prevalente in Guinea, Sierra Leone e Liberia. Il focolaio è stato localizzato a 1300 chilometri a nordest della capitale Kinshasa, nei pressi del confine con la Repubblica Centrafricana.
Ma non è tutto. In effetti nuovi investimenti se ne fanno. Tornando un passo indietro udiamo dire dalla “Reuters”: “Sono vicini gli accordi per vendere a Riad (Arabia Saudita) armamenti per il valore di 100 miliardi”. Il pacchetto potrebbe superare i 300 miliardi di dollari in dieci anni, tutto per aiutare Riad a rafforzare le proprie capacità difensive. Trump, intanto, visiterà l’Arabia Saudita come primo Paese del suo viaggio d’esordio all’estero.
Come volevasi dimostrare. Esistono tanti e tanti soldini per armare arsenali e reparti d’attacco o ipoteticamente difensivi, ma non ce ne sono per sviluppare emancipazione e liberazione dalla miseria a vantaggio della massa. Ricchezze enormi sono disponibili sia in Arabia e nei Paesi limitrofi sia nel Continente africano, ma il gravoso problema non viene affrontato e la miseria continua a essere la padrona assoluta della storia umana del nostro secolo. Fino a quando?
Ci troveremo ancora posto?
L’undici giugno scorso una delle consuete indagini Istat si premurò di calcolare a quanti ammontano i residenti in Italia e ha lasciato scoprire che si registra un calo pauroso: abbiamo 17.000 nuovi nati in meno in un solo anno, dal 2014 al 2015. È la prima volta che, nel volgere degli ultimi novant’anni, preso a riferimento il 2015, il numero dei residenti si è contratto di 130.061 unità. Il saldo negativo è riferito alla popolazione di cittadinanza italiana, là dove abbiamo avuto 141.777 iscrizioni in meno. Però a questo fenomeno fa da contraltare l’aumento di 11.716 residenti stranieri provenienti da circa duecento nazionalità. Dai dati Istat risulta che in Italia ora vivono 60.665.551 persone, compresi più di cinque milioni di cittadini stranieri. Il saldo negativo nascite-decessi per la popolazione italiana è pari a 162.000 unità.
Che vuol dire tutto ciò? Una cosa sola: che stiamo rinunciando a mantenere il possesso del nostro Paese e lo stiamo abbandonando, un poco alla volta, nelle mani di altri, che Italiani non sono. Saranno anche brava gente, perché no, ma nella corsa a popolare il nostro territorio saremo noi Italiani i perdenti. Gli stranieri, poi, hanno una tendenza naturale a proliferare abbondantemente e quanto prima daranno la stura al sorpasso, spingendosi di gran lunga oltre i sessanta milioni e rotti di residenti.
Ma dove li metteremo? Una notizia confortante, avveniristica e un po’ paradossale ci viene dalla scienza astronomica: il telescopio spaziale Kepler, “cacciatore di pianeti”, finanziato per il funzionamento sino all’anno 2018, già ha scoperto 1.284 mondi alieni, alcuni dei quali dotati di condizioni climatiche favorevoli alla vita. Ci recheremo, si recheranno lassù? Anche perché, non è più il momento di nascondercelo, il nostro Pianeta sta scoppiando, avvolto e oppresso da miasmi di ogni genere e da distruzioni massificate. Mah, le vie del Signore sono infinite…
Bilancio autoctoni-stranieri
Siamo, nel nostro Bel Paese, i più vecchi e i più soli.
Ma che cosa sta succedendo?
Le stime pubblicate stamane sui mezzi di informazione parlano di una popolazione italiana che, sul totale, va diminuendo di consistenza per il terzo anno consecutivo, ed è un decremento che raggiunge la soglia di quasi centomila persone. Le statistiche di inizio anno davano la presenza di 60,5 milioni di Italiani con 5,6 milioni di stranieri i quali ultimi incidono ormai con l’8,4% delle presenze sul suolo italiano. Non siamo ancora esattamente il paese più vecchio del mondo, ma ci poniamo ben fermi al secondo posto. Oggi in Italia si possono contare 1687 anziani per ogni migliaio di giovani.
Questa è soltanto una considerazione che, tuttavia, andandone a disvelare i risvolti sociali più reconditi, non resta senza una serie di ripercussioni sulla qualità del futuro che ospiterà i nostri figli e nipoti. C’è dell’altro, e assai meno incoraggiante. C’è che stiamo dimostrando di essere malati di una fragilità estrema, se solo poniamo mente a una realtà che vede 172 persone su mille vittime di uno stato di disagio derivante dal senso di solitudine e dalla incombente sensazione di non poter contare su un sostegno sociale garante di serena sicurezza. Sono, questi, pesanti condizionamenti che colpiscono in maggior misura coloro che appartengono a uno status sociale basso. Ne è testimonianza, fra l’altro, la percentuale di appena il 18,5 di coloro che hanno la fortuna, provenendo da un basso status sociale, di acquisire una laurea, ma anche quel 14,8% che non gode della possibilità di esprimere le proprie capacità con un lavoro qualificato. Lo stesso lavoro manuale, nel giro di dieci anni, ha subìto una drastica contrazione, tanto che nel lasso di tempo corrente fra il 2008 e il 2017 si è arrivati a contare un milione di operai e di artigiani in meno.
Sì, abbiamo veramente una montagna di problemi che ci sovrasta e ci opprime. Sposto la questione sulla falange di esseri umani che emigra dai propri paesi e che trova sistemazione, in buona parte, qui in Italia. È vero, noi Mediterranei siamo ricchi di sensibilità, di umanità, di comprensione, il nostro cuore latino ci spinge a intenerirci, a commuoverci, a porgere le braccia in segno di aiuto. Tutto bene, fin tanto che il soccorso viene assicurato a chi veramente ne ha necessità vitale: donne, bambini, vecchi, malati, inabili e uomini di buona volontà che cercano e accettano un lavoro inserendosi nelle maglie del tessuto sociale con dignità e onore. Mi dispiace vedere, per altro verso, tanta gente in forze e in età di lavoro che si trastulla quotidianamente con telefonini e sedute al bar, quasi vacanzieri in un ozio ad interim, mentre le personali risorse potrebbero essere utilmente convogliate al servizio della società ospitante. Credo che mantenere gente nell’inerzia, pur saziandola di ogni bene necessario e men che necessario, non sia la via giusta che un buon senso pratico e una buona interpretazione della parola “integrazione” vorrebbero consigliare. Noi crediamo di aiutare questa gente ricorrendo a provvedimenti tampone che non risolvono i problemi, ma li trascinano senza soluzione di continuità favorendo l’insorgere di bubboni virulenti e gravidi di minaccia per la salute sociale. Non è dignitoso, per questi soggetti di cui sto parlando, vivere alla giornata senza la speranza per un miglioramento esistenziale. Non è dignitoso per loro, non lo è neppure per noi che contiamo, fra i nostri connazionali, numerose persone e famiglie che soffrono letteralmente, concretamente la fame e la privazione di provvedimenti assistenziali indispensabili. Diamo dunque un’occupazione produttiva alle persone ospitate, in modo che anche le lunghe file delle loro donne dinanzi alle Associazioni dispensatrici di vitto, vestiario e generi vari di consumo e di conforto abbia a ridimensionarsi per fare luogo a comportamenti sociali di comprovata dignità. Ossia assicurare l’opportunità di un lavoro agli uomini, ma anche alle donne, in modo che arrivino a usare del proprio tempo e delle proprie energie puntando al nobile fine del mantenimento di una famiglia e di un parallelo inserimento meritorio nella società che li ha accolti.
Personalmente non sono stato e non sono molto tenero nei confronti delle figure clericali che hanno a cuore il potere e la carriera nelle fila dei porporati. Oggi, però, plaudo alla presa di posizione della CEI nel momento in cui ne leggo il proclama sull’ordine del giorno: “Il primo diritto è di non dovere lasciare la propria terra. Riconosciamo che esistono dei limiti all’accoglienza imposti da una reale possibilità di offrire condizioni di vita dignitose. Il passaggio più difficile è l’integrazione perché è un processo che non assimila ma valorizza e riconosce le differenze per società plurali e cittadinanza”. Più o meno quanto la CEI esprime nella sua lettera alle comunità cristiane sul tema delle migrazioni è una parafrasi di ciò che ho sostenuto nelle righe che precedono, o viceversa, e una ripetizione di quanto andavo sostenendo tempo addietro in note redatte sull’annosa questione. Dicevo, già allora, che al problema della mobilità mondiale, a quei tempi ascritto al così detto “Terzo Mondo”, si sarebbe dovuto iniziare a pensare almeno settant’anni prima, portando i nostri aiuti e le nostre risorse nelle terre d’origine per stimolare ed educare la popolazione a usare le proprie mani e la propria intelligenza onde trarre i necessari frutti di sostentamento dal Paese di nascita. Tutte queste sono preoccupazioni che oggi ci aggrediscono non senza minacciare lo stesso ordine sociale nazionale ed extranazionale e che si sarebbero potute debellare preventivamente. Ma tanto basta, e siamo arrivati al punto che sappiamo. I vescovi della CEI ripetono che non bisogna aver paura. Certo, nessuna paura, ripeto, ad aiutare là dove di aiuto c’è vero bisogno.
In tutto questo discorso, più precisamente, è doveroso osservare che, insieme a tante persone disperate, hanno varcato i mari certi delinquenti che nel nostro Paese sono riusciti a diffondere il cancro della malavita e della violenza. Di questi non bisogna avere paura? No, se si impugna un’arma da difesa, ma allora è guerra.
Parlare di guerra, di questi tempi, è rischioso, si può essere facilmente fraintesi, ma una guerra sana alla malavita e alla disonestà è sicuramente cosa buona. Ne abbiamo un esempio molto attuale. Il 13 aprile 2022 i mezzi di informazione trasmettevano: “Il Tar Liguria ha bocciato il ricorso di un albanese contro Questura di Savona e Viminale, che non gli hanno rinnovato il permesso di soggiorno per una condanna a tre anni per cessione di stupefacenti. Secondo il Tar è legittimo che la Questura non rinnovi il permesso di soggiorno all’immigrato e lo faccia rientrare in patria con la famiglia. Anche se residente in Italia da 13 anni e con regolare contratto di lavoro, perché «non ha interiorizzato le regole essenziali del vivere civile».”
Credo dunque che sia, qui giunti, indilazionabile il ricorso a una distinzione fondamentale. Diamo, vorrei suggerire, maggiore impegno alle Forze dell’ordine perché attuino controlli severi, anche per le strade di città e di paese, con la finalità di ristabilire una sicurezza che va scemando per chi circola, talvolta con circospezione, per le donne che non osano più uscire in strada se non accompagnate e, come contraltare, per stabilire le condizioni essenziali a un’esistenza di diritto e dignitosa per chi chiede ospitalità al nostro Paese e si impegna a contribuire con il lavoro alla crescita globale della comunità. Per converso, estradizione immediata per coloro che delinquono. È una questione di politica interna. A più ampio raggio, poi, non si può più pensare di andare avanti senza esercitare una forte, determinata e autorevole pressione di politica esterna sui potentati che consentono arricchimenti faraonici a vantaggio di un ristretto numero di famiglie nobiliari tenendo, nel medesimo tempo, la maggioranza dei loro sudditi nella miseria, nell’ignoranza, in una endemica condizione di sfruttamento. Voglio ripetermi e riporto a esempio l’Africa, continente tempestato di immense ricchezze naturali dal cui sfruttamento sarebbe possibile assicurare lavoro agli stanziali, consentendo loro di costruire per sé e per le proprie famiglie un limite accettabile di vivibilità e di benessere, nella garanzia di poter accedere ai beni e ai benefici derivati dall’uso intelligente delle risorse naturali, sino alla sicurezza di poter esistere e progredire sul proprio suolo natio.
È troppo sperare in tutto ciò? Utopico e irrealistico? No, basta la volontà, ma accompagnata da onestà, da serietà di intenti, da un rinnovato senso di giustizia sociale, da un minimo di disponibilità verso le necessità fondamentali dell’uomo nel volgere della propria esistenza su questo nostro incantevole e deturpato Pianeta.