Che cosa conosciamo della nostra mente? Si dicono e si sono dette tante cose attorno alla nostra mente, alla sostanza di cui si compone, al posto che occupa, alla sua funzione, alle sue mirabolanti operazioni, ma alla fin dei conti non sappiamo ancora con sufficienza di termini di che cosa stiamo parlando.

Mi immergo in queste considerazioni in particolare nel momento in cui mi accingo ad ascoltare musica classica interpretata da complessi orchestrali. Sono di fronte allo schermo televisivo e mi preparo a godermi alcune sinfonie di Mozart presentate dall’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Vado a iniziare con la Sinfonia n° 31 Parigi di Wolfgang Amadeus Mozart.
In un’altra occasione, assai prossima, mi trovo ad assistere all’esecuzione del Manfred di Pëtr Il’ič Čajkovskij, sinfonia in si minore, opera 58, interpretata dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI.
Non par vero quanto questa musicalità riesca a carpire l’animo e a trasportarlo in sfere di fiaba. Intravedo me stesso in quel Manfred nel suo vagare disperato di balza in valle fra le vette e le scogliere delle nostre Alpi. Non sa dove arriverà, spinto da un sentimento mordace reso via via più doloroso nel continuo rammentare la figura della sua amata, la bella Astarte, perduta per sempre. La scena muta tenore quando gli appare la fata delle Alpi, seminascosta sotto l’arcobaleno di una fragorosa cascata. Ora Manfred riesce a sostare alquanto, scoprendo il percorso che lo conduce in un contesto di vita pastorale dove può partecipare dell’esistenza semplice, libera e pacifica che appartiene agli abitatori della montagna. Da questo luogo di pace Manfred si porta infine al palazzo sotterraneo di Arimane, apparendo nel mezzo di un baccanale. È qui che si lascia andare a invocare lo spirito di Astarte la quale finalmente si fa udire con parole che profetizzano la fine delle sue avventure terrene. La scena si chiude mestamente con la morte di Manfred.

Le note degli orchestrali si susseguono ora vivaci e possenti, ora tenui e malinconiche, imprimendo forma e colore a immagini che la mente raccoglie ed elabora con modalità squisitamente soggettive. Poi, finito l’incanto creato dall’insieme degli strumenti musicali, mi sento portato a riflettere sulle dinamiche più propriamente fisiche alle quali si deve il miracolo della sinfonia. Ho seguito attentamente i movimenti, il fluire del ritmo, le cadenze, gli isocronismi, la serietà di impegno prodotta dagli attori alla ribalta e mi sono perso in una selva di domande. Ho provato sensazioni piacevolissime che si sono ripetute con l’ascolto dei “Concerti della Cappella Paolina”, dal palazzo del Quirinale, creati dalle mani della violoncellista Leila Shirvani e della pianista Sara Shirvani. Nel fluire delle voci musicali si arriva a percepire come i fiati, le tastiere, gli archi e le percussioni assumano il ruolo di protagonisti incastonando i loro suoni gli uni con gli altri e trasformando le melodie originali in un tutto armonico di rara bellezza. E, per finire, ancora un’altra occasione di ascolto: a esibirsi è l’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con il Concerto n° 2 di Béla Bartók per pianoforte e orchestra, direttore Antonio Pappano e Yuja Wang al pianoforte. Vedere la pianista correre, scivolare, sobbalzare sulla tastiera a un ritmo vertiginoso è stata un’esperienza di emozione profonda e di rara bellezza artistica. L’immagine televisiva proponeva quella danza frenetica delle dita della mano sulla tastiera, mosse da un’abilità veramente eccezionale. Nell’ammirare il momento pareva di assistere a un prorompere di energia creatrice con cascate di note che potevano ricordare l’immagine di uno tsunami o delle acque scroscianti con potenza e violenza dall’alto dell’Iguazù.
Per me, che sono profano, un evento di tale levatura artistica non può lasciarmi indifferente, e allora provo a spostarmi su un piano per così dire più tecnologico, fisiologico, sorprendendomi della maestosità di un’esecuzione sonora a effetti così straordinari. Gli strumentisti sanno quando devono attaccare, conoscono il momento preciso di ogni pausa e la sua durata, sono molto attenti alle indicazioni del direttore d’orchestra. Non una sola nota va per storto, non una sola battuta pecca nel riconoscersi in un accordo complessivo con le parti esibite dagli strumenti attigui. L’insinuarsi a tempo di una voce strumentale sul filone di un’altra in progressione dà luogo a un’immagine corale di rara bravura. È come una trama felicemente composta, il cui ordito si snoda in ossequio a precisi canoni esecutivi e crea piacevolezza, armonia, mentre accarezza sentimenti profondi. Il direttore d’orchestra, poi, è la dimostrazione della perfezione con la quale si innestano le parti nel tutto: non gli sfugge la minima piega, diffonde puntualmente gli ordini con la gestualità e con l’espressione del viso, tenendo a memoria i percorsi che vanno svolgendosi e dirigendo lo sguardo e la mimica ai vari gruppi strumentali nei momenti opportuni. È assolutamente un compito difficile, complicatissimo, che richiede preparazione, perseveranza, passione a non finire.

Ma, tornando alla mente, che cosa succede nella mente dei vari attori? Io credo che la conoscenza delle partiture sia per ognuno di loro così approfondita e solida da consentire l’attuazione di un comportamento costellato da automatismi acquisiti nel tempo. Ognuno sa ciò che deve fare e lo fa in stretta coordinazione con i colleghi dell’orchestra: un’intesa perfetta, senza dubbi, senza ripensamenti, come avviene per i compagni di cordata che lavorano all’unisono con lo scopo condiviso di conquistare la vetta ardita di una montagna. Abilità sopraffine, dunque, che hanno preso forma di automatismi perfetti, e immagino che molta parte in questi processi mentali sia giocata da quella istanza psicologica a cui fu dato il nome di inconscio o, per lo meno, di subconscio. Se l’orchestrale, nel far vibrare il proprio strumento, pensasse a ogni passo ciò che deve svolgere non ne verrebbe fuori alcunché di buono, questo è certo; si comporterebbe più o meno come fanno i principianti che non hanno ancora alcuna confidenza con il linguaggio della musica a livelli sublimi. Sul piano puramente organico è nel cervello che si attivano determinate funzioni: si mettono in moto una serie di circuiti riverberanti e sofisticate dinamiche processuali neuronali. È quel misterioso complesso di cinquanta miliardi di cellule nervose attive nel nostro sistema nervoso centrale a prendere e dare ordini, a dirigere segnali e impulsi elettrochimici, a far sì che le strade imboccate da questi segnali siano quelle giuste, attenendosi a codici di comportamento che inizialmente era stata la volontà a imporre, ma che in un secondo tempo hanno goduto di autonomia, di relativa libertà e rapidità di azione. L’orchestrale suona e osserva il direttore d’orchestra per avere le giuste indicazioni, ma più attivo ed essenziale è una sorta di direttore interno che a tutto quel trambusto di reti neuronali, di connessioni intersinaptiche, di scambi informativi tra dendriti e assoni dà al momento giusto un ordine infallibile all’intero sistema neuromotorio.
Ne nasce una sinfonia. Ma come quel direttore interno faccia a tenere in mano una situazione siffatta e come tutto l’insieme risponda senza errore alle disposizioni emanate, questo non lo so spiegare. E non so similmente dare una spiegazione al fatto che esista un meccanismo così inconcepibile. Parlo delle funzioni encefaliche e mi torna in mente il robot che fa cose straordinarie, ma agisce ubbidendo a un programma fisso e questo programma gli è stato dato da un programmatore, cioè da un cervello superiore a quello robotico. Qui, alla fine, mi perdo veramente e non riesco neppure a immaginare una risposta a tutto ciò. Ho forse capito che la mente umana risponde a un progetto di cui conosciamo nulla, proprio nulla?
Immagine di copertina tratta da SantaCecilia.it