La Patria in pericolo
Sono trascorsi oltre cent’anni, era il 15 maggio 1916 e il generale Conrad von Hötzendorf scatenava la terribile offensiva per attuare l’invasione in Terra italiana, una rivalsa o, meglio, una chiara vendetta alla defezione dell’ex alleato nella “Triplice” che, a far data dal 26 aprile, aveva denunciato la trentennale trascorsa alleanza con gli Imperi Centrali e si era schierato con le Potenze dell’Intesa: Francia, Inghilterra, Russia.
L’offensiva si svolse per iniziativa e intervento delle sole forze austroungariche, dopo che la Germania, per voce del capo di Stato Maggiore tedesco, Falkenhayn, non aveva dato la propria disponibilità a mettersi in gioco, già così provata sul fronte occidentale contro le forze francesi e inglesi.

Ricordiamo tre fasi che caratterizzarono questo imponente movimento di devastazione, andato sotto il nome di Strafexpedition o “Spedizione punitiva”.
La prima fase, decorrente dal 15 sino al 20 maggio 1916, andò a interessare il settore percorso dalla Val Lagarina e dalla Val d’Astico. L’attacco iniziale fu perpetrato dal gruppo di Armate dell’arciduca d’Austria, Eugenio: era l’11a Armata austriaca che fronteggiava la 1a Armata italiana. L’avanzata, nel giro di cinque giorni, portò le truppe austroungariche sino al Col Santo e all’Altipiano di Tonezza minacciando la nostra linea difensiva che da Coni Zugna, attraverso il massiccio del Pasubio, raggiungeva il Posina.
La seconda fase ebbe come scenario la zona dei Sette Comuni e si svolse dal 20 al 28 maggio 2016. Fu da subito caratterizzata da un pesante errore tattico da parte dei nostri Comandi, quello di ammassare preponderanti riserve di armati sulla linea avanzata. Si diede così notevole agio all’artiglieria avversaria nel concentrare i propri tiri micidiali su obiettivi di gran lunga rimunerativi. Era stato spinto in avanti il III Corpo d’Armata austriaco che riuscì ad avanzare, era il 28 maggio 1916, sino a lambire i margini dell’Altipiano di Asiago. Poiché la situazione venutasi a creare stava minacciando seriamente la sicurezza della stessa pianura vicentina, il generale Cadorna, capo di Stato Maggiore del nostro Esercito, tra il 20 e il 21 maggio istituì la 5a Armata affidandone il comando al generale Frugoni, con la consegna di costituire baluardo alle zone minacciate. L’11a Armata austriaca, nel periodo fra il 20 e il 25 maggio, si era portata a ridosso della nostra linea difensiva che collegava la Vallarsa con il Pasubio e la Val Posina. Le nostre difese andavano comunque progressivamente consolidandosi, mentre l’impeto offensivo delle armate di Conrad davano ormai chiari segni di cedimento.
La terza fase della “Strafexpedition” andò a interessare la linea di estrema resistenza italiana e si prolungò dal 29 maggio sino al 10 giugno 1916. Fu la fase più aspra del confronto armato fra le forze contrapposte. I nostri soldati primeggiarono valorosamente a Passo Buole il 30 maggio e in Val Posina fra il 28 maggio e il 5 giugno. Da segnalare l’estrema resistenza dei nostri Granatieri insieme alle Brigate Catanzaro, Pescara e Modena sul Cengio. I tentativi austriaci di portarsi più avanti furono tempestivamente rintuzzati dalla vivacità di fuoco e di assalto delle nostre truppe. Fu così che il generale Cadorna pensò, a partire dai primissimi giorni di giugno, a scatenare una controffensiva con il proposito di rigettare indietro la pressione dell’invasore. Conrad, da sempre acerrimo nemico dell’Italia, che già nel 1908, subito dopo il terremoto-maremoto di Messina avrebbe voluto approfittare del grave colpo subito dall’Italia per tentare una rapida sortita e metterla in ginocchio, fermato tuttavia nei propri propositi dal lungimirante imperatore Francesco Giuseppe, non desistette dagli ultimi disperati tentativi di opprimere lo storico nemico anche nell’occasione della Strafexpedition: volle lanciare un’estrema offensiva, nella prima metà di giugno, contro il Novegno, il Lemerle e il Monte Zovetto sull’Altipiano di Asiago, ma incontrò un muro insormontabile. La controffensiva architettata dal generale Cadorna mosse dal 16 giugno con gli iniziali successi sui Monti Magari, Fior e Castelgomberto, costringendo l’ondata austroungarica a rinunciare all’offensiva e ad attestarsi in posizione difensiva. Le sorti si erano definitivamente ribaltate e le truppe austroungariche d’invasione non trovarono soluzione migliore, a muovere dal 24 giugno, di un repentino arretramento.

In conclusione, costò cara questa dura lotta per la supremazia delle nostre forze sul territorio patrio: più di 76.000 Combattenti fra le nostre truppe e circa 30.000 fra quelle avversarie. Nel novero di queste perdite (morti, feriti, dispersi) oltre 6.000 furono i Caduti italiani in battaglia e circa 5.000 gli Austroungarici. Questo nel periodo dal 15 maggio al 18 giugno 1916, ma fino al 24 luglio la stessa controffensiva voluta dal generale Cadorna fu dispiegata con la sofferenza di gravissime perdite che quasi eguagliarono quelle occorse nelle prime fasi dell’avanzata austroungarica sopra descritte.
Sento qui il dovere di commemorare un Caduto del mio paese, Barge in provincia di Cuneo, il giorno stesso della cessazione della lotta, il 24 luglio 1916, sull’Altipiano di Asiago, Alpino del 1° Reggimento Carle Chiaffredo, classe 1880.
Le eroiche imprese dei nostri Combattenti di oltre cent’anni fa, dal 5 al 9 giugno 1916, sui capisaldi di Monte Fior e Monte Castelgomberto furono di tale ardimento e valore che – si può degnamente affermare – contribuirono ampiamente a salvare le sorti dell’impegno bellico italiano sull’Altopiano dei Sette Comuni nel pieno svolgersi della Strafexpedition (spedizione punitiva) scatenata dal gen. austriaco Conrad von Hötzendorf. Il 5 giugno venne sferrato il primo assalto. Era un lunedì in tarda mattinata allorquando divampò il fuoco distruttivo di una sessantina di cannoni austriaci, obici da campagna, da montagna e persino i mortai Skoda da 305 mm di diametro. Il bombardamento dirompeva senza sosta, per almeno sette ore, attenuato soltanto al momento in cui scattarono dalle loro trincee le fanterie austriache per gettarsi con furia inedita sui nostri avamposti. Aspri scontri si verificarono già dal 7 giugno nella zona di Monte Fior. Stiriani e Bosniaci avanzavano coraggiosamente ma furono inesorabilmente falciati dal fuoco di fucileria e mitragliatrici delle nostre posizioni. Le truppe del gen. Conrad puntavano con protervia verso l’invasione della pianura vicentina, là dove avrebbero avuto largo spazio per appropriarsi delle fertili terre italiane e per ricostituire un dominio di storica memoria. I colpi dell’artiglieria austriaca cadevano con effetti devastanti causando tra i nostri perdite elevate. Gli stiriani cercavano di aggirare le posizioni sul Castelgomberto, nel tempo stesso in cui i bosniaci attaccarono direttamente Monte Fior. Alle ore venti gli stiriani mossero l’assalto alla selletta sottostante il Castelgomberto, ma vennero ancora respinti da Alpini e Fanti in un impetuoso contrattacco. Le perdite furono altissime, morti e feriti precipitavano in basso lungo le balze della montagna. Si accese un selvaggio corpo a corpo. Fanti della Sassari e Alpini contesero furiosamente ogni metro di terreno al nemico. Mezz’ora dopo, purtroppo, Monte Fior cadde in mano agli assalitori. Due compagnie della Brigata Sassari e due del Batt. Argentera caricarono alla baionetta portando scompiglio e alte perdite fra i battaglioni bosniaci. Fino a tarda sera continuarono furiosi i combattimenti e, dopo una breve pausa, anche durante la notte e il giorno successivo. Cadde anche la cima del Castelgomberto dopo numerosi attacchi e contrattacchi nel corso dei quali perse la vita l’irredento triestino S.Ten. Guido Brunner, Medaglia d’Oro alla memoria. Dalle cime conquistate i combattenti austroungarici potevano soltanto guardare quella pianura agognata che non ebbero mai la ventura di raggiungere. La disperata, accanita difesa di Alpini e Sassaresi impedì il dilagarsi dell’invasione e costrinse le forze austriache a desistere dai loro intenti. La Brigata Sassari riuscì a riconquistare, dopo aspra lotta, i due Monti contesi; per la grandezza dell’impresa meritò il conferimento della Medaglia d’Oro al Valor Militare (Batt. 151° e 152° Ftr. Sassari). Al suo fianco si batterono con estremo coraggio gli Alpini del 2° e del 5° Reggimento: il loro valore fu premiato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare. La motivazione che accompagna l’onorificenza concessa al 2° Alpini recita: “Fulgido esempio di valore e virtù militari i battaglioni Val Maira, Argentera e Monviso, resistendo tenacemente con gravi perdite a superiori forze nemiche, mantenevano importantissime posizioni a Monte Fior e Castelgomberto. (6-7-8 giugno 1916)”. I Battaglioni del 2° Alpini erano guidati dai seguenti comandanti: il magg. Camillo Pasquali per il Val Maira, il magg. Mario Bongiovanni per il Monte Argentera, il magg. Ettore Bassignano per il Monviso.
16 Settembre, giorno di sangue
Siamo in Slovenia, Conca di Plezzo, tra i Monti Rombon e Cukla, veri cimiteri per gli Alpini del 2° Reggimento.
Riandiamo alla giornata funesta del 16 Settembre 1916. Erano le ore 8,15 allorché, dopo breve azione delle nostre artiglierie, tre compagnie del batt. Alpini Saluzzo balzarono all’attacco della linea austriaca dei Pini Mughi a quota 1582. Arrestati dal fuoco terribile delle artiglierie e delle numerosissime mitragliatrici che infuriavano dalle trincee intatte, gli Alpini resistettero sino all’imbrunire, quando infine giunse l’ordine di ripiegamento. Lo stesso 16 settembre si scatenò anche l’offensiva dell’artiglieria italiana contro le postazioni austriache sistemate sul Monte Rombon, causando reazioni di pari intensità. Alla medesima data un ordine di operazione inquadrava il Saluzzo fra i battaglioni Borgo San Dalmazzo a sinistra e Valcamonica a destra. Il fronte d’attacco era determinato fra quota 1583 e il salto del costone dei Pini Mughi. Da qui il battaglione Saluzzo avrebbe dovuto proseguire verso quota 1826 spingendo una compagnia sul costone di quota 1838. La 21a avrebbe avuto a disposizione due bombe a mano e una stuoia per ciascun soldato, più 50 pinze tagliafili.
Il Saluzzo, partito all’attacco nella zona dei Pini Mughi a quota 1583, dovette fermarsi di fronte al fuoco infuriato delle mitragliatrici austriache. La giornata si era conclusa con la perdita, tra morti, feriti e dispersi, di 13 ufficiali più il comandante di battaglione e 278 Alpini nel solo battaglione Saluzzo.
Il 16 settembre 1916 sarebbe dovuto passare alla storia come il giorno che, in seguito all’attacco al Rombon, annoverò il maggior numero di caduti cuneesi nel volgere dell’intero grande Conflitto mondiale.
Nessuno forse meglio del cap. Barbieri, ora con il nuovo grado di maggiore degli Alpini, avrebbe potuto descrivere con dettagli concreti alla mano lo svolgersi dell’azione portata avanti dal battaglione Saluzzo sul Rombon in quella giornata del 16 settembre, come si può leggere sulla relazione dallo stesso magg. Barbieri trasmessa in data 19 settembre 1916 al Comando del Sottosettore Rombon e al Comando del Settore n° 2. Sul tratto di fronte che da quota 1700 digradava verso il sentiero serpeggiante per Goricica Planina, in direzione ovest su quota 1583, era appostata, sino al 15 settembre 1916, la 15a compagnia del battaglione Borgo San Dalmazzo. La sera stessa di quel 15 settembre giunse sul posto la 21a compagnia del battaglione Saluzzo per sostituire la 15a del Borgo. Gli Alpini del Saluzzo avrebbero dovuto costituire la prima ondata d’assalto alle linee nemiche e pertanto si erano sistemati in trincea ben forniti di bombe a mano, pinze tagliafili e stuoie.
Il comandante della 21a, tenente Giuseppe Tornatore, prese con sé tre plotoni, ridiscese un vallone che separava le due posizioni avversarie e si avvicinò sino a circa duecento metri dallo sbarramento austriaco. Avanzavano, i suoi Alpini, a piccoli gruppi, con passo felpato e incedere felino e parve persino strano che nessuno dall’altra parte si fosse accorto della loro presenza, tanto più per il fatto che c’era una bella luna a rischiarare il terreno e perché, nonostante tutte le cautele prese per l’occasione, non era possibile escludere del tutto quel po’ di fruscio che il calpestio dei piedi provocava nell’insinuarsi guardingo. Le cose procedevano bene e il quarto plotone della 21a era arrivato a occupare ad ampio raggio tutta la trincea avanzata, mentre le altre due compagnie erano in procinto di scattare per la seconda e la terza ondata d’assalto.
La 22a scorreva lungo i camminamenti e la 23a si era acquattata a circa centocinquanta metri in piena luce lunare. Il movimento degli Alpini era iniziato sotto un’ondata di fuoco tremenda da parte dell’avversario, ma le compagnie del nostro battaglione non esitarono a balzare fuori dai loro appostamenti, tutte insieme alle ore otto e quindici nel tempo in cui le nostre artiglierie, rinforzate dalle bombarde, che avevano iniziato il fuoco alle sei e trenta precise, continuarono a tuonare gettando scompiglio fra le posizioni austriache. La compagnia che precedeva le altre era ancora la 21a, al comando del tenente Tornatore. Questi, con i tre plotoni che aveva portato in prossimità della barriera di fuoco avversaria, mosse decisamente all’attacco. In stretta sincronia anche il quarto plotone si lanciava dalle trincee per portarsi avanti; gli faceva seguito la 22a compagnia al completo. La 23a, intanto, con movimento rapido serrava sulle trincee facendo avanzare tre plotoni per dare manforte alle due compagnie all’attacco. La reazione della fucileria, delle bocche da fuoco e delle mitragliatrici avversarie fu spietata, caddero molti Alpini nella coraggiosa avanzata, ma il grosso del Saluzzo non demordeva e superò il terreno martoriato dai colpi portandosi assai vicino alle difese accessorie austriache. Il fuoco incrociato sviluppato dalle linee opposte era preciso ed efficace, il bersaglio anche molto evidente, le vittime fra gli Alpini sparse numerose sul campo di battaglia.
Nonostante l’ardimento e la foga guerresca dei nostri, l’urto contro le difese austriache non consentì tuttavia di superare la fronte di sbarramento. Trascorsero altre due ore o quasi, gli Alpini tenevano la posizione sulla quale si erano assestati, ma pareva che da lì non avessero altra possibilità di movimento. I colpi di fucile e di mitragliatrice, sparati da più direzioni, fendevano sinistramente l’aria già fosca per l’imperversare della battaglia.
Ad un certo punto, verso le undici o poco prima, il maggiore Barbieri si piegò dolorante portando entrambe le mani al fianco destro: una seconda pallottola di fucile lo aveva raggiunto e minacciava seriamente di compromettere la sua presenza in zona operativa. Vedeva, intanto, il maggiore degli Alpini, che si era venuta a creare una situazione di stallo, con i suoi uomini asserragliati sul terreno e il fuoco incessante che da parte austriaca li costringeva a stare a testa bassa.
Soltanto verso sera pervenne dal Comando di Sottosettore Rombon l’ordine di ripiegamento sulle trincee di partenza. Si provvide quindi a recuperare i numerosi feriti, ma per i morti non ci fu nulla da fare, per via di una recrudescenza del fuoco sviluppato dagli avversari verso le ore tre del 17 settembre. Fuoco che nulla valse nel tentativo di scoraggiare due ardimentosi ufficiali, i sottotenenti Lorenzo Gallo della 21a compagnia e Carlo Clerici della 22a, i quali verso sera, alla testa di un nutrito gruppo di volontari, avanzarono ancora sino quasi a toccare i reticolati avversari e riuscirono a recuperare quindici salme di Alpini caduti, fra cui due ufficiali. Non ce la fecero a portare indietro i corpi esanimi di altri dodici, dei quali tuttavia presero con sé i medaglioncini di riconoscimento e i documenti personali.

Il 18 settembre, verso le sette antimeridiane, dalle forze austriache veniva sferrato un attacco senza che ne seguisse uno sviluppo logico. Ma la cosa lasciava adito al timore che un nuovo attacco venisse tentato nottetempo. Perveniva nel frattempo al battaglione Saluzzo l’ordine di portarsi al Comando del Sottosettore al primo indizio di attività dell’avversario.
Su altri fronti il macello continuava e mieteva vittime in una proporzione orrenda: dalla settima alla nona battaglia dell’Isonzo, da settembre a novembre del 1916, caddero sul campo 77.300 Italiani e 74.300 Austriaci. Triste primato superato poi dalla decima battaglia che causò 112.000 vittime fra gli Italiani e 76.000 fra gli Austriaci.
Per maggiori approfondimenti vedasi: Mario Bruno, Il Battaglione Saluzzo.
La 10a Battaglia dell’Isonzo
Iniziava il 14 maggio 1917 e doveva protrarsi per tutto il mese. Era la 2a Armata comandata dal generale Luigi Capello a essere spinta in prim’ordine alla conquista del Kuk, del Vodice e del Monte Santo. L’invio dell’artiglieria alla 2a Armata, però, risultò tardivo e, in collusione con le avverse condizioni meteorologiche, causò il ritardo dell’attacco di preziosi e pregiudizievoli cinque giorni. Niente male per i nostri avversari i quali, agli ordini del generale Boroevic, riuscirono in tempo a organizzarsi e a occupare posizioni loro favorevoli sul Carso. D’altra parte, alla data del 15 maggio tutta la dorsale del Kuk-Vodice resisteva in mano agli Austriaci. Il ritardo di quei cinque giorni ebbe pure implicazioni sugli effetti decisionali della nostra 3a Armata la quale poté far avanzare tre Corpi d’Armata soltanto il 23 maggio.
Pesanti furono i tributi pagati dai nostri Combattenti nella fase di conflittualità aperta fra il 14 e il 31 maggio 1917: quasi 112.000 uomini, fra i quali oltre 13.500 morti, i rimanenti feriti o dispersi.
Venti giorni sull’Ortigara…
Le battaglie sull’Isonzo: Cadorna ne aveva sferrate quattro nel primo anno di guerra, il 1915, altre cinque per tutto il 1916 e due nel 1917. Erano state azioni offensive dirette ai territori di Plezzo, di Gorizia, del Carso, di Tolmino, del Monte San Michele, del Sabotino, tutte battaglie di logoramento foriere di ben pochi vantaggi territoriali e responsabili di un’ecatombe di vite umane.
La dodicesima e ultima battaglia dell’Isonzo fu un capovolgimento di iniziative: fummo noi a subire l’urto invasivo delle falangi austro-tedesche e a doverci difendere.
Cent’anni e più trascorsi aveva luogo la decima battaglia dell’Isonzo che, dalla metà di maggio 1917 sino al mese di giugno, andò a interessare le zone di guerra del Kuk, di Plava, del Vodice, del Monte Santo, del Monte San Michele, del Monte Trstelj e dell’Armada sul Carso. Le nostre truppe riuscirono a conquistare il Kuk e il Vodice.
Sull’Altipiano di Asiago l’attacco era stato previsto per il 10 giugno 1917, ma fu preceduto da un tragico episodio: era stata preparata una mina poco distante da Zebio, che sarebbe dovuta detonare il 10 giugno mentre il nostro fuoco di distruzione avrebbe sconvolto le posizioni austriache e il loro sistema difensivo accessorio. Due giorni prima, però, per cause mai accertate, la mina esplose. Transitava proprio in quei pressi una formazione cospicua di ufficiali della brigata Catania, inviata in ricognizione. Il triste evento decretò la morte di ventidue fra quegli ufficiali e di un centinaio di soldati.
Giunse poi il 10 giugno, giorno dell’attacco, viziato da una nebbia talmente densa da impedire di vedere poco al di là delle nostre posizioni. Sicché le possibilità di divellere le difese accessorie nemiche con la nostra artiglieria furono di gran lunga vanificate e questa fu la fortuna per le trincee austriache che poterono così subire danni limitati. L’attacco si sarebbe potuto, si sarebbe dovuto a buona ragione ritardare, almeno di poco, ma il gen. Montuori fu irremovibile nelle sue decisioni. I comandanti che diressero l’attacco ebbero modo di constatare la quasi totale integrità dei reticolati nemici, come risposta indesiderata ai nostri intensi e dispersivi bombardamenti. Per altro verso i tiri partiti dalle artiglierie austriache raggiungevano con ottime probabilità di successo i nostri punti vulnerabili, semplicemente perché erano stati preparati in precedenza, in seguito a calcoli precisi.
Soprattutto gli Alpini dei diciotto battaglioni della 52a divisione dovettero vedersela dolorosamente con i reticolati del tutto resistenti e con le raffiche di mitragliatrici sapientemente occultate e orientate per eseguire micidiali tiri incrociati. La giornata del 10 giugno fu un vero inferno di fuoco, le forze austriache opponevano una resistenza leonina e si dovette soltanto ai Gruppi Alpini 8° e 9° del gen. Di Giorgio se conseguimmo alcuni successi, come quello della conquista del Passo dell’Agnella e della cattura di circa trecento prigionieri.
Il giorno appresso il gen. Cadorna, portatosi al Comando della 6a Armata e constatata la situazione più che mai critica, fece sospendere immediatamente l’azione. In quel frangente così pericoloso si sarebbero dovute ricondurre le nostre truppe sulla linea di partenza per riordinarle e riorganizzare l’attacco. Invece, per decisione incomprensibile e assurda, furono lasciate alla mercé dei tiri nemici, in condizioni estremamente difficili da sopportare. Fu così che le perdite, poco prima ammontanti a meno di 7.000 uomini (fra morti, feriti e dispersi), a fine giugno salirono a quasi 24.000.

I generali Montuori e Mambretti, arbitri dell’attacco sferrato, coltivavano ancora la speranza di un rinnovato impeto aggressivo, ma non fecero bene i conti con l’arrivo sul posto di cinque battaglioni e mezzo di riserve austriache, gettati avanti per un poderoso contrattacco, fortunatamente respinto dai nostri, nella notte fra il 14 e il 15 giugno. La 52a divisione dovette lamentare la perdita di quasi 2.500 suoi soldati.
La determinazione era per un nuovo attacco il giorno 17, sventato tuttavia dall’inclemenza delle condizioni atmosferiche. Tutto attorno all’Ortigara e al Monte Campigoletti affluivano nel frattempo nuove artiglierie e rincalzi austro-ungarici, e questo fu un nuovo ostacolo che mandava in briciole i calcoli dei nostri generali.
Arrivarono alfine per i nostri Combattenti momenti di vera gloria allorché, il 19 giugno, dopo un giorno di preparazione distruttiva dovuta ai tiri della nostra artiglieria e dopo una notte di burrasca, le fanterie della 52a divisione, insieme alle truppe alpine, sferrarono un potente assalto che si concluse consegnando nelle loro mani la contesa cima dell’Ortigara. Più di mille Austro-ungarici vennero tratti in prigionia, ma l’avanzata non poté spingersi oltre. Nell’insieme subimmo pure sensibili perdite.
La conquista dell’Ortigara si dovette presto confrontare con un terribile contrattacco austro-ungarico che, nel periodo dal 24 al 25, permise ai nostri avversari di riappropriarsi del sito ceduto il precedente 19 giugno. Il gen. Como Dagna non si diede per vinto e rilanciò la 52a divisione nell’intento di respingere gli avversari, senza che il tentativo sortisse esiti di qualche rilievo. Ancora, le perdite assommarono in quell’occasione a quasi 6.000 uomini.
Il 29 giugno gli Austriaci si fecero ancora più intraprendenti e si spinsero ulteriormente contro le nostre formazioni sino al Passo dell’Agnella, costringendole a ripiegare sulle posizioni di partenza che avevano tenuto il 10 giugno.
La minaccia austro-tedesca
Autunno 1917: doveva avere inizio o, meglio, doveva manifestarsi sempre più apertamente, quello che fu definito come il dissidio fra il gen. Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano e il gen. Capello, comandante della 2a Armata. Cadorna, nell’imminenza di un atteso attacco in forze degli austro-tedeschi, era fermamente orientato su una disposizione difensiva dei nostri reparti. Capello, per altro verso, già pensava a una prepotente controffensiva che valesse a ricacciare indietro la minaccia nemica.
Già Cadorna aveva emanato un ordine, in data 20 ottobre 1917, nel quale ribadiva la non condivisione del progetto ideato da Capello di rispondere all’attacco nemico con una controffensiva in grandissimo stile. La cosa sarebbe stata inattuabile al solo considerare l’entità delle nostre forze di fanteria e per via anche della forte scarsità di complementi che sarebbero serviti a sostituire, come truppe fresche, le inevitabili perdite di sicura gravità.
Il gen. Cadorna riportava all’attenzione del comandante la 2a Armata la dotazione di artiglierie in campo: 2.500 pezzi di tutti i calibri più 1.134 bombarde in forza all’Armata, valutate sufficienti perché venisse attuato in modo completo un “solidissimo schieramento di difesa a oltranza”.
Lo sviluppo della situazione, quel poco sorridente 20 ottobre, doveva incontrare altri nodi da sciogliere: il gen. Capello fu costretto a farsi ricoverare a Padova per un attacco clinicamente importante di nefrite, quindi lasciò il comando dell’Armata al gen. Montuori. Contemporaneamente un ufficiale ceco della parte avversa disertava e, passato nelle nostre linee del Vodhil, rilasciava alcune preoccupanti informazioni: nei pressi di Tolmino truppe tedesche andavano a rinforzare gli schieramenti austro-ungarici e tutto dava a pensare che l’attacco si sarebbe scatenato nella zona compresa fra Dolie e Santa Maria per puntare rapidamente alla conquista del Kolowrat. Inoltre l’attacco si sarebbe esteso da Tolmino fino a Plezzo. Di fronte a queste minacce sarebbero parse urgenti prese di posizione definitive sorrette da chiarezza di propositi, cosa che invece non avvenne per il perdurare di quell’insanabile contrasto di vedute. Qualcosa dunque andava a incrinarsi nei rapporti decisionali e di comando fra i vertici dell’Esercito e da qui dovevano avere origine dannose ripercussioni per lo stesso andamento della dodicesima Battaglia dell’Isonzo.
Caporetto: l’attacco
Il giorno di sabato 24 ottobre cade la ricorrenza di una data infausta, occorsa cento e più anni fa: la chiamarono “la disfatta di Caporetto”. Credo sia doveroso, come Italiani consapevoli della nostra evoluzione storica lungo tutto il “secolo breve”, portare il pensiero, anche solo per un fuggente attimo, a quegli episodi che, a partire dal 24 ottobre appunto – era il 1917 – lasciarono segni profondi nelle coscienze e nelle speranze di coloro, i nostri avi ormai, che ne furono i diretti protagonisti. Per noi urge il sacro dovere di far conoscere alle nuove generazioni i significati più reconditi di ciò che fu la Grande Guerra, di ciò che furono e che sono tutte le guerre, perché non si dimentichino le sofferenze, gli orrori, perché si faccia eloquente eredità di quanto successe sul Fronte orientale della nostra Italia, perché si crei una cultura genuina di pace e di collaborazione.
Torniamo dunque indietro di un po’ d’anni, alla vigilia di quel 24 ottobre 1917. I nostri Combattenti, già provati dalle mille vicissitudini che la guerra aveva loro imposto, vivevano un’atmosfera di incertezza, di attesa, accompagnata da un timore serpeggiante e inspiegabile, resa ancor più grave e sofferta da sopravvenute condizioni meteorologiche avverse che, soprattutto sui monti della Slovenia, il Rombon, il Cukla, il Monte Nero, il Polovnig, il Canin, avevano ammantato in breve tempo il paesaggio di un bianco gelido e sferzato i volti dei nostri soldati con raffiche di vento e di bufera.
Più a valle, nella Conca di Plezzo, alpini e fanti sostavano nelle trincee, i piedi affondati nel terreno umido e fangoso, coperti alla meglio per ripararsi dalle temperature pungenti.
La linea del nostro fronte era ben difesa da bocche da fuoco con abbondante munizionamento a disposizione. La calma apparente che avvolgeva tutto quello scenario era qualcosa di sordo, di inusuale, quasi foriera di sottili sospetti e presagi. Le nostre artiglierie pareva dormissero, sprofondate in un enigmatico silenzio, ma tutto intorno stavano cautamente cercando di attestarsi su posizioni favorevoli, stranamente indisturbate, formazioni di attaccanti austroungarici e tedeschi.
Intanto s’era messo a piovere in pianura e a nevicare sulle alture.
Come in un incubo, scoccate le due di notte del 24 ottobre, quel prolungato silenzio venne infranto, all’improvviso, da uno, dieci, centinaia di colpi di cannone provenienti dalle postazioni dei nostri avversari. Si fece chiaro come di giorno, uno sfolgorio di lampi che fendevano la nebbia e il fumo delle esplosioni divampava su un fronte assai ampio, dalla Conca di Plezzo all’altopiano della Bainsizza. I colpi, ora a migliaia, non si abbattevano sulle nostre prime linee, ma andavano a cadere oltre, prediligendo le zone di fondo valle. Il terreno, inoltre, era percosso da ordigni che, esplodendo, rilasciavano gas mortali. Fu un migliaio di questi proietti a immobilizzare falangi intere di nostri soldati lasciandoli inermi, come impietriti, nella stessa posizione che poco prima avevano assunto.
Durò due ore e mezzo il terribile bombardamento, tanto che, tornata come d’incanto una calma subdola quanto foriera di interrogativi, si arrivò persino a pensare, da parte nostra, che il tempo fattosi proibitivo avesse consigliato al nemico di desistere dal far seguire un attacco in grande stile della fanteria al tiro distruttivo dell’artiglieria. Pura illusione, perché a partire dalle ore sei ripresero a tuonare rabbiosamente tutti i pezzi insieme che il nemico aveva schierato sul fronte. Iniziava una terribile fase di disastro dilagante che per prima cosa colpì, devastandola, la rete di comunicazioni che collegava fra loro i nostri posti di comando.
Primo risultato per noi drammatico, dunque, fu l’impossibilità di diramare ordini e disposizioni per far fronte all’accaduto. L’inferno di ferro e fuoco raggiunse l’esasperazione che non diede segni di tregua sino alle otto del mattino. Possiamo soltanto immaginare l’angoscia che attanagliava alla gola i nostri soldati, sconvolti da un finimondo di esplosioni e turbati, forse ancor più, dal fatto che non si sentivano entrare in azione le nostre artiglierie. Fu questa una condizione del tutto favorevole alle fanterie avversarie le quali, pressoché indisturbate, poterono balzare dai loro ricoveri, trincee, caverne e irrompere sulle nostre linee avanzate nel giro di un’ora, dalle otto alle nove dunque.
La facilità con cui gli austro-tedeschi riuscirono a penetrare nel territorio da noi presidiato, con l’inspiegabile complicità del silenzio delle nostre artiglierie – ed erano 2.400 bocche da fuoco sistemate a partire dal Monte Rombon sino a Gorizia – rappresentò il secondo risultato disastroso per la sorte delle nostre truppe.
In Conca di Plezzo avevamo schierata la 50a divisione agli ordini del gen. Arrighi. In prossimità del Monte Rombon erano appostati tre battaglioni di alpini.

Qui, sul Rombon (foto a lato), gli austroungarici dovettero vedersela amaramente con il valore degli alpini del 2° reggimento – battaglioni Borgo San Dalmazzo, Dronero, Saluzzo – e del I/88° brigata Friuli che seppero respingere ogni tentativo di sopraffazione.
Gli imperiali avanzarono in Conca di Plezzo calpestando i cadaveri che avevano disseminato con i proietti a gas. Restavano ancora in mano italiana, a sera inoltrata, le posizioni schierate a difesa della Stretta di Saga. La stessa cosa per il Monte Nero.
Tornando ai fatti d’arme conseguiti all’attacco austro-tedesco in Conca di Plezzo, la prima linea, presidiata dalle formazioni del IV corpo d’Armata (gen. Cavaciocchi), resistette validamente all’urto, mentre un cedimento inatteso si verificò lungo le seconde linee.
Un terzo risultato negativo provenne dall’intempestivo o nullo intervento delle riserve. La situazione di emergenza, corroborata dal dilagare di un panico crescente fra le nostre truppe, fece sì che le brigate Taro e Spezia volgessero in ritirata e che una buona parte dei nostri artiglieri, in preda a un panico devastante, ne seguissero l’esempio lasciando i propri pezzi, con tutte le munizioni in dotazione, alla mercé degli attaccanti. Erano suonate le ore 15 e 16, ma il IV corpo d’Armata teneva ancora saldamente la linea di resistenza a oltranza quasi per intero. La stessa Stretta di Saga non era ancora minacciata da vicino. I punti forti, quelli che avrebbero dovuto opporre una ferrea resistenza ai tentativi nemici di irruzione, furono i primi a venir meno.
Il generale Farisoglio, comandante la 43a divisione del IV corpo d’Armata, diede ordine di ripiegamento alle proprie truppe e salì egli stesso in auto dirigendo alla volta di Caporetto per raggiungere Creda, sede del corpo d’Armata, e ricevere, si pensa, ordini e istruzioni ma, giunto all’altezza del ponte di Caporetto, venne fatto prigioniero, primo generale della guerra a cadere in mano al nemico.
La 50a divisione del gen. Arrighi ripiegò in direzione delle Stretta di Saga, assumendo ulteriori comportamenti in palese contrasto con il piano formulato dal comandante del IV corpo d’Armata. Ma questa è un’altra storia.